Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 novembre 2020, n. 26273

Cartelle esattoriali, Contribuzione previdenziale, Commessi
addette alla vendita, Negozio di articoli di pelletteria gestito in regime di
franchising dall’associante, Autonomia operativa e compenso variabile in base
alla pattuita percentuale sugli incassi, Non sussiste, Compenso mensile
“garantito”, in linea con la retribuzione prevista dalla
contrattazione collettiva per il profilo professionale

 

Rilevato che

 

1. La Corte di appello di Firenze, con sentenza n.
134/2015, accogliendo l’appello dell’INPS, riformava la sentenza del Tribunale
di Livorno che aveva accolto le opposizioni proposte da B. s.r.l. e da T.B.
s.r.l. avverso le cartelle esattoriali notificate per il recupero della
contribuzione previdenziale relativa alle posizioni lavorative di F.J., D’O.C.
e T.E., formalmente contrattualizzate in regime di associazione in
partecipazione, ma che – secondo l’accertamento ispettivo – erano da
qualificare come lavoratrici subordinate.

2. Secondo il giudice di primo grado, gli elementi
acquisiti in giudizio non erano sufficienti a smentire lo schema negoziale
voluto dalle parti, in quanto le tre lavoratrici, impiegate quali commesse
addette alla vendita presso un negozio di articoli di pelletteria gestito in
regime di franchising dall’associante (inizialmente B. s.r.l. e poi T.B.
s.r.l.), godevano di autonomia operativa; percepivano un compenso variabile in
base alla pattuita percentuale sugli incassi; era loro esibito un rendiconto periodico
e avevano la facoltà di prendere visione della documentazione contabile presso
il commercialista della società.

3. Tale giudizio non era condiviso dalla Corte di
appello, in sintesi, sulla base dei seguenti argomenti.

a) Quanto ai tratti distintivi tra il contratto di
associazione in partecipazione con apporto della prestazione lavorativa e
contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili
dell’impresa, la riconducibilità del rapporto all’uno o all’altro degli schemi
dipende dall’accertamento, in fatto, della prevalenza degli elementi che
caratterizzano le due diverse tipologie contrattuali e, segnatamente, quanto
alla prima delle due ipotesi, dalla partecipazione dell’associato al rischio di
impresa e dalla sussistenza di un suo controllo sulla gestione imprenditoriale.

b) Nel caso in esame, le tre lavoratrici avevano
sempre svolto – come era pacifico in giudizio – attività di commessa di negozio
e avevano percepito, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, un
compenso mensile “garantito” di euro 1.000,00, in linea con la
retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva per il profilo
professionale corrispondente alle mansioni svolte, senza partecipazione alle
perdite. Non vi era dunque la partecipazione delle associate al rischio di
impresa.

c) I conguagli eseguiti a fine anno (peraltro
astrattamente coerenti con una tredicesima mensilità) erano corrisposti con
l’allegazione non di un rendiconto, bensì di un mero prospetto riepilogativo
del calcolo effettuato, recante l’indicazione degli incassi/ricavi su cui
veniva calcolata la percentuale di partecipazione pattuita.

d) Quanto alle modalità di esecuzione della
prestazione lavorativa, le associate osservavano un orario stabilito per
relationem all’orario di apertura del negozio; operavano congiuntamente, ad
eccezione dei periodi di bassa stagione in cui erano due le commesse presenti
nel negozio, come pure in caso di apertura serale. L’alternanza non era dunque
abituale e conseguentemente non significativa della relativa autonoma
organizzazione tra le associate. Le assenze dal servizio dovevano essere
comunicate all’associante, il quale esercitava un controllo almeno settimanale
nel negozio.

e) In conclusione, le tre lavoratrici mantenevano un
ambito di autonomia del tutto marginale, di carattere meramente esecutivo, al
pari di quello proprio di una commessa in regime di subordinazione. Gli stessi
ordinativi della merce erano estranei alla loro discrezionalità, in quanto era
l’associante ad effettuare la scelta iniziale della collezione (monomarca)
stagionale, mentre alle associate competeva la gestione del magazzino e il
riassortimento della merce in base alle vendite effettuate.

