Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 novembre 2020, n. 25225

Risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale,
Regolarizzazione della posizione contributiva e previdenziale, Decadenza dal
beneficio della riserva previsto in favore degli invalidi civili,
lllegittimità dell’accertamento medico

 

Rilevato che

 

1. la Corte d’Appello di Lecce, in riforma della
sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato tutte le domande,
ha accolto il ricorso proposto da S.D.L. nei confronti del Ministero del Lavoro
della Salute e delle Politiche Sociali ed ha condannato il Ministero al
risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, quantificato
rispettivamente in € 78.747,01 e in € 50.000,00, nonché alla regolarizzazione
della posizione contributiva e previdenziale per il periodo 20 settembre 1996/
30 giugno 2001, da effettuare mediante versamento dei contributi quantificati
dal CTU in € 26.207,37;

2. la Corte territoriale ha premesso che la D.L.
aveva agito in giudizio deducendo di essere stata illegittimamente ritenuta non
invalida dalla Commissione medica, all’esito della visita di revisione
effettuata l’8 febbraio 1996, e di essere stata di conseguenza dichiarata dal
Provveditorato agli Studi di Brindisi decaduta dal beneficio della riserva
previsto in favore degli invalidi civili, beneficio che la stessa aveva fatto
valere al momento della iscrizione nella graduatoria degli aspiranti alle
supplenze della scuola materna;

3. il giudice d’appello ha evidenziato che
costituiva dato pacifico l’illegittimità dell’accertamento medico, accertata
con sentenza passata in giudicato dal Tribunale di Brindisi, che aveva anche
dichiarato il diritto della ricorrente all’iscrizione nelle liste speciali a
decorrere dalla data sopra indicata;

4. ha aggiunto che dei danni conseguiti alla
illegittima revoca doveva rispondere il Ministero convenuto in giudizio, il
quale non poteva essere ritenuto esente da colpa solo perché si era avvalso di
un organo tecnico, dovendo trovare applicazione il principio secondo cui lo
Stato apparato risponde di tutti gli atti che si inseriscono nel procedimento e
concorrono all’adozione del provvedimento finale;

5. ha sottolineato che il giudizio espresso
all’esito della visita di revisione era frutto di una scorretta valutazione dei
dati e non aveva giustificazione alcuna, perché la D.L. era affetta da
patologie croniche, non suscettibili di regressione o miglioramento, che sia in
precedenza sia in epoca successiva erano state ritenute causa di invalidità
nella percentuale del 46%;

6. quanto all’ammontare del risarcimento la Corte
territoriale ha ritenuto provata la sussistenza del nesso causale fra il
provvedimento di decadenza dalla lista e la mancata assunzione a tempo
indeterminato, perché il posto era stato assegnato ad aspiranti che nella
graduatoria erano stati collocati in posizione successiva a quella
originariamente ricoperta dalla ricorrente e, pertanto, ha quantificato il
danno in relazione alle retribuzioni che la stessa avrebbe percepito fino al 1°
luglio 2001, data in cui era stata assunta quale dipendente comunale;

7. infine il giudice d’appello ha condannato il
Ministero al risarcimento del danno non patrimoniale, perché era stato impedito
alla D.L. di entrare nel mondo del lavoro pur avendone i requisiti, ed a costituire
la posizione previdenziale per il periodo nel quale l’appellante era rimasta
disoccupata;

8. per la cassazione della sentenza il Ministero del
Lavoro ha proposto ricorso sulla base di quattro motivi, ai quali la D.L. ha
opposto difese con tempestivo controricorso.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo, formulato ex art. 360 nn. 3 e 4 cod. proc. civ., il ricorrente
denuncia «violazione e falsa applicazione dell’art.
2043 c.c., dell’art. 12
comma 4 L. 2.4.1968 n. 482, dell’art. 1 comma 8 L. 15.10.1990 n. 295
e dell’art. 3 d.P.R. 21.9.1994 n. 698, 101 c.p.c.»
e sostiene, in sintesi, che il danno era stato causato, non dalla cancellazione
dagli elenchi del collocamento obbligatorio, bensì dal provvedimento di
decadenza dalla riserva che era stato adottato il 13 settembre 1996 dal
Ministero della Pubblica Istruzione il quale, tra l’altro, aveva anche dato
avvio al procedimento, chiedendo che fossero sottoposti a visita gli aspiranti
all’assunzione che avevano fatto valere l’invalidità;

