Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 novembre 2020, n. 26605

Riconoscimento del diritto a fruire del congedo ex art. 42 D.Lgs. n. 151/2001, Limite
massimo di due anni per ciascuno dei propri figli, Non sussiste

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 695 del 7 novembre 2013, la Corte
d’appello di Venezia ha rigettato l’impugnazione proposta dall’Inps avverso la
sentenza di primo grado di accoglimento della domanda proposta da N.Y. al fine
di ottenere il riconoscimento del proprio diritto a fruire del congedo di cui
all’art. 42 d.lgs. n. 151 del 2001
nel limite massimo di due anni per ciascuno dei propri figli affetti entrambi
da handicap grave.

2. La Corte territoriale, confutata la tesi
sostenuta dall’INPS secondo la quale la previsione dell’art. 42, comma 5, del citato d.lgs.
non sarebbe suscettibile di interpretazione estensiva in quanto, essendo
diretta ai soli dipendenti privati, costituirebbe norma speciale rispetto a
quella del comma 2, che è diretta anche a quelli pubblici, ha ritenuto che
l’interpretazione corretta sia quella che privilegia il diritto dei bambini
portatori di handicap ad ottenere la maggior tutela del proprio diritto allo
sviluppo ed alla salute, come la giurisprudenza della Corte di cassazione aveva
già affermato a proposito dell’art.
33 I. n. 104 del 1992 in tema di permessi giornalieri per accudire i figli
portatori di handicap.

3. Avverso tale sentenza, ricorre per cassazione
l’INPS sulla base di un motivo. Resiste con controricorso N.Y.. Le parti hanno
depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

4. Con l’unico motivo di ricorso, l’INPS denuncia la
violazione e falsa applicazione del combinato disposto dagli articoli 42, quinto comma, del d.lgs.
n. 151 del 2001, nel testo vigente ratione temporis, 4, comma secondo della legge n. 53
del 2000 e 2, secondo comma,
del d.m. 21 luglio 2000 n. 278 ed illustra il motivo precisando che la
fattispecie in esame è relativa alla riconoscibilità del congedo biennale di
cui all’art. 42, quinto comma del
d.lgs. 151/2001 al caso di un genitore che, avendo già fruito di due anni
del congedo di cui al comma 2
dell’art. 4 I. n. 53 del 2000 per assistere la figlia secondogenita
portatrice di handicap grave, chiede di beneficiare di ulteriori due anni di
congedo per assistere il terzo figlio, pure portatore di handicap, nel corso
dell’anno 2007. Ad avviso dell’INPS non è possibile fruire più di una volta del
congedo biennale nell’arco della vita lavorativa come specificato dal decreto ministeriale del 21 luglio 2000 n. 278 e
dall’art. 4, comma secondo,
cit. che parla espressamente di < un periodo di congedo, continuativo o
frazionato, non superiore a due anni>. La scelta legislativa, ad avviso del
ricorrente, costituisce frutto del bilanciamento tra la tutela dì situazioni
familiari gravose e l’interesse alla produttività nazionale ex art. 41 Cost., anche in considerazione che,
qualora ve ne fosse necessità, potrebbe fruire del congedo biennale in via
ulteriore l’altro genitore che non ne abbia usufruito.

5. Il motivo è infondato. Va, infatti, data
continuità al precedente specifico di questa Corte
di cassazione 5 maggio 2017 n. 11031, nonché alle considerazioni svolte da
Cassazione n. 4623 del 2010, in materia di fruizione dei permessi di cui all’art. 42, comma 1, d.lgs. n.
165 del 2001, nel caso di genitore di più figli affetti da handicap grave.

6. Il D.Lgs.
n. 151 del 2001, art. 42, comma 5, riconosceva il diritto al congedo per
handicap grave ad entrambi i genitori sostenendo che lo stesso non potesse
superare “la durata complessiva di due anni”. La L. n. 53 del 2000, art. 4, comma
2 parla allo stesso scopo di un “periodo di congedo, continuativo o
frazionato non superiore a due anni”. Il D.M. n. 278 del 2000, art. 2
prevede con analoga formula che il congedo biennale in questione “può
essere utilizzato per un periodo, continuativo o frazionato non superiore a due
anni nell’arco della vita lavorativa.”

7. Nessuna delle disposizioni citate autorizza però
ad affermare che sul piano letterale la legge abbia inteso riferirsi alla
durata complessiva dei possibili congedi fruibili dall’avente diritto, anche
nell’ipotesi in cui i soggetti da assistere fossero più di uno; talché esaurito
il periodo complessivo di due anni il genitore non abbia più diritto nell’arco
della vita lavorativa ad altro periodo di congedo, anche nell’ipotesi in cui
avesse un altro figlio da assistere in situazione di handicap grave.

