Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 novembre 2020, n. 26543

Tributi, IRPEF, Fondo PIA ex dirigente Enel, Cessazione del
rapporto di lavoro, Prestazione liquidata sotto forma di capitale, Regime
d’imposta applicabile

 

Rilevato che

 

1. L’Agenzia delle Entrate ricorre, con cinque
motivi, ulteriormente illustrati con memoria, per la cassazione della sentenza
con la quale la Commissione tributaria regionale del Lazio – decidendo in sede
di rinvio a seguito di sentenza di questa Corte n. 13302 del 29 maggio 2013 –
in controversia concernente l’impugnazione del diniego opposto dall’Ufficio
erariale ad istanza avanzata da E. C., ex dirigente dell’Enel s.p.a., di
rimborso dell’Irpef trattenuta e versata all’Erario, tramite ritenute operate
dall’Enel in qualità di sostituto d’imposta sulla somma erogatagli, al momento
della collocazione a riposo, con l’aliquota superiore al 12,5 per cento, ha
accolto parzialmente l’appello dell’Ufficio, dichiarando l’applicabilità di
tale ultima aliquota sul rendimento così come quantificato da Enel s.p.a. nella
certificazione del 23 gennaio 2006.

2. I giudici di appello hanno, in particolare,
affermato che «gli elementi di fatto costitutivi della fattispecie, vale a dire
l’avvenuta utilizzazione sul mercato finanziario dei contributi accumulati
nella PIA, dell’effettivo rendimento dell’utilizzazione e dell’ammontare della
quota parte spettante al contribuente sino al 31 dicembre 2000, sono
sufficientemente provati in atti, mentre inammissibili o infondate sono le eccezioni
e le difese prospettate dall’appellante nella memoria di costituzione in
riassunzione»; hanno, quindi, ritenuto che poiché la sentenza di primo grado
aveva riconosciuto la riconducibilità della somma liquidata al rendimento
finanziario del fondo e tale statuizione non era stata oggetto di impugnazione,
si era formato un giudicato interno sulla sussistenza del rendimento
finanziario.

3. Il contribuente resiste mediante controricorso e
deposita anche memoria.

 

Considerato che

 

1. In controricorso il contribuente ha eccepito, in
via preliminare, la tardività ed inammissibilità del ricorso per cassazione,
assumendo che l’impugnazione sarebbe stata proposta oltre il termine di 60
giorni dalla notifica della sentenza impugnata avvenuta a mezzo PEC alla competente
Direzione Provinciale di Roma in data 3 febbraio 2016; ha sostenuto che la
notificazione della sentenza eseguita dal difensore a mezzo PEC è del tutto
valida, in quanto l’art. 9, comma
1, lett. h), del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156 ha introdotto nel d.lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992 l’art. 16-bis, relativo alla
disciplina delle comunicazioni e notificazioni per via telematica, che al comma
3 dispone che «Le notificazioni tra le parti e i depositi presso la competente
Commissione tributaria possono avvenire in via telematica secondo le
disposizioni contenute nel decreto del Ministro
dell’Economia e delle Finanze del 23 dicembre 2013, n. 163 e dei successivi
decreti di attuazione».

Nella specie la notificazione della sentenza
impugnata era stata eseguita dopo il 1 gennaio 2016, data di entrata in vigore
della quasi totalità delle disposizioni del d.lgs.
n. 156 del 2015, presso l’indirizzo PEC dell’Agenzia delle entrate
risultante dall’IPA e da difensore del contribuente autorizzato alle
notificazioni postali di cui alla legge n. 53 del 1994, sicché era idonea al
decorso del termine breve di impugnazione.

L’eccezione va disattesa.

Questa corte ha già chiarito (Cass., sez. 6-5, 12/09/2016, n. 17941; Cass., sez.6-5, 11/06/2018, n. 15109), che l’art.
1 della legge n. 53/1994, secondo periodo, nel testo da ultimo risultante a
seguito della modifica apportata dall’art. 46, comma 1, lett. a), n. 2),
del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, dispone che quando
ricorrono i requisiti di cui al periodo precedente della stessa norma, fatta
eccezione per l’autorizzazione del Consiglio dell’Ordine, «la notificazione degli
atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale può essere eseguita a
mezzo di posta elettronica certificata»; tuttavia, tenuto conto della
specialità delle disposizioni che regolano il processo tributario dinanzi alle
Commissioni tributarie provinciali e regionali, detta forma di notifica, come
disciplinata dall’art. 3-bis della I. n. 53/1994, come inserito dall’art. 16-quater del d.l. 18 ottobre
2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 2012, n. 221, che ha abrogato il
comma 3-bis dell’art. 3 della I. n. 53 del 1994, non è ammessa per la
notificazione degli atti in materia tributaria, se non espressamente
disciplinata dalle specifiche relative disposizioni, per cui rimane ferma
l’originaria previsione dell’art.
16, comma 4, del d.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, avente ad oggetto
Regolamento recante disposizioni per l’utilizzo della posta elettronica
certificata, a norma dell’art. 27
della legge 16 gennaio 2003, per la quale «le disposizioni di cui al
presente regolamento non si applicano all’uso degli strumenti informatici o
telematici nel processo tributario».