1.1. aggiunge che in tema di invalidità civile la
legittimazione passiva era riservata, all’epoca, al Ministero del Tesoro e,
pertanto, in nessun caso poteva essere ravvisata una responsabilità del
Ministero del lavoro;

1.2. deduce, infine, che la mancata evocazione in
giudizio del soggetto effettivamente legittimato aveva falsato il necessario
accertamento sulla sussistenza del nesso causale, perché, ove il
contraddittorio fosse stato correttamente instaurato, sarebbe emerso che la
D.L. non poteva usufruire della riserva in quanto aveva chiesto di essere
iscritta nelle liste speciali solo il 18 febbraio 1992, oltre il termine di
presentazione della domanda di partecipazione al concorso;

2. la seconda censura, formulata ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., addebita alla Corte
territoriale la violazione dell’art. 2043 cod. civ.
perché non poteva il giudice d’appello far coincidere il danno con le
retribuzioni non percepite senza che l’attore avesse allegato e dimostrato i
pregiudizi di tipo patrimoniale derivati dalla condotta illecita;

2.1. il ricorrente sostiene che in caso di mancata o
tardiva assunzione nessuna pretesa retributiva può essere azionata nei
confronti della P.A., perché il diritto alla retribuzione presuppone
l’instaurazione del rapporto di lavoro, ed aggiunge che nella fattispecie il
danno andava qualificato da perdita di chance con la conseguenza che non poteva
la D.L. richiedere a tale titolo la liquidazione degli stipendi che avrebbe
percepito ove fosse stata disposta la sua assunzione;

3. il terzo motivo denuncia, sotto altro profilo, la
violazione dell’art. 2043 cod. civ. oltre
all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione
fra le parti e addebita al giudice d’appello di avere recepito le conclusioni
della consulenza tecnica d’ufficio senza detrarre dall’importo l’aliunde
perceptum, l’indennità di disoccupazione, le spese di produzione del reddito e
gli istituti retributivi, quali le ferie e le festività, che presuppongono lo
svolgimento del rapporto;

4. il quarto motivo denuncia la «violazione e falsa
applicazione dell’art. 2043 c.c. nonché dei
principi generali in materia previdenziale» perché non poteva la Corte
territoriale condannare il Ministero al pagamento di contributi previdenziali
in relazione a rapporto di impiego mai instaurato;

5. il primo motivo è inammissibile; allorquando,
come nella fattispecie, occorra individuare l’organo dello Stato nei cui
confronti l’azione deve essere indirizzata, trova applicazione la disposizione
speciale dettata dall’art. 4 della legge n. 260/1958, dalla quale si desume che
l’errata individuazione dell’organo statuale non si traduce nella mancata
instaurazione del rapporto processuale, rilevabile d’ufficio in ogni stato e
grado del processo, bensì costituisce una mera irregolarità, in quanto deve
essere eccepita dall’Avvocatura dello Stato nella prima udienza, con la
contemporanea indicazione dell’organo legittimato, ed è soggetta a sanatoria
perché il giudice, in presenza della tempestiva eccezione, è tenuto ad
assegnare all’attore un termine per la rinnovazione dell’atto;

5.1. hanno affermato le Sezioni Unite di questa
Corte che in mancanza di tempestiva eccezione resta preclusa la possibilità per
il soggetto evocato in giudizio di far valere, in seguito, l’irrituale
costituzione del rapporto giuridico processuale, che non può essere neppure
rilevata d’ufficio dal giudice (Cass. S.U. n. 30649/2018);

