Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 05 novembre 2020, n. 24780

Giornalisti pubblicisti formalmente legati alla società con
contratto di lavoro autonomo, Ritenuta natura subordinata dei rapporti
intercorrenti, Contenuto tipicamente giornalistico dell’attività prestata,
Modalità rivelatrici della natura dipendente del relativo svolgimento

 

Rilevato che

 

1. la Corte di appello di Roma, in riforma della
sentenza di primo grado, ha respinto l’opposizione di E. s.p.a. avverso il
decreto ingiuntivo ottenuto dall’INPGI per l’importo di € 98.548,00 a titolo di
contributi non versati, somme aggiuntive e sanzioni di legge, in relazione alla
ritenuta natura subordinata dei rapporti intercorrenti tra l’opponente e
quattro giornalisti pubblicisti formalmente legati alla società con contratto
di lavoro autonomo;

1.1. ha ritenuto il giudice di appello che la prova
orale aveva confermato sia il contenuto tipicamente giornalistico dell’attività
prestata (consistente nella raccolta delle notizie, preparazione dei testi e
lettura degli stessi nei notiziari mandati in onda dall’emittente di proprietà
della società), riconducibile alla figura professionale del redattore, sia
l’espletamento della prestazione con modalità rivelatrici della natura
dipendente del relativo svolgimento, quali la necessità di assicurare la
continuità del servizio, l’osservanza di turni mensilmente predisposti da
dipendente della società, la fruizione delle ferie in termini compatibili con
la copertura del servizio, la percezione di un compenso mensile fisso, la
utilizzazione di strutture aziendali (computer e scrivanie); ha ritenuto non
specificamente contestati i conteggi alla base della pretesa dell’istituto
previdenziale e inammissibile la richiesta di chiamata in causa dell’INPS, non
consentita in sede di appello in ragione del vincolo scaturente dal principio
del doppio grado di giudizio;

2. per la cassazione della decisione ha proposto
ricorso E. s.p.a. sulla base di due motivi; la parte intimata ha resistito con
tempestivo controricorso;

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo di ricorso parte ricorrente
deduce violazione e falsa applicazione dell’art.
2094 cod. civ. censurando, in sintesi, la sentenza impugnata per avere
condotto la verifica della natura dipendente dei rapporti alla base della
pretesa dell’INPGI sulla scorta di parametri non conformi alla nozione legale
di subordinazione e, in particolare, pretermettendo del tutto il riferimento
alla volontà delle parti espressa nei contratti di lavoro autonomi stipulati
con la società;

2. con il secondo motivo di ricorso deduce omesso
esame di fatto controverso e decisivo; richiamate (e trascritte) le deposizioni
testimoniali poste a fondamento del decisum di secondo grado, sostiene che
l’accertamento della natura subordinata dei rapporti in controversia era
scaturito dalla valorizzazione di elementi neutri o, comunque, privi di
decisività, non essendo dato intravedere in tali deposizioni il riferimento
all’esercizio di un potere disciplinare, direttivo o di vigilanza da parte
della società sui giornalisti;

3. il primo motivo di ricorso è infondato;