Con riguardo al processo tributario, la disciplina è
stata ridefinita a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, che, abrogato
il comma 1-bis dell’art. 16, ha aggiunto l’art. 16-bis al d.lgs. n. 546 del 1992,
che prevede espressamente che le notificazioni tra le parti e i depositi presso
le Commissioni tributarie possono avvenire in via telematica secondo le
disposizioni contenute nel decreto ministeriale
del 23 dicembre 2013, n. 163, che ha demandato a successivi decreti di
attuazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze l’onere di individuare
le regole tecnico-operative anche per le comunicazioni e notificazioni.

Con decreto del 4
agosto 2015 il Ministero dell’Economia e delle Finanze, in attuazione della
disposizione dell’art. 3, comma 3,
del d.m. n. 163 del 2013, ha previsto le specifiche tecniche volte a
disciplinare l’uso degli strumenti informatici e telematici nel processo
tributario.

Va, tuttavia, precisato che, sebbene l’entrata in
vigore del d.lgs. n. 156 del 2015 fosse stata
fissata al 1 gennaio 2016 dal comma 1 dell’art. 12 dello stesso decreto, il
comma 3 dello stesso articolo prevede che «le disposizioni contenute nel comma
3 dell’art. 16-bis del decreto
legislativo 31 dicembre 1992, n. 546… si applicano con decorrenza e
modalità previste dai decreti di cui all’art. 3, comma 3, del decreto del
Ministro dell’Economia e delle finanze 23 dicembre 2013, n. 163».

Di conseguenza, l’art. 16 del d.m. 4 agosto 2015
ha previsto, in via sperimentale, l’entrata in vigore delle disposizioni
relative al processo tributario telematico solo per i ricorsi dinanzi alle
Commissioni tributarie provinciali e regionali di Umbria e Toscana a decorrere
dal 1 dicembre 2015, mentre, in virtù della successiva normativa regolamentare
(decreto del Direttore Generale delle Finanze del 15 dicembre 2016), per la
Regione Lazio le disposizioni contenute nel decreto direttoriale del 4 agosto
2015 sono entrate in vigore solo per gli atti processuali relativi a ricorsi
notificati a partire dal 15 aprile 2017.

Ne consegue che la notifica a mezzo PEC della
sentenza di appello da parte del difensore del contribuente eseguita in data 3
febbraio 2016 non può essere considerata valida e va anzi ritenuta
giuridicamente inesistente, non essendo ipotizzabile alcuna forma di sanatoria,
diversamente da quanto ritenuto possibile in altre fattispecie dalle Sezioni
Unite di questa Corte con la sentenza n. 7665 del
18 aprile 2016. Infatti, nel caso in esame deve escludersi che la notifica
eseguita con modalità tecniche non ancora entrate in vigore possa essere
ritenuta idonea al conseguimento dello scopo proprio dell’atto, ossia al
decorso del termine breve di impugnazione, sia perché le norme che stabiliscono
cause di decadenza sono norme di stretta interpretazione (Cass. Sez. U, 16 marzo 2015, n. 5160), sia
perché, ai fini della tempestività del ricorso, l’art.
326 cod. proc. civ. ricollega la decorrenza del termine breve di
impugnazione non già alla conoscenza della sentenza, ma al compimento di una
formale attività acceleratoria e sollecitatoria, per cui, se la notificazione è
eseguita in forma diversa, essa non vale mai a far decorrere il termine breve
per l’impugnazione nei confronti del destinatario (Cass., sez. L, 27/04/2010,
n. 10026).

2. Con il primo motivo la difesa erariale deduce la
violazione o falsa applicazione dell’art. 2909 cod.
civ., nella parte in cui i giudici di appello hanno statuito che la
riconducibilità della somma liquidata al rendimento finanziario del Fondo, riconosciuta
dalla sentenza di primo grado, non era stata oggetto di impugnazione e che, sul
punto, si era formato il giudicato nterno. Sottolinea, al riguardo, che la
Commissione provinciale si era limitata ad affermare che la prestazione in
forma di capitale erogata dall’Enel al contribuente, alla luce della
disposizione transitoria di cui al d.l. n. 669 del
1996, convertito dalla legge n. 30 del 1997,
doveva essere assoggettata nella sua interezza all’aliquota del 12,5 per cento
in quanto corrisposta in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita o
di capitalizzazione, senza distinguere tra capitale e rendimento e senza
accertare se parte della prestazione liquidata fosse riconducibile al
rendimento finanziario, cosicché né sulla riconducibilità di parte della
prestazione liquidata, né tanto meno sulla quota di rendimento spettante al
contribuente si era formato il giudicato per il fatto che l’Ufficio, nel
ricorso in appello, si era limitato a negare che la prestazione fosse stata
corrisposta in dipendenza di contratti sulla assicurazione sulla vita o di
capitalizzazione.