5.2. nel caso di specie risulta dalla motivazione
della sentenza impugnata che il Ministero del Lavoro, costituitosi tardivamente
nel giudizio di primo grado, si limitò a fare leva sull’assenza di
responsabilità dello Stato, asserendo che dell’errore commesso dalla
Commissione medica doveva rispondere la ASL, ma non mosse alcuna contestazione
in merito all’individuazione dell’organo statale nei cui confronti il rapporto
processuale doveva essere instaurato, sicché l’eccezione, non sollevata neppure
nel giudizio di appello, non può essere inammissibilmente proposta per la prima
volta in questa sede;

5.3. parimenti inammissibile è il motivo nella parte
in cui assume che la D.L. non avrebbe potuto usufruire della riserva perché non
iscritta nelle liste speciali alla data del termine di presentazione della domanda
di partecipazione al concorso indetto con D.M. 23.3.1990;

5.4. si tratta di questione alla quale non fa cenno
la sentenza impugnata e, pertanto, trova applicazione il principio, consolidato
nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui «qualora una questione
giuridica – implicante un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun
modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di  legittimità, onde non incorrere
nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare
l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche di
indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire
alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di
esaminare nel merito la censura stessa» ( fra le tante Cass. n. 32804/2019; Cass. n. 2038/2019; Cass. n. 27568/ 2017);

6. il secondo motivo è infondato;

il Collegio condivide e ribadisce il principio di
diritto secondo cui, qualora dall’atto illegittimo adottato dalla P.A. sia
derivata, quale conseguenza diretta, la lesione del diritto soggettivo alla
tempestiva assunzione, il lavoratore non può avanzare pretese retributive, che
presuppongono l’avvenuta instaurazione del rapporto sinallagmatico, ma può
invece agire per il risarcimento del danno ex art.
1218 cod. civ. e domandare a tale titolo il mancato guadagno da perdita
delle retribuzioni, ossia il lucro cessante, sempre che risulti, anche in via
presuntiva, che l’interessato sia rimasto privo di occupazione o che abbia
lavorato a condizioni deteriori (Cass. n.16665/2020 e negli stessi termini
Cass. n. 9193/2018 e Cass. n. 1492/2018);

6.1. non giova al Ministero ricorrente invocare i
criteri di liquidazione del danno da perdita di chance derivato dalla
illegittima cancellazione dagli elenchi delle categorie protette, giacché in
relazione a detta ipotesi questa Corte ha affermato che, una volta provata la
probabilità di ottenere il risultato utile, ossia l’assunzione, l’ammontare
delle retribuzioni non percepite costituisce un parametro da utilizzare ai fini
della quantificazione del danno stesso (Cass. n.
18207/2014 e Cass. n. 13483/2018);

6.2. la Corte territoriale non si è discostata dai
principi di diritto sopra richiamati perché ha accertato che, ove l’appellante
non fosse stata illegittimamente dichiarata decaduta dal beneficio della
riserva in favore degli invalidi civili, la stessa sarebbe stata sicuramente
assunta dal Ministero dell’Istruzione, il quale aveva, invece, stipulato il
contratto con riservisti che nella graduatoria erano collocati in posizione
successiva rispetto a quella ricoperta dalla D.L.;

6.3. nel giudizio di merito, inoltre, è stato
accertato che l’originaria ricorrente era rimasta disoccupata sino al 30 giugno
2001, sebbene si fosse prontamente attivata per far valere il suo diritto
all’assunzione, sicché la liquidazione del danno, effettuata dalla Corte
territoriale in coerenza con le richiamate premesse, non merita censura;

7. il terzo motivo è inammissibile, innanzitutto
perché non risultano assolti gli oneri di specificazione e di allegazione di
cui agli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ.;

7.1. il giudice d’appello ai fini della
quantificazione del danno ha recepito le conclusioni della consulenza tecnica
d’ufficio, che il Ministero contesta senza trascrivere nel ricorso le parti
rilevanti dell’elaborato peritale, senza produrlo in questa sede e senza
fornire indicazioni in merito all’allocazione dell’atto nel fascicolo
processuale, ossia omettendo di fornire alla Corte gli elementi necessari per
valutare ex actis la fondatezza della censura;

