Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 novembre 2020, n. 33105

Reato di furto aggravato dall’abuso di prestazione d’opera,
Lavoratore dipendente, Costituzione di una società avente identico scopo
sociale, Utilizzo delle informazioni trafugate

 

Ritenuto in fatto

 

1. La sentenza della Corte d’Appello di Ancona in
epigrafe ha confermato quella del Tribunale di Ascoli Piceno datata 24.7.2018
con cui K.M. e D.R. sono stati condannati alla pena, rispettivamente, di anni
uno di reclusione ed euro 400 di multa e di mesi otto di reclusione ed euro 300
di multa per il reato di furto aggravato dall’abuso di prestazione d’opera.

Il furto ha avuto ad oggetto due compact disc della
società P. s.r.l., uno contenente il software denominato N., l’altro l’elenco con
i dati personali dei clienti della predetta società, da parte dell’imputata M.,
già dipendente dell’azienda, specializzata nel peculiare settore
dell’elaborazione di piani dieta individualizzati per categorie di soggetti
bisognevoli di alimentazioni controllate, e del compagno di costei, l’altro
imputato D.R.

L’imputata, lasciato il lavoro dipendente, secondo
l’ipotesi di accusa, aveva poi costituito una società avente identico scopo
sociale, utilizzando le informazioni trafugate.

2. Il ricorso, affidato al difensore di entrambi gli
imputati, l’avv. M.G., si compone di tre motivi.

2.1. Il primo argomento di censura formulato dal
ricorrente eccepisce violazione di legge per l’inosservanza degli artt. 90, 468 e 191 cod. proc. pen., per essere stati ammessi i
testi della difesa di parte civile, la cui lista era stata depositata,
tuttavia, prima della rituale costituzione in udienza della parte civile
stessa.

Erroneamente il giudice di secondo grado ha ritenuto
di rigettare il motivo d’appello analogo proposto nell’impugnazione di merito,
citando la giurisprudenza valevole per l’ipotesi in cui la costituzione di
parte civile avvenga non già in udienza bensì fuori udienza (in tal caso è
corretta l’ammissione della lista testi di parte civile presentata prima del
perfezionamento della notificazione dell’atto di costituzione).

In ogni caso, si deduce, le due liste testi della
persona offesa sono comunque tardive: la prima udienza del processo è stata,
infatti, quella del 3.12.2015 e le liste testi, piuttosto che essere presentate
entro il termine di sette giorni liberi precedenti a tale data, sono state
depositate, la prima, il 22.4.2016; la seconda, il 2.5.2016.

Dalla violazione di legge deriverebbe
l’inutilizzabilità delle dichiarazioni dei testi proposti dalla persona offesa
e l’annullamento della sentenza interamente basata soltanto su tali
dichiarazioni.

2.2. Il secondo motivo di ricorso censura violazione
di legge in relazione agli artt. 646, 624, 625 cod. pen.
per aver erroneamente i giudici di merito qualificato la condotta come
fattispecie di furto piuttosto che di appropriazione indebita, rigettando le
richieste difensive in tal senso.

La Corte d’Appello, per configurare la condotta come
furto, ha citato giurisprudenza di legittimità in cui si ritiene configurabile
tale reato, e non quello di cui all’art. 646 cod.
pen., nel caso in cui l’agente abbia la detenzione della cosa ma non sia
titolare di un autonomo potere dispositivo su di essa.

Ebbene, nel giudizio in corso, la ricorrente M.
aveva la chiave della cassaforte ove erano contenuti i compact disc trafugati e
poteva, pertanto, disporre del contenuto per intero di essa, sicché andava
ritenuto il reato di appropriazione indebita così come affermato anche da una
parte della giurisprudenza di legittimità.

2.3. La terza censura difensiva attiene al vizio di
motivazione illogica quanto al rigetto dell’istanza difensiva di assumere una
prova decisiva a giudizio della difesa, e cioè una perizia dalla quale si
desumesse con certezza se i programmi informatici della N. e della nuova azienda
creata dalla ricorrente – la K. – fossero o meno identici.

