La pensione di reversibilità non spetta al coniuge divorziato il cui assegno divorzile sia d’importo minimo o simbolico.
Nota a Cass. 28 settembre 2020, n. 20477
Pamela Coti
La pensione di reversibilità è strettamente correlata all’avvenuta percezione dell’assegno divorzile e viene riconosciuta al coniuge superstite a causa del venir meno del sostegno economico rappresentato dall’assegno. Pertanto, la pensione di reversibilità non spetta all’ex coniuge divorziato che sia titolare di un assegno minimo o simbolico.
È quanto afferma la Corte di Cassazione (28 settembre 2020, n. 20477, difforme da App. Aquila 26 giugno 2014) la quale ricostruisce il quadro normativo in materia specificando che:
- la pensione di reversibilità spettante al coniuge divorziato è disciplinata dalla L. n. 898/1970, art. 9, co. 2, il quale (nel testo risultante dalla modifica apportata dalla L. n. 74/1987, art.13), stabilisce che “in caso di morte dell’ex coniuge (…) il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto (…) sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, alla pensione di reversibilità (…)”.
- A sua volta, la L. n. 898/1970, art. 5, co. 6 (nel testo introdotto dalla L. n. 74/1987, art. 10), prevede che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
La Cassazione in passato aveva affermato che il trattamento di reversibilità, essendo un autonomo diritto di natura previdenziale era dovuto anche quando l’ammontare dell’assegno divorzile era determinato in misura minima o anche meramente simbolica (Cass. S.U. n. 159/1998).
Successivamente la Corte ha rimeditato la sua interpretazione rilevando che “ il diritto del coniuge divorziato alla pensione di reversibilità presuppone che il richiedente al momento della morte dell’ex coniuge sia titolare di assegno di divorzio giudizialmente riconosciuto ai sensi della’ art. 5, L. n. 898/1970, non essendo sufficiente che egli versi nelle condizioni per ottenerlo e neppure che in via di fatto o anche per effetto di private convenzioni intercorse tra le parti abbia ricevuto regolari erogazioni economiche dal de cuius quando questi era in vita” (Cass. n. 25053/2017; Cass. n. 12546/2011; Cass. n. 23300/ 2010).
In particolare, secondo le Sezioni Unite il presupposto per l’attribuzione del trattamento di reversibilità a favore del coniuge divorziato va rinvenuto nel venir meno del sostegno economico apportato in vita dall’ex coniuge scomparso e nella sua finalità nel sopperire a tale perdita economica. In tal modo, la “titolarità” dell’assegno nella fruizione attuale, da parte del coniuge divorziato, si identifica in una somma periodicamente versata dall’ex coniuge come contributo al suo mantenimento (così, Cass. S.U. n. 22434/2018, in motivaz.).
Ne consegue, pertanto la necessità che il trattamento attribuito al coniuge divorziato possieda i requisiti tipici previsti dalla L. n. 898/1970, art. 5, dovendo lo stesso essere “idoneo ad assolvere alle finalità di tipo assistenziale e perequativo-compensativa che gli sono proprie, di talché, pur non mettendo necessariamente capo ad un contributo volto al conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, consenta tuttavia all’ex coniuge il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, riconoscendogli in specie il ruolo prestato nella formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi” (Cass. S.U. n. 18287/ 2018)”.
Una diversa soluzione, secondo la Cassazione, condurrebbe all’esito irragionevole di assicurare al coniuge divorziato una condizione migliore rispetto a quella di cui godeva quando l’ex coniuge era in vita, il che non può dirsi conforme né alla lettera né alla ratio dell’istituto (v. Cass. nn. 23300/2010 e 12546/2011, entrambe cit.).