La transazione firmata dinanzi al giudice dalla PA con il proprio dipendente e volta a riconoscergli un inquadramento contrattuale superiore è nulla per contrarietà a norme imperative.
Nota a Cass. 30 settembre 2020, n. 20913
Gennaro Ilias Vigliotti
La disciplina legale del lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione non consente di disporre inquadramenti automatici del personale, poiché tale inquadramento può essere acquisito dal lavoratore solo a seguito di regolare procedura di concorso, ai sensi degli artt. 35 e 52, D.LGS. n. 165/2001 (c.d. “Testo Unico del Pubblico Impiego”) e dell’art. 97 Cost. Tale regola fa sì che, in ipotesi di conciliazione giudiziale in cui una PA riconosca al lavoratore un inquadramento contrattuale superiore a quello a lui applicato, tale verbale possa essere messo in discussione dall’Amministrazione stessa, anche dopo la firma, esperendo l’azione di nullità dello stesso per contrarietà a norme imperative.
Il principio appena espresso è stato di recente confermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 20913 del 30 settembre 2020, con la quale i giudici di legittimità hanno definito la controversia sorta tra un dipendente di un Comune pugliese e l’Amministrazione datrice di lavoro. Il lavoratore aveva adito il giudice di merito per sentirsi dichiarare il diritto all’inquadramento superiore e, all’esito di trattative sorte tra le parti, si era addivenuti ad una conciliazione giudiziale, con riconoscimento dell’inquadramento e rinuncia, da parte del dipendente, ad una parte delle differenze retributive maturate per il passato.
Dopo la transazione, però, complice anche il cambio di vertice al Comune datore di lavoro, l’Amministrazione era tornata sui suoi passi ed aveva bloccato ogni adempimento del verbale di conciliazione, avendo verificato la contrarietà dell’accordo alle norme di legge ed al piano di blocco delle progressioni di carriera adottato dal Comune.
L’Ente, inoltre, aveva adito il Tribunale chiedendo di dichiarare la nullità della transazione, ma il giudice di primo grado aveva confermato la validità dell’accordo, poiché siglato ai sensi e per gli effetti dell’art. 2113, co. 4, c.c.. Adita la Corte d’Appello di Bari per contestare la decisione di prime cure, il Comune aveva ottenuto ragione, con una sentenza dichiarativa della nullità dell’accordo per violazione delle norme che presiedono all’avanzamento di carriera nella PA.
La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha confermato quest’ultima decisione. Secondo i giudici di legittimità «la disciplina legale del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni […] non consente inquadramenti automatici del personale, neppure in base al profilo professionale posseduto o alle mansioni svolte […] nel caso di passaggio da un’area di inquadramento ad altra superiore […] è richiesta, di norma, una procedura concorsuale pubblica con garanzia di adeguato accesso dall’esterno».
Inoltre, se non v’è dubbio, da un lato, che la transazione contenuta nella conciliazione giudiziale che aveva posto fine alla lite a suo tempo sorta con il lavoratore è certamente sottratta al regime di impugnabilità ex art. 2113 c.c., dall’altra parte, restano comunque esperibili nei suoi confronti le normali azioni di nullità ed annullabilità, rispetto alle quali l’intervento del giudice non esplica alcuna efficacia sanante o impeditiva. Gli effetti di un verbale di conciliazione giudiziale, dunque, possono essere paragonati, più che ad una sentenza passata in giudicato, ad un titolo contrattuale esecutivo, con la conseguenza che esso resta soggetto alle ordinarie sanzioni di nullità.