Il reato attribuito agli imputati ha avuto una
ricostruzione indiziaria e, dunque, assume importanza decisiva il movente, per
capire se il furto abbia poi prodotto quell’utilità costituita dall’utilizzazione
indebita di un software altrui per il proprio oggetto sociale.

La Corte d’Appello, invece, ha rigettato l’istanza
sostenendo che la registrazione SIAE del programma informatico della N. rendeva
inutile la prova, in quanto in ogni caso il programma non poteva essere oggetto
di copiatura: ma tale argomentazione è del tutto inconferente rispetto alla
richiesta.

In sintesi, non vi sarebbe prova, al di là di ogni
ragionevole dubbio, che una condotta delittuosa sia stata commessa dai due
imputati, se non vi è prova del fatto che costoro abbiano poi copiato il
contenuto dei cd sottratti, tanto più che i ricorrenti hanno costituito la loro
società solo molti anni dopo la data del presunto furto.

2.4. Il quarto motivo di ricorso deduce vizio di
motivazione illogica e contraddittoria della parte argomentativa riferita alla
qualità indiziante del costo di investimento sostenuto dalla società K. creata
dai ricorrenti a fronte di quello, molto più elevato, sviluppato in molti anni
di attività e studio dalla ditta derubata.

2.5. Il quinto argomento di censura si rivolge al
trattamento sanzionatorio e lamenta l’omessa motivazione relativa alla mancata
concessione del beneficio della non menzione, nonché al diniego delle
circostanze attenuanti generiche, in favore della ricorrente M., illogicamente
motivati con la valenza ostativa del rapporto di amicizia e fiduciario
“tradito”.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso proposto dagli imputati è
complessivamente infondato.

2. Il primo motivo deve essere rigettato perché
l’eccezione non trova riscontro favorevole nella lettura sistematica degli
orientamenti di legittimità in tema di prova processuale. Sebbene il richiamo
giurisprudenziale della Corte di merito sia impreciso, poiché riferito
all’orientamento interpretativo elaborato per l’ipotesi in cui la parte civile
si sia costituita non, come accaduto nel caso di specie, in udienza, bensì
fuori udienza – ed in tal caso ritiene la facoltà di depositare la lista
testimoniale prima della notificazione della dichiarazione di costituzione
(cfr. per tutte Sez. 4, n. 27388 del 21/2/2018, Di Taranto, Rv. 273411 – la
conclusione cui i giudici pervengono sulla legittimità del l’ammissibilità
della lista testi depositata prima della formale costituzione, effettuata,
appunto, in udienza dibattimentale, è corretta.

Costituisce orientamento pacifico, infatti, quello
secondo cui la costituzione di parte civile al dibattimento oltre il termine
previsto per la presentazione delle liste ex art.
468, comma primo, cod. proc. pen., non può privare la parte civile stessa
del diritto di chiedere prove, ai sensi dell’art.
493, comma secondo, cod. proc. pen., ferma restando la facoltà della
controparte di articolare prove contrarie (Sez. 4,
n. 44672 del 9/10/2019, Di Lorenzo, Rv. 277361; Sez. 3, Sentenza n. 49644
del 06/10/2015, Rv. 265396; Sez. 3, Sentenza n. 16868 del 08/03/2005, Di
Giovannantonio, Rv. 231983).

Del resto, il potere residuale, ma fondamentale alla
struttura ed alle finalità del processo, che deriva al giudice dalla
disposizione prevista dall’art. 507 cod. proc. pen.,
chiude il sistema nel senso che è funzionale agli obiettivi propri anche del
processo di parti accusatorio prevedere un meccanismo di acquisizione delle
prove decisive e assolutamente necessarie che prescinde dalla stessa attività
delle parti e promana direttamente dal giudice (cfr. Sez. U, n. 41281 del
17/10/2006, Greco, Rv. 234907; Sez. U, n. 11627 del 6/11/1992, Martin, Rv.
191607), poiché la completezza dei dati cognitivi è funzionale al migliore
accertamento della verità, naturale corollario del principio di obbligatorietà
dell’azione penale (Sez. 6, n. 25770 del 29/5/2019, Chiesa, Rv. 276217; Sez. 2,
n. 34868 del 4/7/2019, Lanza, Rv. 276430; Sez. 2, n. 46147 del 10/10/2019,
Janmoune).