7.2. si aggiunga che il motivo prospetta una
questione giuridica implicante accertamenti di fatto, nella parte in cui tende
a sostenere che ai fini della quantificazione del danno andavano detratti
dall’ammontare delle retribuzioni tutti gli istituti che presuppongono la
prestazione lavorativa, quali le festività e le ferie, ed occorreva altresì
tener conto dell’indennità di disoccupazione;

7.3. poiché la questione in parola non risulta
affrontata nella pronuncia gravata, valgono le medesime considerazioni già
espresse al punto 5.4. ed il motivo deve essere dichiarato in parte qua
inammissibile, perché il ricorrente non dimostra di avere sottoposto la
questione al giudice del merito;

7.4. in relazione all’aliunde perceptum la doglianza
è priva della necessaria specifica attinenza al decisum della sentenza
impugnata, in quanto la Corte territoriale, dopo avere accertato che a partire
dal 1° luglio 2001 la D.L. ha reperito altra occupazione, ha liquidato il danno
solo per il periodo 20 settembre 1996/30 giugno 2001, in ragione dell’accertata
disoccupazione nell’arco temporale in parola;

8. merita, invece, accoglimento il quarto motivo
perché ha errato il giudice d’appello nel condannare il Ministero del Lavoro
“a regolarizzare la posizione previdenziale della D.L.” mediante
versamento “dei contributi ammontanti secondo il calcolo del CTU ad €
26.207,37”;

8.1. il rapporto di lavoro subordinato costituisce
imprescindibile presupposto di quello previdenziale, autonomo ma al primo
necessariamente correlato, e «l’obbligo datoriale di pagare integralmente i
contributi dovuti si configura, nell’ambito del rapporto di lavoro, come
obbligo di facere, non già come un diritto di credito ai contributi da parte
del lavoratore» (Cass. n. 8956/2020);

8.2. qualora, come si verifica nella fattispecie, il
rapporto di lavoro non venga ad esistenza ed il lavoratore agisca per il
risarcimento del danno derivato dalla mancata 
assunzione, non può il danneggiato domandare la costituzione della
posizione previdenziale a titolo di risarcimento in forma specifica, perché il
rapporto previdenziale, che è indisponibile, sorge solo in presenza dei
necessari requisiti richiesti dalla legge e l’istituto assicuratore non può
accettare contributi che non siano effettivamente dovuti o siano prescritti;

8.3. ne discende che la sentenza impugnata deve
essere in parte qua cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di
fatto, la causa deve essere decisa nel merito, ex art.
384, comma 2, cod. proc. civ. con il rigetto della domanda di
regolarizzazione contributiva;

8.4. in ragione dell’esito complessivo della lite,
vanno poste a carico del Ministero le spese di entrambi i gradi del giudizio di
merito, come liquidate nella sentenza impugnata;

8.5. quanto al giudizio di cassazione il parziale
accoglimento del ricorso giustifica la pronuncia di compensazione limitatamente
ad un quarto e la condanna del Ministero al pagamento in favore della
ricorrente della quota residua, da distrarsi in favore degli Avv.ti L.L. e
A.M., i quali hanno reso la prescritta dichiarazione;

8.6. non sussistono le condizioni processuali di cui
all’art. 13 c. 1 quater d.P.R. n.
115 del 2002.

 

P.Q.M.

 

accoglie il quarto motivo di ricorso e rigetta gli
altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e decidendo
nel merito rigetta la domanda di regolarizzazione della posizione
previdenziale. Condanna il Ministero al pagamento delle spese processuali di
entrambi i gradi del giudizio di merito, come liquidate nella sentenza della
Corte d’Appello. Compensa limitatamente ad un quarto le spese del giudizio di
legittimità e condanna il Ministero al pagamento in favore della
controricorrente della quota residua, da distrarsi in favore degli Avv.ti L.L.
e A.M.. Liquida per l’intero le spese del giudizio di cassazione in € 200,00
per esborsi ed € 8.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese
generali del 15% ed agli accessori di legge.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 novembre 2020, n. 25225
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