4. Per la cassazione di tale sentenza B. s.r.I.,
quale società succeduta nei rapporti già facenti capo alla società B. s.r.l. a
seguito di fusione per incorporazione, ha proposto ricorso affidato ad un unico
motivo. L’INPS ha resistito con controricorso.

5. La società ricorrente ha altresì depositato
memoria ex art. 380-bis cod. proc.civ..

 

Considerato che

 

6. Con unico motivo di ricorso si denuncia
violazione e falsa applicazione degli artt. 2549,
2552, 2553, 2554, 2094, 2102 e 2697 cod. civ.
(art. 360 n. 3 cod.proc. civ.) per avere la
Corte di appello erroneamente ritenuto un elemento qualificante della causa del
contratto di associazione in partecipazione la partecipazione dell’associato
alle eventuali perdite aziendali, in contrasto con l’orientamento di
legittimità che non ha considerato tale elemento come qualificante (vengono
citate Cass. n. 24871 del 2008, n. 3894 del 2009, n.2884
del 2012).

Si assume che i rapporti di lavoro si erano sempre
svolti in conformità alle pattuizioni negoziali e che dalla prova testimoniale
era emerso che il lavoro delle tre associate veniva svolto in totale autonomia,
con potere di prendere decisioni in ordine alle merce da acquistare, ai
rapporti con i clienti, al controllo delle giacenze ecc., mentre la società
associante, nella persona del suo amministratore sig. B., si limitava ad
impartire direttive di ordine generale quanto ai criteri di gestione aziendale,
restando le associate libere di organizzare il proprio orario di lavoro,
suddividendosi i turni di presenza nel negozio con il solo limite di informare
il B. delle assenze. Si ribadisce che le associate venivano retribuite mediante
il riconoscimento di una percentuale sugli utili di esercizio, con facoltà di
controllare le scritture contabili e verificare la attendibilità dei
rendiconti, restando non vincolato a particolari modalità di controllo
l’esercizio di tale diritto.

7. Il ricorso è infondato.

8. La questione di diritto sottesa al ricorso in
esame si incentra sui tratti differenziali del rapporto di lavoro subordinato
con partecipazione agli utili (figura giuridica nella quale la sentenza
impugnata ha sussunto la fattispecie concreta, quale ricostruita in giudizio) e
il contratto di associazione in partecipazione.

9. Occorre premettere che la qualificazione
giuridica del rapporto di lavoro effettuata dal giudice di merito è censurabile
in sede di legittimità soltanto limitatamente alla scelta dei parametri
normativi di individuazione della natura subordinata o autonoma del rapporto,
mentre l’accertamento degli elementi, che rivelano l’effettiva presenza del
parametro stesso nel caso concreto attraverso la valutazione delle risultanze
processuali e che sono idonei a ricondurre le prestazioni ad uno dei modelli,
costituisce apprezzamento di fatto che, se immune da vizi giuridici e
adeguatamente motivato, così come nella fattispecie qui scrutinata, resta
insindacabile in Cassazione (cfr. Cass. n.16681 del 2007, n.14160 del 2014, n. 7130 del 2016).

10. L’art. 2549 cod.
civ. prevede che con il contratto di associazione in partecipazione
l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua
impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto.
Il sinallagma è costituito dalla partecipazione agli utili (e quindi al rischio
d’impresa, di norma esteso anche alla partecipazione alle perdite) a fronte di
un “determinato apporto” dell’associato, che può consistere anche
nella prestazione lavorativa del medesimo. In tal caso l’associato che offre la
propria prestazione lavorativa si inserisce nell’assetto organizzativo
aziendale, la cui gestione dell’impresa spetta all’associante (art. 2552, primo comma, cod. civ.).