2.1. La censura è fondata.

2.2. Dallo stralcio della motivazione della sentenza
di primo grado, trascritta nel ricorso per cassazione in omaggio al principio
di autosufficienza, emerge chiaramente che la Commissione provinciale ha
assoggettato la prestazione erogata dall’Enel al contribuente alla disciplina
di cui agli artt. 6 della legge
n. 482 del 1985 e 42, comma 4,
del t.u.i.r. (nella formulazione antecedente alla riforma del 1993), che
prevedevano una ritenuta del 12,5 per cento sulla differenza tra capitale
corrisposto e premi riscossi, ridotta del 2 per cento per ogni anno successivo
al decimo se il capitale era corrisposto dopo almeno 10 dieci anni dalla
conclusione del contratto di assicurazione, sul rilievo che si trattasse di
somma corrisposta in dipendenza di contratto di assicurazione; poiché la
motivazione non contiene alcuna distinzione tra capitale e rendimento e non
accerta se parte della prestazione erogata fosse o meno riconducibile al
rendimento finanziario, deve escludersi che possa essersi formato giudicato
interno su tali questioni.

3. Con il secondo motivo la difesa erariale denuncia
violazione o falsa applicazione degli artt. 384
e 394 cod. proc. civ., nonché degli artt. 57, 58 e 63 d.lgs. n. 546 del 1992, in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.
proc. civ., facendo rilevare che la Commissione regionale in sede di
rinvio, affermando che sull’impiego sui mercati finanziari da parte del fondo
P.I.A. dei capitali in esso affluiti e sulla quota di rendimento si era formato
giudicato interno per effetto della sentenza di primo grado, non si è uniformata
al principio di diritto enunciato nella sentenza di rinvio, la quale, dopo
avere richiamato la pronuncia delle Sezioni Unite
n. 13642 del 2011, che distingueva la «sorte capitale» dal <rendimento»,
aveva rilevato che la sentenza d’appello non era in linea con il principio di
diritto enunciato ed aveva rinviato al giudice di merito affinché accertasse,
in applicazione di detto principio, se i contributi affluiti nel fondo P.I.A.
fossero stati o meno investiti sul mercato finanziario e l’entità di tale
rendimento.

Conseguentemente, ad avviso della difesa erariale,
la sentenza impugnata è errata laddove si ritiene inammissibile l’eccezione con
la quale si contesta che le somme del Fondo sarebbero state impiegate sul mercato
finanziario e laddove si afferma che l’Ufficio non ha mai contestato la valenza
probatoria della certificazione Enel prodotta dal contribuente.

4. Con il terzo motivo, rubricato «violazione e
falsa applicazione del principio di non contestazione di cui all’art. 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, cod. proc. civ.»,
la ricorrente evidenzia che, secondo la tesi difensiva del contribuente, la
prestazione era stata erogata dall’Enel in dipendenza di contratti di tipo
assicurativo, per cui il rendimento attestato era funzionale a tale
prospettazione e corrispondeva, pertanto, alla differenza tra il capitale
corrisposto e i premi riscossi; la deduzione difensiva del contribuente era
sempre stata contestata dall’Ufficio, come pure la sussistenza del diritto al
rimborso.

5. Con il quarto motivo deduce violazione degli artt. 2697, 2727 e
2729 cod. civ., nella parte in cui i giudici di
secondo grado hanno attribuito valenza probatoria alla certificazione Enel
datata 23 gennaio 2006, prodotta dal contribuente unitamente ai bilanci
consolidati e alle relazioni del Consiglio di amministrazione e dei sindaci
relative agli anni 1993, 1994, 1995, 1999 e 2000, dai quali si evincerebbe che
l’Enel avrebbe operato sui mercati finanziari a fini speculativi; ribadisce che
questa Corte ha sempre escluso l’efficacia probatoria di tali certificazioni,
come pure dei bilanci e delle relazioni del Consiglio di Amministrazione che,
seppure provavano un’attività speculativa dell’Enel sui mercati finanziari, non
dimostravano che i contributi affluiti nel fondo P.I.A. fossero stati investiti.