Peraltro, in parte, il motivo proposto è anche
inammissibile, là dove indica solo genericamente ed apoditticamente le ragioni
sulla base delle quali ritiene che, espunta la prova asseritamente ammessa
fuori termine, cadrebbe la ricostruzione accusatoria cui hanno aderito i
giudici di merito.

3. Il secondo motivo di ricorso è infondato
anch’esso.

3.1. Il Collegio rammenta come, al di là di alcune
distonie interpretative pure rinvenibili nella risoluzione di fattispecie
concrete, nella giurisprudenza di legittimità si afferma da tempo che è
configurabile il reato di furto e non quello di appropriazione indebita ove
l’agente abbia la detenzione della cosa ma non un autonomo potere dispositivo
sul bene (Sez. 4, n. 54014 del 25/10/2018, Veccari, Rv. 274749; Sez. 5, n. 31993 del 5/3/2018; Franceschino, Rv.
273639; Sez. 4, n. 10638 del 2/2/2013, Santoro, Rv. 255289).

Il reato di cui all’art.
646 cod. pen., infatti, si distingue da quello di furto proprio per la
situazione di possesso della cosa altrui, là dove la nozione di possesso cui
allude la fattispecie incriminatrice coinvolge ogni situazione giuridica che si
concretizza nel potere di disporre della cosa in modo autonomo al di fuori
della sfera di vigilanza del proprietario, riferendosi, dunque, in tal senso,
anche alla detenzione.

Quando, invece, l’agente non ha alcuna facoltà
idonea ad esercitare il possesso, deve ravvisarsi il delitto di furto e non di
appropriazione indebita (Sez. 4, n. 23091 del 14/3/2008, Esposito, Rv. 240295;
Sez. 4, n. 10638 del 20/2/2013, Santoro, Rv. 255289; Sez. 5, n. 7304 del
17/12/2014, dep. 2015, Sorio, Rv. 262743; Sez. 4, n. 6617 del 24/11/2016, dep.
2017, Frontino, Rv. 269224).

È bene ribadire un’affermazione molto chiara
pronunciata da questa Corte sul tema, sebbene non recentemente: il presupposto
del delitto di appropriazione indebita è costituito da un preesistente possesso
della cosa altrui da parte dell’agente, cioè da una situazione di fatto che si
concretizzi nell’esercizio di un potere autonomo sulla cosa, al di fuori dei
poteri di vigilanza e di custodia che spettano giuridicamente al proprietario.
Viceversa, quando sussiste un semplice rapporto materiale con la cosa,
determinato da un affidamento condizionato e conseguente ad un preciso rapporto
di lavoro, soggetto ad una specifica regolamentazione, che non attribuisca
all’agente alcun potere di autonoma disponibilità sulla cosa stessa, si ricade
nell’ipotesi di furto e non di appropriazione indebita (Sez. 2, n. 7079 del
17/3/1998, Farfarillo, Rv. 178616).

Ciò che è decisiva, quindi, è l’indagine circa il
potere di disponibilità sul bene da parte dell’agente: se questo sussiste, il
mancato rispetto dei limiti in ordine alla utilizzabilità del bene integra il
reato di appropriazione indebita; in caso contrario, è configurabile il reato
di furto (Sez. 2032 del 15/1/1997, Flosci, Rv. 208668).

L’eco di tali posizioni ermeneutiche si ritrova
nella giurisprudenza, parallela a quella in esame, chiamata a decidere tra la
configurabilità del reato di peculato piuttosto che di quello di furto nel caso
di appropriazione di denaro versato su conti correnti o libretti di deposito:
cfr., per una ricostruzione recente ed un esempio di complessità delle
fattispecie possibili Sez. 6, n. 52662 del 2/10/2018, Carbone, Rv. 274297.

3.2. Sulla base di tali coordinate interpretative
deve essere condotta l’analisi delle fattispecie concrete e, per quel che qui
importa, deve esaminarsi il caso sottoposto al Collegio.