11. Parte ricorrente ha citato alcune pronunce di
questa Corte (Cass. n. 24871 del 2008; conf.
Cass. n. 3894 del 2009, n. 1954 del 2011, n. 2884 del 2012 e, in sede di memoria, Cass. n. 10583 del 2017) per sostenere che
l’esclusione dalla partecipazione alle perdite dell’impresa sarebbe compatibile
con un contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione
lavorativa da parte dell’associato.

12. In proposito, va osservato che dalle citate
pronunce si desume unicamente che la divisione delle perdite non viene
considerato dalla legge quale elemento imprescindibile per la configurazione
della fattispecie, dal momento che l’art. 2553 cod.
civ., pur prevedendola in via generale, ammette che le parti possano
derogarvi, limitando la divisione ai soli utili. Tuttavia, ciò non fa venir
meno il carattere aleatorio del contratto, dal momento che, in caso di mancanza
di utili, l’apporto lavorativo dell’associato è destinato a rimanere senza
compenso (così Cass. n. 3894 del 2009, in
motivazione).

13. Ne deriva che l’associato che lavori in
un’impresa con risultati negativi è comunque soggetto in senso lato ad un
rischio economico, pure laddove le parti abbiano escluso la partecipazione alle
perdite, poiché in tal caso l’assenza di utili determina l’assenza di compensi,
dovendo questi ultimi necessariamente essere correlati all’andamento economico
dell’impresa.

14. Nel caso in esame, la Corte di appello, con
accertamento di fatto non sindacabile in questa sede, ha evidenziato che era
stato assicurato alle lavoratrici un compenso garantito mensile,
sostanzialmente corrispondente alla retribuzione fissata dalla contrattazione
collettiva per il profilo professionale corrispondente alle mansioni di fatto
svolte, senza partecipazione alle perdite. Il giudizio sotteso a tale accertamento
di fatto è dunque l’assenza di un’effettiva partecipazione al rischio di
impresa, da cui l’assenza di uno dei requisiti che indefettibilmente devono
ricorrere per la configurabilità della fattispecie negoziale di cui al
contratto formalmente stipulato tra le parti.

15. E’ stato pure accertato che non vi era stato un
significativo coinvolgimento, nemmeno conoscitivo, nella gestione economica
dell’impresa; che le lavoratrici non avevano mai ricevuto veri e propri
rendiconti; che complessivamente, in ragione delle modalità di esecuzione della
prestazione, l’apporto lavorativo corrispondeva integralmente ad una
prestazione di commessa di negozio.

16. Il 
complessivo giudizio espresso dalla Corte di appello ha evidenziato la
carenza degli elementi indentificativi del tipo negoziale di cui alla formale
pattuizione. Si è in presenza di un giudizio incensurabile in questa sede,
avendo la Corte territoriale dato adeguatamente conto del proprio convincimento
con argomentazioni logiche e coerenti, supportate da evidenze istruttorie,
neppure contestate.

17. I giudici di merito, nell’esercizio del potere
giurisdizionale a loro conferito, hanno fornito la qualificazione giuridica del
contratto con statuizione conforme a diritto laddove hanno ritenuto non
riscontrabili nella fattispecie scrutinata gli elementi qualificativi del
contratto di associazione in partecipazione, non essendo vincolante il mero
nomen iuris indicato dalle parti (vedi ex aliis, Cass.
n.22289 del 2014, secondo cui, ai fini della qualificazione di un rapporto
di lavoro deve attribuirsi maggiore rilevanza alle concrete modalità di
svolgimento del rapporto, da cui è ricavabile l’effettiva volontà delle parti).

18. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di
parte ricorrente al pagamento, in favore dell’Inps, delle spese del giudizio di
legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e
compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento
del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

19. Va dato atto della sussistenza dei presupposti
processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, ai sensi
dell’art. 13, comma 1-quater, del
d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1- bis dello stesso art. 13, se
dovuto (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019 e n. 4315 del 2020).

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento delle spese, che liquida in euro 4.000,00 per compensi e in euro
200,00 per esborsi, oltre  15% per spese
generali e accessori di legge.

Ai sensi dell’art.13 comma 1-quater del d.P.R. n.115
del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis, dello stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 novembre 2020, n. 26273
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