6. Con il quinto motivo, in via subordinata ai primi
quattro motivi, la ricorrente deduce omesso esame circa un fatto decisivo per
il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, costituito dalla
esistenza e dalla misura del rendimento netto derivante dall’impiego sul
mercato, da parte del Fondo, del capitale accantonato, non evincibile dalla
certificazione Enel del 23 gennaio 2006.

7. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo,
strettamente connessi, possono essere trattati congiuntamente e sono fondati,
con assorbimento del quinto motivo.

7.1. La sentenza della Commissione regionale ha
accertato il «rendimento» suscettibile di imposizione agevolata sulla base
della certificazione rilasciata da Enel s.p.a., a firma dell’ing. B., dei bilanci
consolidati e delle relazioni del Consiglio di amministrazione e dei sindaci
del 1993, 1994, 1995, 1999 e 2000, prodotti dal contribuente, ma ha mancato di
effettuare un qualsiasi esame degli investimenti effettuati dal Fondo sul  mercato e, quindi, sul «rendimento» così come
inteso dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza
n. 13642 del 22 giugno 2011; omettendo di ricostruire l’impiego delle somme
sul mercato, la sentenza non si è attenuta alla sentenza di rinvio n. 13302 del
2013, pronunciata tra le stesse parti, che, richiamando il principio di diritto
enunciato dalle Sezioni Unite e meglio chiarito da questa Corte con le sentenze n. 10285 del 26 aprile 2017, n. 4941 del
2 marzo 2018 e n. 16116 del 19 giugno 2018, ha
rimesso al giudice di rinvio di verificare il «rendimento netto» imputabile
alla gestione sul mercato, da parte del Fondo, del capitale accantonato.

7.2. Al fine di meglio comprendere i principi
espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza n.
13642 del 22 giugno 2011, occorre, in primo luogo, ricordare che a
decorrere dal 1 gennaio 1986 (in base al quarto comma dell’art. 12 del CCNL del
16 maggio 1985, recepito dall’Enel) venne prevista a favore dei dirigenti Enel
la stipula di un’assicurazione sulla vita con la previsione contrattuale
dell’erogazione di una prestazione al momento del collocamento a riposo.

Successivamente, sempre nel 1986, a seguito di
apposita richiesta delle rappresentanze sindacali dei dirigenti, tale
previsione venne modificata con l’accordo tra l’Enel e la Federazione nazionale
dirigenti di aziende  industriali
(Fndai), in virtù del quale venne sostituito il trattamento assicurativo di cui
sopra con un rapporto di previdenza pensionistica integrativa (c.d. P.I.A.,
ovvero Previdenza Integrativa Aziendale) con prestazioni da erogare in forma di
trattamento periodico (ciò peraltro con efficacia retroattiva al 1 gennaio
1986, da ciò potendosi desumere che la disposizione che prevedeva la stipula di
polizze vita di fatto non venne mai applicata).

Tale forma di previdenza venne però dismessa nel
1998 e i fondi accumulati trasferiti a Fondenel, Fondo di Previdenza
integrativa esterno, chiamato a gestire una forma di previdenza complementare a
capitalizzazione individuale, che dava diritto, ai dirigenti Enel che vi
avevano aderito e che ne facevano richiesta al momento della cessazione del
rapporto di lavoro, alla liquidazione dell’intero capitale accumulato in luogo
della rendita vitalizia (Cass., sez. 5, 2/03/2018, n. 4941; Cass., sez. 5, 26/04/2017, n. 10285).

Quanto al regime fiscale di tale prestazione, alla
tesi dei contribuenti secondo cui il capitale richiesto, in quanto originato da
un contratto assicurativo, dovesse essere assoggettato alla ritenuta a titolo
di imposta nella misura del 12,5 per cento, ai sensi dell’art. 6 legge 26 settembre 1985, n.
482 (e ciò quantomeno sulla differenza tra l’ammontare del capitale
corrisposto e quello dei premi riscossi, ridotta del 2 per cento per ogni anno
successivo al decimo se il capitale era corrisposto dopo almeno dieci anni
dalla conclusione del contratto, ai sensi dell’art. 42, comma 4, del t.u.i.r.), si
contrapponeva quella dell’Amministrazione finanziaria, secondo cui, invece,
l’erogazione in oggetto non poteva considerarsi come reddito di capitale in dipendenza
di un contratto assicurativo sulla vita, ma come reddito di lavoro dipendente,
soggetto a tassazione separata ai sensi degli artt. 16, comma 1, lett. a), e 17 del
t.u.i.r.