Ebbene, risulta dall’istruttoria dibattimentale che
la ricorrente M. aveva avuto l’autorizzazione ad aprire la cassaforte per
motivi ben precisi e secondo un’operatività molto limitata e specifica: ella ne
aveva le chiavi d’accesso allo scopo di prelevare, all’occorrenza e su
indicazione dell’amministratore della società P. che doveva firmarli, gli
assegni contenuti nei carnet aziendali che ivi si trovavano custoditi.

Una posizione individuale, dunque, ben lontana da
quella disponibilità autonoma di un bene evocata dalla nozione di possesso
contenuta nella disposizione di cui all’art. 649
cod. pen. al fine di rendere configurabile la fattispecie di appropriazione
indebita, in luogo di quella di furto.

Correttamente, pertanto, la Corte d’Appello ha
confermato la qualificazione giuridica del reato in quello previsto dall’art. 624 cod. pen.

Deve essere, in conclusione, affermato il principio
secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di furto piuttosto che di
quello di appropriazione indebita, ciò che è decisiva è l’indagine circa il
potere di disponibilità sul bene da parte dell’agente: se questo sussiste, il
mancato rispetto dei limiti in ordine alla utilizzabilità del bene integra il
reato di appropriazione indebita; in caso contrario, è configurabile il reato
di furto; ciò perché, quando sussiste un semplice rapporto materiale con la
cosa, determinato da un affidamento condizionato e conseguente ad un preciso
rapporto di lavoro, soggetto ad una specifica regolamentazione, che non
attribuisca all’agente alcun potere di autonoma disponibilità sulla cosa
stessa, si ricade nell’ipotesi di furto e non di appropriazione indebita.

4. Il terzo motivo è manifestamente infondato.

Con l’eccezione proposta i ricorrenti sembrano
considerare il movente dell’azione delittuosa come passaggio decisivo per la
verifica di sussistenza della gravità indiziaria, in un processo in cui,
invece, numerose sono state le ulteriori evidenze, puntualmente ricordate dai
giudici di merito, che hanno condotto all’affermazione di colpevolezza.

Ed infatti, la perizia che è stata negata sarebbe
decisiva sul piano dell’accertamento di responsabilità se lo fosse il movente
dal punto di vista della gravità indiziaria.

Orbene, il ruolo del movente nella complessità di
una ricostruzione indiziaria è stato ampiamente esplorato dalla giurisprudenza
delle Sezioni Unite e la sua natura, tutt’altro che decisiva, ma anzi di
complemento e ausilio a tale ricostruzione, proveniente ordinariamente da un
ulteriore, diverso quadro indiziario, è stata affermata con chiarezza, sicché
esso può definirsi un elemento catalizzatore e rafforzativo della valenza degli
indizi posti a fondamento di un giudizio di responsabilità (cfr. Sez. U, n.
45276 del 3/10/2003, Andreotti, Rv. 226094; Sez. 1, n. 813 del 19/10/2016, dep.
2017, Lin, Rv. 269287; Sez. 1, n. 17458 del 20/4/2012, Sorrentino, Rv. 252889)
e non certo un elemento che, se mancante o non provato del tutto, possa essere
ritenuto una prova decisiva a discarico o un tassello in grado di eliminare la
valenza probatoria delle ulteriori e concordanti evidenze indiziarie.

Più chiaramente, il movente delittuoso, nella
complessità di una ricostruzione indiziaria, ha natura di elemento non
decisivo, ma anzi di complemento e ausilio a tale ricostruzione, sicché esso
può definirsi un elemento catalizzatore e rafforzativo della valenza degli
indizi posti a fondamento di un giudizio di responsabilità, ma non un elemento
che, se mancante o non provato del tutto, può essere ritenuto una prova
decisiva a discarico o un tassello in grado di eliminare la valenza probatoria
delle ulteriori e concordanti evidenze indiziarie.

Nel caso di specie, il provvedimento impugnato,
richiamando anche il contenuto della ricostruzione in fatto proposta dal
giudice di primo grado, ha elencato gli snodi fondamentali dell’edificio
indiziario, non a caso definito “solido”.