3.1. come è noto requisito fondamentale del rapporto
di lavoro subordinato – ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro
autonomo – è il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo,
organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende
dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di una assidua
attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative
e dall’esercizio del potere disciplinare e che l’esistenza di tale vincolo va
concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito
al lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che ogni attività
umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro
subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo; non è idoneo a surrogare il
criterio della subordinazione nei precisati termini neanche il “nomen iuris”
che al rapporto di lavoro sia dato dalle sue stesse parti il quale, pur
costituendo un elemento dal quale non si può in generale prescindere, assume
rilievo decisivo ove l’autoqualificazione non risulti in contrasto con le
concrete modalità del rapporto medesimo (Cass. n.
19199/2013, n. 4500/2007). Del resto,
<<ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro, essendo l’iniziale
contratto causa di un rapporto che si protrae nel tempo, la volontà che esso
esprime ed il “nomen iuris” che utilizza non costituiscono fattori assorbenti,
diventando l’esecuzione, per il suo fondamento nella volontà inscritta in ogni
atto di esecuzione, la sua inerenza all’attuazione della causa contrattuale e
la sua protrazione, non solo strumento d’interpretazione della natura e della
causa del rapporto di lavoro (ai sensi dell’art.
1362 cod. civ., comma 2), bensì anche espressione di una nuova eventuale
volontà delle parti che, in quanto posteriore, modifica la volontà iniziale
conferendo, al rapporto, un nuovo assetto negoziale>>(v. Cass. 5 luglio
2006, n. 15327); pertanto, sia nell’ipotesi in cui le parti, pur volendo
attuare un rapporto di lavoro subordinato, abbiano simulatamente dichiarato di
volere un rapporto di lavoro autonomo al fine di eludere la disciplina legale
inderogabile In materia (Cass., n. 19199/2013
cit.), sia nel caso In cui l’espressione verbale abbia tradito la vera
intenzione delle parti, sia infine nell’ipotesi in cui, dopo aver voluto
realmente il contratto di lavoro autonomo, durante lo svolgimento del rapporto
le parti stesse, attraverso fatti concludenti, mostrino di aver mutato
intenzione e di essere passate ad un effettivo assetto di interessi corrispondente
a quello della subordinazione, il giudice di merito, cui compete di dare
l’esatta qualificazione giuridica del rapporto, deve a tal fine attribuire
valore prevalente – rispetto al “nomen iuris” adoperato in sede di conclusione
del contratto – al comportamento tenuto dalle parti nell’attuazione del
rapporto stesso” (v. Cass. n. 8407/2001, n.
9617/2000, n. 4533/2000);

3.2. in ordine alla qualificazione di un rapporto di
lavoro come autonomo o subordinato, in presenza di prestazione con elevato
contenuto intellettuale, questa Corte ha costantemente affermato che è
necessario verificare se il lavoratore possa ritenersi assoggettato, anche in
forma lieve o attenuata, alle direttive, agli ordini e ai controlli del datore
di lavoro, nonché al coordinamento dell’attività lavorativa in funzione
dell’assetto organizzativo aziendale (cfr. Cass.
n. 18414/2013, n. 7517/2012, n. 3594/2011), potendosi ricorrere altresì, in
via sussidiaria, a elementi sintomatici della situazione della subordinazione
quali l’inserimento nell’organizzazione aziendale, il vincolo di orario,
l’inerenza al ciclo produttivo, l’intensità della prestazione, la retribuzione
fissa a tempo senza rischio di risultato; in particolare, ai fini della
configurazione del lavoro dirigenziale – nel quale il lavoratore gode di ampi
margini di autonomia ed il potere di direzione del datore di lavoro si
manifesta non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma essenzialmente
nell’emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico, coerenti
con la natura ampiamente discrezionale dei poteri riferibili al dirigente – il
giudice di merito deve valutare, quale requisito caratterizzante della
prestazione, l’esistenza di una situazione di coordinamento funzionale della
stessa con gli obiettivi dell’organizzazione aziendale, idonea a ricondurre ai
tratti distintivi della subordinazione tecnico-giuridica, anche se nell’ambito
di un contesto caratterizzato dalla c.d. subordinazione attenuata aziendale (Cass. n. 3640/2020, n.
9463/2016, n.7517/2012);

3.3. in particolare in caso di prestazioni di natura
intellettuale aventi contenuto creativo, quale è indubitabilmente quella
giornalistica (Cass. n. 22785/2013),
l’elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui si
presenta in forma attenuata in quanto non agevolmente apprezzabile a causa
dell’atteggiarsi del rapporto, sicché occorre fare riferimento a criteri
complementari e sussidiari come quelli della collaborazione, della continuità
delle prestazioni, dell’osservanza di un orario determinato, del versamento a
cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell’attività
lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell’assenza in
capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale – che, privi
ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente come indizi
probatori della subordinazione (Cass. n. 5436/2019, n.
13858/2009, n. 10043/2004, n. 3471/2003, n.
11182/2000; Cass. Sez. Un. n. 379/1999);

3.4. la decisione di appello risulta coerente con
tale impostazione sia laddove, rispetto alla qualificazione operata dalle
parti, riconosce come prevalenti le concrete modalità di svolgimento del
rapporto sia perché la valorizzazione dei cd. indici sussidiari è frutto della
specifica considerazione delle caratteristiche dell’attività dedotta la quale,
per i suoi elevati contenuti intellettuali, non si presta ad essere oggetto di
penetranti poteri conformativi della parte datoriale (v. in tema di criteri di
qualificazione riferiti al lavoro giornalistico Cass.
n. 6983/2004, 7931/2000, n. 833/2001) ;

3.5. le ulteriori deduzioni del ricorrente, intese a
contrastare la valenza probatoria degli elementi utilizzati dal giudice di
merito sulla base di un diverso apprezzamento degli stessi, sono inammissibili
in quanto la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro è censurabile in
sede di legittimità soltanto limitatamente alla scelta dei parametri normativi
di individuazione della natura subordinata o autonoma del rapporto, mentre
l’accertamento degli elementi, che rivelino l’effettiva presenza del parametro
stesso nel caso concreto attraverso la valutazione delle risultanze processuali
e che siano idonei a ricondurre le prestazioni ad uno dei modelli, costituisce
apprezzamento di fatto che se, come nel caso di specie, immune da vizi giuridici
e adeguatamente motivato, resta insindacabile in Cassazione (v. Cass. n.
16681/2007, n. 14160/2014);

4. il secondo motivo di ricorso non è articolato con
modalità coerenti con l’attuale configurazione dell’art.
360, comma 1 , n. 5 cod. proc. civ. La giurisprudenza di questa Corte è
ormai consolidata (tra le altre Cass., Sez. Un. 33679/ 2018) nell’affermare
che: – il novellato testo dell’art. 360, n. 5, cod.
proc. civ. (come riformulato dall’art. 54 del decreto-legge 22 giugno
2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto
2012, n. 134), applicabile ratione temporis, ha introdotto nell’ordinamento
un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale
o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, oltre ad
avere carattere decisivo; – l’omesso esame di elementi istruttori non Integra
di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico
rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice,
benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; –
neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali
da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante ai sensi della
predetta norma; – nel giudizio di legittimità è denunciabile solo l’anomalia
motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente
rilevante, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, in quanto attiene
all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della
sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali,
risolvendosi nella violazione dell’art. 132, comma
2, n. 4, cod. proc. civ. (non denunciata nella fattispecie);

4.1. la parte ricorrente non individua alcuna
specifico fatto storico il cui esame sarebbe stato omesso dal giudice di merito
ma prospetta, in concreto, una diversa ed a sé più favorevole lettura del
complesso delle deposizioni testimoniali, del cui avvenuto esame la Corte di
merito ha dato peraltro espressamente atto; le ragioni di critica si risolvono
quindi nella sollecitazione di un diverso apprezzamento delle acquisizioni
istruttorie, denunzia preclusa in sede di legittimità secondo quanto già
osservato in precedenza (v. parag.3.5.);

5. al rigetto del ricorso consegue il regolamento
delle spese di lite secondo soccombenza;

6. sussistono i presupposti processuali per
l’applicabilità dell’art. 13, comma
1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre
2012, n. 228, se dovuto il contributo;

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla
rifusione delle spese di lite che liquida in € 5.000,000 per compensi
professionali, € 200,00 per esborsi oltre spese forfettarie nella misura del
15/% e accessori come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 05 novembre 2020, n. 24780
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