7.3. Le Sezioni Unite, intervenendo sulla complessa
questione, hanno anzitutto evidenziato che occorre distinguere la situazione
dei soggetti già iscritti a forme pensionistiche complementari prima
dell’entrata in vigore del d.lgs. 21 aprile 1993,
n. 124 (28 aprile 1993) e quella dei soggetti iscritti a forme analoghe in
epoca successiva all’entrata in vigore del predetto provvedimento legislativo,
discrimine che discende dalla norma interpretativa di cui all’art. 1, comma 5, del d.l. 31 dicembre
1996, n. 669 (convertito, con modificazioni, dalla I. 28 febbraio 1997, n. 30), il quale prevede che
«la disposizione contenuta nell’art.
13, comma 9, del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124 e quella contenuta nell’art. 42, quarto comma, ultimo periodo
del t.u.i.r…..introdotta dall’art. 11, comma 3, della legge 8
agosto 1995 n. 335, … devono intendersi riferite esclusivamente ai
destinatari iscritti alle forme pensionistiche complementari successivamente
alla data di entrata in vigore del citato d.lgs. n.
124 del 1993».

7.4. A fronte di questa situazione «binaria», che
distingueva tra «vecchi iscritti» e «nuovi iscritti» a forme pensionistiche
complementari, a cui pose fine l’art.
12, comma 1, del d.lgs. 18 febbraio 2000, n. 47 (come modificato dall’art. 9, comma 1, lett. a), del
d.lgs. 12 aprile 2001, n. 168), con riferimento ai capitali maturati in
data antecedente al 1 gennaio 2001 dai soggetti iscritti a forme pensionistiche
complementari prima dell’entrata in vigore del d.lgs.
n. 124 del 1993, le Sezioni Unite hanno evidenziato che «il trattamento
tributario delle prestazioni erogate non è, e non può essere, indipendente
dalla composizione strutturale delle prestazioni stesse», le quali «nel caso
concreto, trattandosi di un fondo di previdenza complementare aziendale a
capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono
composte di una «sorte capitale», costituita dagli accantonamenti imputabili ai
contributi versati dal datore di lavoro (e in notevole minor misura dal
lavoratore), e da «un rendimento netto, imputabile alla gestione sul mercato da
parte del fondo del capitale accantonato», sicché «possono essere tassate in
modo analogo al T.F.R. esclusivamente le somme liquidate a titolo di capitale,
mentre alle somme corrispondenti al rendimento di polizza (nella fattispecie
P.I.A.), si applica la tassazione nella misura del 12,5 per cento ai sensi
dell’art. 6 I. 26 settembre
1985, n. 482».

Hanno, quindi, deciso la questione relativa alla
disciplina impositiva applicabile in materia di prestazioni erogate in forma di
capitale da fondi previdenziali integrativi (Fondenel e P.I.A.) con
l’affermazione del seguente principio di diritto: «In tema di fondi
previdenziali integrativi, le prestazioni erogate in forma capitale ad un
soggetto che risulti iscritto, in epoca antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 124 del 1993, ad un Fondo di previdenza
complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa
previdenziale prevalente, sono soggette al seguente trattamento tributario: a)
per gli importi maturati fino al 31 dicembre 2000, la restazione è assoggettata
al regime di tassazione separata di cui al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art.
16, comma 1, lett. a), e art. 17
del t.u.i.r., solo per quanto riguarda la «sorte capitale» corrispondente
all’attribuzione patrimoniale conseguente alla cessazione del rapporto di
lavoro, mentre alle somme provenienti dalla liquidazione del cd. «rendimento»
si applica la ritenuta del 12,50%, prevista dalla I. n. 482 del 1985, art. 6; b)
per gli importi maturati a decorrere dal 1 gennaio 2001 si applica interamente
il regime di tassazione separata di cui al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 16,
comma 1, lett. a), e art. 17 t.u.i.r.».

7.5. Essendo emerse contrapposte interpretazioni
circa il concetto di «rendimento netto», ammesso alla tassazione con aliquota
del 12,5 per cento, il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite non è
risultato risolutivo.