8. Le stesse norme, invece, secondo una
interpretazione costituzionalmente orientata ai sensi degli artt. 2, 3, 32 Cost. possono essere intese soltanto nel senso
che il limite dei due anni – in effetti non superabile nell’arco della vita
lavorativa anche nel caso di godimento cumulativo di entrambi i genitori – si
riferisca tuttavia a ciascun figlio che si trovi nella prevista situazione di
bisogno, in modo da non lasciarne alcuno privo della necessaria assistenza che
la legge è protesa ad assicurare.

9. Sul piano sistematico (vd. già Cass. n. 4623 del 2010), si è rilevato come le
Sezioni unite di questa Corte hanno precisato con la sentenza n. 16102 del 2009, che la configurazione
giuridica delle posizioni soggettive riconosciute dalla L. n. 104 del 1992, va individuata alla luce dei
numerosi interventi della Corte costituzionale, che – collocando le
agevolazioni in esame all’interno di un’ampia sfera di applicazione della
legge, diretta ad assicurare, in termini quanto più possibile soddisfacente, la
tutela dei soggetti svantaggiati, destinata a incidere sul settore sanitario e
assistenziale, sulla formazione professionale, sulle condizioni di lavoro,
sulla integrazione scolastica – ha tuttavia precisato la discrezionalità del
legislatore nell’individuare le diverse misure operative finalizzate a
garantire la condizione del disabile mediante la interrelazione e la integrazione
dei valori espressi dal disegno costituzionale (cfr. Corte cost. n. 406 del
1992; id., n. 325 del 1996).

10. Si tratta di un ampio complesso normativo –
riconducibile ai principi sanciti dall’art. 3
Cost., comma 2, e dall’art. 32 Cost., – che
deve trovare attuazione mediante meccanismi di solidarietà che, da un lato, non
si identificano esclusivamente con l’assistenza familiare e, dall’altro, devono
coesistere e bilanciarsi con altri valori costituzionali.

11. L’agevolazione è diretta non tanto a garantire
la presenza del lavoratore nel proprio nucleo familiare, quanto ad evitare che
il bambino handicappato resti privo di assistenza, di modo che possa risultare
compromessa la sua tutela psico-fisica e la sua integrazione nella famiglia e
nella collettività, così confermandosi che, in generale, il destinatario della
tutela realizzata mediante le agevolazioni previste dalla legge non è il nucleo
familiare in sè, ovvero il lavoratore onerato dell’assistenza, bensì la persona
portatrice di handicap (cfr. Corte cost. n. 19 del
2009). Una configurazione siffatta, d’altronde, è in linea con la
definizione contenuta nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con
disabilità, approvata il 13 dicembre 2006, là dove la finalità comune dei
diversi ordinamenti viene identificata nella piena ed effettiva partecipazione
nella società su una base di eguaglianza con gli altri, nonché con la nuova
classificazione adottata nel 1999 dalla Organizzazione Mondiale della Sanità,
che ha definito la disabilità come difficoltà all’espletamento delle
“attività personali” e alla “partecipazione sociale” (cfr. Cass., sez. un., n. 16102 del 2009).

12. Nella stessa direzione si esprime ora,
espressamente, la stessa legge grazie al D.Lgs. 18 luglio 2011, n. 119, art. 4
che ha modificato del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151,
l’art. 42 in materia di congedo
per assistenza di soggetto portatore di handicap grave, introducendo un comma
5-bis del seguente tenore: “Il congedo fruito ai sensi del comma 5 non può
superare la durata complessiva di due anni per ciascuna persona portatrice di
handicap e nell’arco della vita lavorativa….” Tale esplicitazione
normativa, introdotta dal Decreto n. 119 del 2011,
deve ritenersi confermativa del tenore della legge precedente (come risulta
anche dalle indicazioni fornite dalla Circolare
INPDAP 10 gennaio 2002, n. 2 e dalla Circolare INPDAP del 12.3.2004 n. 31).

13. Le considerazioni sin qui svolte impongono
dunque di rigettare il ricorso promosso dall’INPS avverso la sentenza impugnata
che ha fatto buon governo delle regole di diritto applicabili alla fattispecie.

14. Le spese seguono la soccombenza come in
dispositivo, con distrazione.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna l’INPS al pagamento
della spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 3000,00 per compensi,
oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% e spese
accessorie di legge, da distrarsi in favore in favore dell’avv. R.T.,
antistatario.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.lgs. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13,
ove previsto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 novembre 2020, n. 26605
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