Anzitutto il contesto: effettivamente i ricorrenti
hanno creato, dopo le improvvise ed inaspettate dimissioni della M. dalla P.,
una propria società, la K. s.r.l., avente l’identico, peculiare e molto
specialistico oggetto sociale della P. stessa. Inoltre, il furto è stato commesso
senza segni di scasso prelevando i compact-disc da una cassaforte chiusa la cui
combinazione era nota, oltre che ai due amministratori-soci della P., soltanto
alla ricorrente M., dipendente della società, delegata a mansioni che
prevedevano l’accesso alla cassaforte per prelevare gli assegni intestati alla
società e consegnarli agli amministratori su richiesta; i due ricorrenti,
insieme al figlio della M., esperto in informatica, avevano convocato un altro
dipendente specializzato della P., il teste D., il quale ha riferito di un
tentativo di indurlo a far parte della compagine della nuova società,
mostrandogli un programma informatico della società derubata di poco precedente
a quello oggetto di furto del quale si erano perciò già impossessati.

Infine, la Corte d’Appello mette in risalto
un’importante prova logica: il furto dei compact- disc contenenti il know how
aziendale, sotto forma di programma informatico, e la banca dati dei clienti ed
utilizzatori dei singoli programmi elaborati sulla base del piano di progetto
per l’alimentazione poteva essere utile soltanto a chi avesse intenzione di
utilizzarlo per un proprio progetto imprenditoriale nel medesimo settore, non
avendo il materiale alcun valore venale in sé.

Dinanzi a tali dati di natura storica e logica la
piattaforma indiziaria “vive” e si compie, al di là del movente
specifico che indaga il ricorso: e cioè l’essere o meno il programma di
software aziendale della nuova società creata dai ricorrenti una
“copia” di quello della P.

Del resto è indubbio – ed anche ciò si coglie nel
tessuto argomentativo del provvedimento impugnato – che sarebbe stato
sufficiente ai ricorrenti anche non copiare del tutto i cd sottratti per
ottenere un avviamento aziendale di tutto rispetto, ad un costo irrisorio
(evidenziato dalla Corte d’Appello in circa 10.000 euro) rispetto al valore del
prodotto intellettuale trafugato, frutto di anni di evoluzione e studio e
quantificato intorno ai 500.000 euro.

5. Il quarto motivo difensivo è inammissibile
anzitutto per una sua intrinseca genericità che si rivela quasi al pari di una
inintelligibilità e oscurità del vizio motivazionale dedotto.

Sembra di capire che, nel confronto tra i valori di
avviamento della nuova società dei ricorrenti e quello del software evoluto
della P., la Corte d’Appello abbia illogicamente motivato sulla loro capacità
indiziante.

Tuttavia, la lettura del portato argomentativo del
giudice di merito, che in più punti riprende il dato, è univocamente ed
agevolmente indirizzata a provare come economicamente la sottrazione del
software da parte degli imputati avrebbe realizzato un netto abbattimento dei
costi per la loro nuova attività, senza cadute logiche o aporie motivazionali.

In ogni caso, il motivo è inammissibile, poiché
denuncia in modo generico ed alquanto confuso il presunto difetto, senza
spiegarne in realtà gli esatti termini e muove da una logica di verifica di
fatto, chiedendo al Collegio una valutazione di merito, cui non può essere
chiamato il giudice di legittimità.

6. Il quinto motivo di ricorso è inammissibile
perché in parte generico e in parte manifestamente infondato.

La motivazione sul diniego delle circostanze
attenuanti generiche alla ricorrente M. è adeguata e logica e sostanzialmente
valorizza le circostanze di realizzazione del fatto che costituiscono anche
ragione dell’aggravamento del suo disvalore, e cioè l’approfittamento di un
rapporto di fiducia da parte dell’imputata.

Quanto all’eccezione relativa all’omessa motivazione
sul diniego del beneficio della non menzione, deve rilevarsi come gli odierni
ricorrenti nulla abbiano esposto tramite l’atto di impugnazione del loro
difensore, né alcuna richiesta è stata fatta al riguardo nel corso delle
conclusioni rassegnate in udienza dinanzi alla Corte d’Appello.

Deve applicarsi, pertanto, il principio sancito
dalle Sezioni Unite con la pronuncia Sez. U, n. 22533 del 25/10/2018, Salerno,
Rv. 275376 che ha affermato, in tema di sospensione condizionale, un principio
valevole anche per gli altri istituti previsti dall’art.
597 co. 5, cod. proc. pen.

La questione di diritto risolta dal massimo Collegio
nomofilattico era incentrata sulla necessità, per il giudice dell’appello, di
rendere conto del concreto esercizio, positivo o negativo, del dovere
attribuitogli dall’art. 597, comma 5, cod. proc.
pen. di applicare quel beneficio in assenza di specifica richiesta.

Le Sezioni Unite hanno affermato che, fermo
l’obbligo del giudice d’appello di motivare circa il mancato esercizio del potere-dovere
di applicazione di detto beneficio in presenza delle condizioni che ne
consentono il riconoscimento, l’imputato non può dolersi, con ricorso per
cassazione, della sua mancata concessione, qualora non ne abbia fatto richiesta
nel corso del giudizio di merito.

Le Sezioni Unite hanno approfondito il tema generale
della deroga prevista dall’art. 597, comma 5, cod.
proc. pen. al principio devolutivo enunciato dal comma primo dello stesso
articolo, dichiarandone l’eccezionaiità, che si coniuga con la discrezionalità
del giudice nell’ordinare (tutti) i benefici previsti dagli artt. 163, 164 e 175 cod. pen.

Con un ragionamento, dunque, valido per tutti i
benefici indicati nella disposizione richiamata, tra i quali rientra la non
menzione, le Sezioni Unite hanno chiarito che tale discrezionalità rimanda ad
un “potere” non vincolato al suo esercizio che diventa un “dovere”
del giudice di appello, il cui esercizio, tuttavia, «va correlato sia al suo
fondamento normativo, che lo pone come “eccezione” al generale
principio devolutivo che governa il giudizio di appello, sia al contenuto
“discrezionale” del suo oggetto, che postula, ai fini
dell’applicazione dei benefici come del riconoscimento di attenuanti,
valutazioni di puro merito». Pertanto, è lo stretto nesso tra ufficiosità,
eccezionalità e discrezionalità del potere dovere attribuito al giudice di
appello che porta a escludere che il suo mancato esercizio possa configurare un
vizio deducibile in cassazione, poiché «la non decisione sul punto non
costituisce violazione di norma penale sostanziale (art.
606, comma 1, lett. b, cod. proc. pen.) e, neppure, violazione di norma
processuale stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o
decadenza (art. 606, comma 1, lett. c, cod. proc.
pen.), tale non essendo l’art. 597, comma 5,
cod. proc. pen.; soprattutto la “non decisione”, in appello, sui
benefici di legge non è denunciabile come vizio di motivazione per mancanza (art. 606, comma 1, lett. e, cod. proc. pen.),
laddove la parte -che avrebbe potuto sollecitarne l’esercizio, in relazione ai
possibili sviluppi del processo di secondo grado ancorché preceduto da giudizio
assolutorio o incompatibile con il riconoscimento della sospensione
condizionale della pena – non abbia richiesto, senza averne fatto (o potuto
fare) motivo di impugnazione, l’applicazione del beneficio nel corso del
medesimo giudizio di appello».

In conclusione, dunque, il mancato esercizio (con
esito positivo o negativo) del potere dovere del giudice di appello di
applicare di ufficio i benefici di legge, non accompagnato da alcuna
motivazione che renda ragione di tale “non decisione”, non può
costituire motivo di ricorso per cassazione per violazione di legge o difetto
di motivazione, se l’effettivo espletamento del medesimo potere-dovere non sia
stato sollecitato da una delle parti, almeno in sede di conclusioni nel
giudizio di appello (Sez. 4, n. 29538 del 28/5/2019, Calcinoni, Rv. 276596).

Infine, deve rilevarsi anche la genericità della
richiesta e dell’eccezione formulate con il motivo di ricorso sul punto, che si
limita a dedurre l’omessa motivazione sul tema del beneficio della non
menzione, ma non contestualizza in alcun modo i caratteri della sua
concedibilità.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento
delle spese processuali.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 novembre 2020, n. 33105
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: