Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 novembre 2020, n. 25221

Contratti di associazione in partecipazione, Carattere
simulato del rapporto di associazione, Assenza di un rendiconto, Obbligo
contrattuale in capo all’associante, Natura subordinata dei rapporti di lavoro

 

Rilevato che

 

1. la Corte di Appello di Venezia, con sentenza
pubblicata in data 8 aprile 2015, in riforma della pronuncia di primo grado, ha
respinto l’opposizione proposta da A.M.B. nei confronti dell’INPS che, sulla
base di un verbale di accertamento ispettivo del 9 luglio 2007, aveva ritenuto
la natura subordinata dei rapporti di lavoro intrattenuti con O.L. e A.S. dal
2003 al 2006, disconoscendo i contratti di associazione in partecipazione
siglati con le due addette alle vendite;

2. la Corte – in estrema sintesi – ha ritenuto,
sulla scorta del materiale probatorio acquisito, che costituisse
“argomento insuperabile al fine di affermare il carattere simulato del
rapporto di associazione la carenza palesatasi nell’attuazione del rapporto con
riguardo all’assenza di un rendiconto, della cui consegna, costituendo obbligo
contrattuale in capo all’associante, avrebbe dovuto fornire la dimostrazione lo
stesso”;

3. per la cassazione di tale pronuncia ha proposto
ricorso la B. con unico articolato motivo; ha resistito l’INPS con
controricorso;

 

Considerato che

 

1. con il ricorso si denuncia: “violazione e
falsa applicazione dell’art. 2549 c.c., in
relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”; si
critica la Corte territoriale per aver ritenuto che le deposizioni delle
lavoratrici interessate “non fossero affidabili”; si eccepisce che
“dall’esame delle risultanze delle prove documentali e testimoniali
durante il primo grado di giudizio è emersa l’assenza di eterodirezione nel
caso de quo” e che “dalle dichiarazioni testimoniali … è emerso che
l’orario rispettato dalle lavoratrici fosse di massima e non rigido”; si
deduce che la prova della natura subordinata del rapporto grava sull’INPS e che
nella specie mancherebbe “la sottoposizione del prestatore alle specifiche
direttive dell’imprenditore”;

in subordine “si chiede che vengano detratti i
contributi già versati alla gestione separata”, affermando che
“erroneamente” la Corte veneziana avrebbe disatteso la relativa
istanza;

2. il motivo, con cui si denuncia un preteso error
in iudicando, non può trovare accoglimento;

come noto, infatti, il vizio di violazione o falsa
applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art.
360, primo comma, n. 3, c.p.c., ricorre o non ricorre per l’esclusivo
rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata
quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla,
ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie
non esattamente comprensibile nella norma (tra le molteplici, Cass. n. 26307
del 2014; Cass. n. 22348 del 2007); sicché il sindacato sulla violazione o
falsa applicazione di una norma di diritto presuppone la mediazione di una
ricostruzione del fatto incontestata perché è quella che è stata operata dai
giudici del merito; al contrario, laddove si critichi la ricostruzione della
vicenda storica quale risultante dalla sentenza impugnata, si è fuori dall’ambito
di operatività dell’art. 360, primo comma, n. 3,
c.p.c., e la censura è attratta inevitabilmente nei confini del sindacabile
esclusivamente ex art. 360, primo comma, n. 5,
c.p.c., nella formulazione tempo per tempo vigente, vizio che appunto
postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti;

nella specie parte ricorrente, lungi
dall’individuare l’errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte
territoriale nell’ascrivere significato all’enunciato normativo contenuto nell’art. 2549 c.c. che assume violato, si diffonde nel
richiamo a risultanze istruttorie, di cui propone una diversa lettura,
criticando le valutazioni operate dal giudice che ha il dominio del merito e,
nella sostanza, invocando un sindacato precluso a questa Corte Suprema di
legittimità, al di fuori degli angusti limiti imposti dalla novella
formulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c.,
così come rigorosamente interpretato da Cass.
SS.UU. n. 8053 e n. 8054 del 2014 (con principi costantemente ribaditi
dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del
2015, oltre che dalle Sezioni semplici) di cui parte ricorrente non tiene alcun
conto;

peraltro la sentenza impugnata è conforme
all’orientamento di questa Corte in ordine al contratto di associazione in
partecipazione (da ultimo Cass. n. 31007 del 2019);
si è così avuto modo di statuire (Cass. n. 1692
del 2015) che “la riconducibilità del rapporto di lavoro al contratto
di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da
parte dell’associato ovvero al contratto di lavoro subordinato con retribuzione
collegata agli utili, esige un’indagine del giudice di merito volta a cogliere
la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto,
degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in
particolare, che, mentre il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico
dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa, il
secondo comporta un effettivo vincolo di subordinazione più ampio del generico
potere dell’associante di impartire direttive e istruzioni al cointeressato,
con assoggettamento al potere gerarchico e disciplinare di colui che assume le
scelte di fondo dell’organizzazione aziendale”; si è, altresì, precisato (Cass. n. 1817 del 2013) che “in tema di
contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione
lavorativa da parte dell’associato, l’elemento differenziale rispetto al
contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili d’impresa
risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l’apporto della
prestazione da parte dell’associato, dovendosi verificare l’autenticità del
rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa,
la partecipazione dell’associato al rischio di impresa e alla distribuzione non
solo degli utili, ma anche delle perdite. Pertanto, laddove è resa una
prestazione lavorativa inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione
aziendale, senza partecipazione al rischio d’impresa e senza ingerenza ovvero
controllo dell’associato nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nel
rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale favor accordato dall’art. 35 Cost., che tutela il lavoro in tutte le
sue forme ed applicazioni” (successiva conf. Cass.
N. 4219 del 2018);

ciò posto, secondo questa Corte – con insegnamento
da cui non vi è ragione di discostarsi – in tema di distinzione fra contratto
di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da
parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione
collegata agli utili dell’impresa, la riconducibilità del rapporto all’uno o
all’altro degli schemi predetti esige un’indagine del giudice del merito –
volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del
concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti – il cui
accertamento, se adeguatamente e correttamente motivato, non è censurabile in
sede di legittimità (Cass. n. 24871 del 2008);

4. conclusivamente il ricorso va dichiarato
inammissibile, essendo inammissibile anche la richiesta, formulata in via
subordinata dalla ricorrente, “che vengano detratti i contributi già
versati alla gestione separata”, in quanto si chiede a questa Corte una
pronuncia di merito non sorretta da un motivo di censura accolto e neanche
specificamente formulato; le spese seguono la soccombenza liquidate come da
dispositivo;

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228
del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1-bis dello stesso art. 13
(cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la
ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.000,00, oltre euro
200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13,
se dovuto.

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