Sul punto, la successiva giurisprudenza di questa
Corte, con numerose pronunce (Cass., sez. 5,
26/04/2017, n. 10285; Cass., sez. 5,
18/10/2017, n. 24525; Cass., sez. 5, 2/03/2018, n. 4941; Cass., sez.5, 7/03/2018, n. 5436), prevalenti su
quelle di segno contrario, ha chiarito che il principio affermato dalle Sezioni
Unite deve essere interpretato nel senso che il più favorevole criterio
impositivo può trovare applicazione limitatamente alle somme rinvenienti
dall’effettivo investimento, da parte del fondo, sul mercato finanziario, o
comunque di riferimento, del capitale accantonato e che ne costituiscono il
rendimento. L’applicazione del più favorevole meccanismo impositivo ex art. 6 legge n. 482 del 1985
si giustifica, dunque, in ragione della «equiparazione» tra i capitali
corrisposti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita e (quelli
corrisposti in dipendenza di contratti) di capitalizzazione posta dagli artt. 41 (ora 44), primo comma,
lett. g-quater), e 42 (ora 45),
quarto comma, t.u.i.r., e non già, dunque, per effetto di una diretta
riconduzione della fattispecie alla previsione di cui all’art. 6 legge n. 482 del 1985
(invero espressamente riferita solo ai capitali corrisposti da «imprese di
assicurazione» in dipendenza di «contratti di assicurazione sulla vita, esclusi
quelli corrisposti a seguito di decesso dell’assicurato»), ma solo in via di
applicazione analogica di tale disposizione ai capitali corrisposti in
dipendenza di contratti di capitalizzazione, analogia giustificata dalla comune
considerazione delle due fattispecie nel t.u.i.r., quali ipotesi omogenee di
redditi di capitale (Cass., sez. 5, 26/04/2017, n.
10285; Cass., sez. 5, 2/03/2018, n. 4941).

7.6. Ne consegue che la ragione dell’eventuale
assoggettabilità a detto meccanismo dei capitali corrisposti, al momento della
cessazione del rapporto di lavoro, ai dirigenti Enel aderenti al descritto
fondo di previdenza integrativa, non vada ricercata – neppure con riferimento a
quelli riferibili agli accantonamenti operati in regime di P.I.A. prima del
1998 – in una natura assicurativa della prestazione, né tanto meno del soggetto
erogante, quanto piuttosto nella possibilità di ravvisare in quelle prestazioni
redditi di capitale derivanti da contratti di capitalizzazione (e nei limiti in
cui tale possibilità sussista). Non si tratta, pertanto, di (redditi derivanti
da) contratti di assicurazione sulla vita, come si desume dal contenuto degli
accordi succedutisi nel tempo tra Enel e organizzazioni sindacali di categoria,
per cui solo se e in quanto nei capitali corrisposti possano identificarsi
«redditi di capitale derivanti da contratti di capitalizzazione» può
giustificarsi l’applicazione del meccanismo impositivo di cui all’art. 6 legge n. 482 del 1985,
dovendosi pertanto escludere la possibilità di distinguere tra P.I.A. e
Fondenel — ossia tra rendimenti degli accantonamenti operati prima del 1998 nel
fondo denominato P.I.A. e rendimenti riferibili invece alla gestione Fondenel
del periodo successivo — e considerare i primi comunque assoggettabili al detto
meccanismo in ragione di una presunta, ma come detto insussistente, natura
assicurativa delle prestazioni (Cass., sez. 5,
15/06/2018, n. 15853).

7.7. Tale distinta considerazione non può ricavarsi
dalla sentenza delle Sezioni Unite, che descrive il fondo de quo in termini
chiari e univoci, senza alcuna distinzione rispetto alle diverse configurazioni
succedutesi nel tempo, quale «fondo di previdenza complementare aziendale a
capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente», le cui
prestazioni sono composte da «una sorte capitale», costituita dagli
accantonamenti imputabili ai contributi versati dal datore di lavoro (e in
notevole minor misura dal lavoratore), e da un «rendimento netto», imputabile
alla gestione sul mercato da parte del fondo del capitale accantonato»; «data
tale premessa non può dubitarsi – anche per la congiunzione «sicchè» che lega i
due periodi da nesso logico di conseguenzialità – che il successivo riferimento
al « rendimento di polizza (nella fattispecie P.I.A.)» abbia solo valore
descrittivo/esemplificativo della parte dei capitali corrisposti eventualmente
tassabile nella misura del 12,5 per cento ai sensi dell’art. 6 legge n. 482 del 1985,
fermo restando il requisito poco prima indicato perché un tale rendimento possa
effettivamente identificarsi, rappresentato dall’essere lo stesso discendente
dalla gestione sul mercato del capitale accantonato» (Cass., sez. 5, 2/03/2018,
n. 4941; Cass., sez. 5, 15/06/2018, n. 15853).

7.8. Va, quindi, confermato che sono tassabili con
l’aliquota del 12,5 per cento, ai sensi dell’art. 6 della legge n. 482 del 1985,
i capitali maturati anteriormente al 1 gennaio 2001 dai soggetti iscritti al
fondo di previdenza integrativa (P.I.A., poi Fondenel) prima dell’entrata in
vigore del d.lgs. n. 124/93, limitatamente a
quella parte di essi costituita dal rendimento netto, derivante dalla gestione
sul mercato da parte del fondo del capitale accantonato; se, pertanto, da una
parte, tale requisito andrà ricercato anche per i capitali maturati e gli
accantonamenti effettuati anteriormente alla trasformazione del fondo da P.I.A.
a Fondenel, dall’altra parte, però, non vi è ragione di circoscrivere tale
requisito ai soli (eventuali) investimenti nel mercato finanziario, secondo
l’indicazione contenuta nella Risoluzione n. 102/E
del 26 novembre 2012 dell’Agenzia delle Entrate, avallata da diverse
sentenze successive alla pronuncia delle Sezioni Unite (v. Cass., sez. 5,
27/03/2013, n. 7724; Cass., sez. 5, 27/03/2013, n. 7728; Cass., sez. 5,
24/05/2013, n. 12941; Cass., sez. 5, 24/05/2013, n. 12946; Cass., sez. 5,
9/10/2013, n. 22950; Cass., sez. 5, 12/02/2014, n. 3136; Cass., sez. 5,
19/03/2014, n. 6380; Cass., sez. 5, 9/04/2014, n. 8310; Cass., sez. 5,
4/02/2015, n. 1977), ma non contenuta in quest’ultima che parla soltanto di
«gestione sul mercato», senza alcuna aggettivazione. Il requisito dell’essere
il rendimento imputabile alla «gestione sul mercato» del capitale accantonato
identifica, in realtà, la ragione stessa della più favorevole tassazione di
tale reddito rappresentata dall’essere questo il risultato degli investimenti
effettuati dall’ente di gestione della somma versata, investimenti che, se
certamente saranno per lo più indirizzati verso i vari prodotti del mercato
finanziario, nulla esclude possano esserlo anche verso altri tipi di mercato (Cass. n. 10285 del 2017, cit.).

Deve, però, escludersi che tale requisito possa
considerarsi soddisfatto dall’essere il rendimento ottenuto corrispondente alla
redditività sul mercato dell’intero patrimonio dell’Enel, poiché tale coerenza
(del rendimento ottenuto dal capitale accantonato con quello ottenuto dal
patrimonio dell’Enel) costituisce un dato estrinseco e non causale, nel senso
che il primo non può comunque considerarsi frutto dell’investimento di quegli
accantonamenti nel libero mercato, come richiesto perché abbia a configurarsi
il reddito da capitale della specie richiesta, essendo al contrario esso stesso
dipeso da un predeterminato calcolo di matematica attuariale (Cass. n. 10285 del 2017, cit.).

8. La sentenza impugnata in questa sede non ha fatto
buon governo del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite e
richiamato nella sentenza di annullamento con rinvio n. 13302 del 2013, poiché
ha riconosciuto il diritto al rimborso in assenza di prova del «rendimento
netto», imputabile alla effettiva gestione sul mercato da parte del Fondo del
capitale accantonato.

8.1. Secondo gli ordinari criteri di ripartizione
dell’onere della prova, grava sul contribuente — attore in senso sostanziale —
che pretende il rimborso ed impugna il rigetto della sua istanza, l’onere di
dimostrare il fondamento della pretesa fatta valere in giudizio, ossia provare
quale sia la parte dell’indennità ricevuta ascrivibile in concreto a rendimenti
frutto d’investimento sui mercati di riferimento; tale onere non può ovviamente
considerarsi assolto tramite il mero rinvio ad un conteggio proveniente
dall’Enel, qualora questo non chiarisca se il rendimento indicato si riferisca
effettivamente all’incremento della quota individuale del Fondo attribuita al
dipendente in forza di investimenti effettuati dal gestore sul mercato (Cass.,
sez. 5, 13/01/2017, n. 720; Cass., sez. 5, 26/05/2017, n. 13278; Cass., sez. 5,
26/05/2017, n. 13281; Cass., sez. 6-5, 19/06/2018, n. 16116 che, in
motivazione, richiama la relazione n. 32/99 della Corte dei Conti – sezione del
controllo sugli enti – proprio sul bilancio consuntivo dell’Enel relativo
all’esercizio finanziario 1997; Cass., sez. 6-5, 19/06/2018, n. 16117; Cass.,
sez. 6-5, 19/06/2018, n. 16118; Cass., sez. 6-5, 19/06/2018, n. 16123, non
massimate); neppure tale onere può ritenersi assolto con la produzione dei
bilanci consolidati di Enel e delle relazioni del Consiglio di amministrazione
e dei sindaci, trattandosi di documentazione dalla quale si ricava che l’Enel
operava sul mercato finanziario, ma non che siano stati effettivamente
investite sul mercato le somme affluite nel fondo P.I.A.

8.2. Nel caso in esame non è in contestazione che il
controricorrente, in qualità di dirigente Enel, risultasse iscritto al Fondo
previdenziale denominato P.I.A. già in epoca antecedente al 28 aprile 1993 e
che le prestazioni in somma capitale gli siano state erogate in data
antecedente al 31 dicembre 2000.

Pertanto, poiché si discute solo di capitali
rinvenienti dall’accantonamento in P.I.A., le stesse deduzioni del
contribuente, contenute nell’atto di riassunzione – di cui l’Agenzia delle
Entrate ha ritrascritto uno stralcio a pag. 6 del ricorso per cassazione, in
omaggio al principio di autosufficienza – secondo cui in base alla
certificazione del 23 gennaio 2006 risulta che la prestazione erogata è
composta da una sorte capitale e da un rendimento di polizza e che i bilanci di
esercizio dell’Enel relativi al periodo 1986-2000 dimostrano che in quegli anni
l’Enel ha conseguito utili di esercizio che ha poi investito sul mercato dei
capitali, attraverso emissioni obbligazionarie e linee di credito a breve,
medio e lungo termine, non consentono di ritenere raggiunta la prova che il
rendimento ottenuto sulle somme accantonate nel fondo di previdenza integrativa
sia stato ricavato dal loro investimento sul mercato (Cass., sez. 5,
26/04/2017, n. 10285; Cass., sez. 5, 2/03/2018, n. 4941).

Va, peraltro, rilevato che, incombendo sul
contribuente l’onere di allegare e provare i fatti ai quali la legge ricollega
il trattamento impositivo rivendicato, le argomentazioni con le quali l’Ufficio
nega la sussistenza di tali fatti costituiscono mere difese, come tali non
soggette a preclusioni processuali, salva l’ipotesi della formazione del
giudicato interno o l’applicazione del principio d non contestazione, ove ne
ricorrano i presupposti. Tale ultimo principio non può essere richiamato al
fine di sostenere l’assunto secondo cui la mancata contestazione, da parte
dell’Ufficio, del contenuto della certificazione rilasciata dal sostituto
d’imposta Enel sulla composizione della somma erogata implicherebbe ammissione
della quantificazione del rendimento finanziario operata in detta
certificazione. E ciò perché, da un lato, il difetto di specifica contestazione
dei conteggi funzionali alla quantificazione del credito oggetto della pretesa,
allorché la controparte neghi in radice l’esistenza di tale credito, può avere
rilievo solo qualora si riferisca a fatti non incompatibili con le ragioni
della contestazione sull’an debeatur (Cass., Sez.
U, 23/01/2002, n. 761); per altro verso, il principio di non contestazione
opera sul piano della prova, cosicché esso nel processo tributario, nel quale è
certamente applicabile (Cass., sez. 5, 24/01/2007,
n. 1540), non elide l’operatività dell’altro principio — operante sul piano
dell’allegazione e collegato alla specialità del contenzioso tributario —
secondo cui la mancata presa di posizione dell’Ufficio sui motivi di
opposizione alla pretesa impositiva svolti dal contribuente non equivale ad
ammissione delle affermazioni che tali motivi sostanziano, né determina il
restringimento del thema decidendum ai soli motivi contestati, posto che la
richiesta di rigetto dell’intera domanda del contribuente consente all’Ufficio,
qualora le questioni da quello dedotte in via principale siano state rigettate,
di scegliere, nel prosieguo del giudizio, le diverse argomentazioni difensive
da opporre alle domande subordinate avversarie (Cass.,
sez. 5, 29/12/2011, n. 29613; Cass., sez. 6-5,
12/05/2016, n. 9732).

Ne discende che, essendosi i giudici di appello
limitati a rinviare al conteggio proveniente dall’Enel ed ai bilanci
consolidati della medesima società, che non provano se vi sia stato l’impiego
da parte del Fondo sul mercato del capitale accantonato e se e quale sia stato
l’eventuale rendimento conseguito in relazione a tale impiego, giustificandosi
solo rispetto a quest’ultimo rendimento la tassazione al 12,5 per cento, non è
possibile fare applicazione del regime fiscale agevolato.

9. In difetto di prova non offerta dal contribuente,
in accoglimento dei primi quattro motivi di ricorso, assorbito il quinto
motivo, la sentenza impugnata va, quindi, cassata; non essendo necessari
ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai
sensi del secondo comma dell’art. 384 cod. proc.
civ., con il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente.

La peculiarità dei profili esaminati, sui quali la
giurisprudenza si è consolidata solo in tempi recenti, impone di compensare
integralmente tra le parti le spese relative ai gradi del giudizio di merito e
le spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

accoglie il primo, il secondo, il terzo ed il quarto
motivo del ricorso; dichiara assorbito il quinto motivo; cassa la sentenza
impugnata e, decidendo la causa nel merito, rigetta l’originario ricorso del
contribuente.

Compensa integralmente tra le parti le spese
dell’intero giudizio.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 novembre 2020, n. 26543
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: