Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 dicembre 2020, n. 27913

Risarcimento del danno da invalidità temporanea, Mobbing,
Comportamenti tenuti dai dipendenti, Quotidianità delle offese e dei
rimproveri ingiustificati, Volontà di prevaricazione dei suddetti dipendenti,
Responsabilità datoriale per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare
l’integrità psico-fisica del lavoratore, Norma di chiusura del sistema
antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente
considerate

 

Fatti di causa

 

Il Tribunale di Fermo con la sentenza n. 17/2016,
depositata il 26.1.2016, in parziale accoglimento del ricorso proposto da D.R.,
ha dichiarato la illegittimità del licenziamento alla stessa intimato dalla
S.p.A. A.G., disponendo la reintegrazione della lavoratrice nel luogo di
lavoro, ed ha condannato la società datrice al pagamento, in favore della
prima, dell’indennità risarcitoria dal licenziamento sino alla effettiva
reintegra, oltre al versamento dei contributi maturati e maturandi.

La Corte territoriale di Ancona, con sentenza
pubblicata in data 19.1.2018, ha respinto l’appello principale interposto
dalla  A. G. S.r.l. (già A. G. S.p.A.),
nei confronti della R., avverso la detta pronunzia, ed in parziale accoglimento
dell’appello incidentale della lavoratrice, ha condannato la società al
pagamento, in favore di quest’ultima, della somma di Euro 5.422,50, a titolo di
risarcimento del danno da invalidità temporanea conseguente al mobbing posto in
essere nei suoi confronti, confermando, nel resto, la sentenza impugnata.

La Corte di Appello, per quanto ancora di rilievo in
questa sede, ha osservato che, nella fattispecie, «assume rilievo il fatto che
A. G., rappresentante legale della società datrice, sia stato messo al
corrente» dei reiterati «episodi mobizzanti posti in essere» nei confronti
della dipendente, «ma non abbia voluto indagare a fondo la questione, né
attuare provvedimenti disciplinari idonei a tutelare la situazione problematica
prospettatagli dalla R.»; che «gli atteggiamenti e i comportamenti tenuti dai
dipendenti nei confronti della R. appaiono idonei ad integrare la fattispecie
di mobbing, nei termini sintetizzati dall’ormai costante giurisprudenza di
legittimità (da ultimo Cass. n. 24358/2017)…
sussistendo, nel caso di specie, tanto il requisito oggettivo, quanto quello
soggettivo. Il primo, costituito dalla pluralità di atti o fatti,
caratterizzati da sistematicità, si è concretizzato con tutta evidenza, data la
quotidianità delle offese e dei rimproveri ingiustificati con cui i dipendenti,
in particolare la I. e la S., mortificavano la R.. L’elemento soggettivo
risulta provato, invece, dall’offensività dei termini utilizzati e delle accuse
assolutamente infondate dirette alla lavoratrice, suscettibili di evidenziare
la volontà di prevaricazione dei suddetti dipendenti nei confronti della
stessa»; ed inoltre, che «Nel caso in esame, sebbene il datore di lavoro non si
sia reso protagonista diretto delle condotte vessatorie subite dalla R.,
tuttavia lo stesso non può andare esente da responsabilità rispetto ai propri
obblighi di tutela previsti dall’art. 2087 c.c..
Il datore, in particolare, anche con riferimento all’episodio del luglio 2007,
sebbene avesse udito le grida e sebbene fosse stato informato tanto dal S.
quanto dall’appellata, non ha mai reagito a tutela dell’integrità morale di
quest’ultima» (v. pagg. 14 e 15 della sentenza impugnata).

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso
il Fallimento Manifatture A.G. S.r.l. in liquidazione (già A. G. S.r.l.)
articolando quattro motivi, cui ha resistito D. R. con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

Preliminarmente, va disattesa l’eccezione sollevata
da D.R. nel controricorso circa la tardività della notifica del ricorso per
cassazione, data la tempestività del ricorso della curatela fallimentare
(avvenuta lunedì 4.6.2018), destinataria di notificazione a mezzo PEC il
4.4.2018, ed attesa la nullità di quella a mezzo PEC del 19.1.2018 ai
procuratori costituiti della società, essendone stato dichiarato il fallimento
dopo la sentenza di appello in pendenza del termine per il ricorso per
cassazione.

Qualora, infatti, dopo la sentenza di secondo grado
ed in pendenza del termine per la proposizione del gravame, intervenga il
fallimento della parte, il ricorso per cassazione deve essere proposto e
notificato nei confronti del fallimento, mentre ove sia proposto nei confronti
del soggetto in bonis e notificato al procuratore domiciliatario nel giudizio
di appello, è nullo ai sensi degli artt. 163 e 164 del codice di rito, ma la nullità è sanata
dalla notifica effettuata, in rinnovazione, al curatore fallimentare (cfr., tra
le altre, Cass. n. 16070/2014).

Ciò premesso, occorre procedere all’esame dei mezzi
di impugnazione articolati dalla società ricorrente.

1. Con il primo motivo si deduce, in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la
violazione e falsa applicazione dell’art. 58, lett. B), del CCNL Industria
Calzature del 2.7.2008 e dell’art. 2110 c.c.
«per non avere la Corte d’Appello considerato scaduto il periodo di conservazione
del posto, essendo decorso il periodo di comporto e non spettando
l’aspettativa»; in particolare, si lamenta che i giudici di secondo grado non
avrebbero considerato che, ai sensi dell’art. 58, lett. B), del CCNIL di
settore, il periodo di aspettativa, successivo alla scadenza dei 13 mesi del
periodo di comporto, potesse essere concesso solo in presenza di ricovero
ospedaliero e/o terapia salvavita e che, nella fattispecie, non ricorrendo
alcuna delle due circostanze, l’aspettativa non poteva essere concessa alla R.
e, quindi, «il periodo di comporto iniziò a decorrere 90 giorni dopo l’inizio
della assenza per malattia asseritamente causata da mobbing e, dunque, non
computabile nel periodo di comporto, e precisamente in data 12.10.2007, per terminare
13 mesi dopo, ovvero in data 11.11.2008. Successivamente a tale data, il
16.12.2008, veniva irrogato il licenziamento, da ritenere perfettamente
valido».

2. Con il secondo motivo si denunzia, in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la
violazione e falsa applicazione dell’art. 58, lett. B), del CCNL Industria
Calzature del 2.7.2008 «per non avere la Corte d’Appello considerato
applicabile al caso di specie la normativa di cui al CCNL Industria Calzature
del 2.7.2008» e si precisa che con tale motivo, «strettamente connesso al
primo, si eccepisce una errata applicazione della norma di cui all’art. 58,
lett. B), del CCNL Industria Calzature del 2.7.2008, modificativo del
precedente».

3. Con il terzo motivo si censura, in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la
violazione e falsa applicazione degli artt. 2087,
2697 c.c. e 115
c.p.c. «per avere la Corte d’Appello ritenuto esistente la fattispecie di
mobbing in assenza degli elementi costitutivi» ed avere ravvisato nella
fattispecie un intento persecutorio in assenza di elementi probatori a
sostegno.

4. Con il quarto motivo si deduce, in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.,
l’omesso esame di un fatto decisivo «per avere la Corte d’Appello omesso di
considerare la mancata comunicazione al datore di lavoro dei comportamenti
assunti come mobizzanti».

1.1; 2.2. I primi due motivi – da esaminare
congiuntamente per  ragioni di
connessione – sono inammissibili, perché negli stessi si deduce la violazione
dell’art. 58, lett. B), del CCNL Industria Calzature, che non è stato prodotto
(e neppure indicato nell’elenco dei documenti offerti in comunicazione elencati
nel ricorso per cassazione), né trascritto per intero, ma solo relativamente ad
alcune parti dell’art. 58, in violazione del principio, più volte ribadito da
questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di
indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da
consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità
delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (v., tra
le altre, Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti,
contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si
chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione
della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti
esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado
di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass.
nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013).
Per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di potere
compiutamente apprezzare la veridicità delle doglianze svolte dal ricorrente,
il quale ultimo, peraltro, non ha neppure prodotto la documentazione relativa
alla concessione del periodo di aspettativa alla R., da parte della società
datrice, cui si fa riferimento, in particolare, nel primo mezzo di
impugnazione.

3.3. Il terzo motivo non è meritevole di
accoglimento, in quanto è ius receptum che la valutazione delle risultanze
probatorie o processuali denunciabile in sede di legittimità deve riguardare
specifiche circostanze oggetto della prova sulle quali il giudice di
legittimità può esercitare il controllo della decisività dei fatti da provare
e, quindi, delle prove stesse (arg. ex Cass. nn. 21486/2011; 17915/2010); nella
specie, si rileva che non sono state neppure riportate le dichiarazioni rese
dai testi escussi, che si assumono erroneamente interpretate dalla Corte di
merito; e ciò, ancora in violazione del disposto dell’art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c., con la
conseguenza che questa Corte non è stata messa in grado di apprezzare la
veridicità della censura sollevata (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013); a
fronte di ciò, va, altresì, osservato che i giudici di seconda istanza hanno
compiutamente ed analiticamente esaminato tutte le risultanze istruttorie poste
a fondamento della decisione oggetto del presente giudizio, tra le quali la
c.t.u. che ha riconosciuto alla lavoratrice <<un danno causato dal
mobbing subito dalla stessa, corrispondente ad una inabilità temporanea per
complessivi 90 giorni» (v. pagg. 18 e 19 della sentenza impugnata).

Inoltre, occorre sottolineare, alla stregua dei
consolidati arresti giurisprudenziali di legittimità (cfr, ex plurimis, Cass. nn. 10145/2017; 22710/2015;
18626/2013; 17092/2012;
13956/2012), che la responsabilità datoriale
per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica
del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell’ipotesi in cui esse non
siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del
sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora
espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua
formulazione e che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare,
nell’esercizio dell’impresa, tutte le misure che, avuto anche riguardo alla
particolarità de/lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a
tutelare l’integrità psico-fisica dei lavoratori (cfr., tra le molte, Cass. nn.
27964/2018; 16645/2003; 6377/2003). Ed i giudici di seconda istanza,
attraverso un iter motivazionale scevro da vizi logico-giuridici e fondato su
una condivisibile valutazione degli elementi delibatori, si sono del tutto
attenuti alla consolidata giurisprudenza di legittimità nella materia.

4.4. Il quarto motivo non può essere accolto,
poiché, in realtà, come sottolineato in narrativa, la Corte di merito ha
esaminato e valutato il fatto che il datore di lavoro fosse o meno al corrente
«dei comportamenti assunti come mobbizzanti» (v. pag. 15 della sentenza
impugnata) ed al riguardo ha osservato che «Nel caso in esame, sebbene il
datore di lavoro non si sia reso protagonista diretto delle condotte vessatorie
subite dalla R., tuttavia lo stesso non può andare esente da responsabilità
rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall’art.
2087 c.c.. Il datore, in particolare, anche con riferimento all’episodio
del luglio 2007, sebbene avesse udito le grida e sebbene fosse stato informato
tanto dal S. quanto dall’appellata, non ha mai reagito a tutela dell’integrità
morale di quest’ultima» ed altresì che «Appare, inoltre, inverosimile  che lo stesso non fosse a conoscenza dei
comportamenti tenuti dalla dipendente I., in quanto molte circostanze gli sono
state riferite direttamente dalla R.». Con ciò, implicitamente sottolineando la
posizione di “garante” che spetta inderogabilmente al datore di
lavoro. Al riguardo, è altresì da osservare che la dottrina e la giurisprudenza
più attente hanno sottolineato come le disposizione della Carta costituzionale
abbiano segnato anche nella materia giuslavoristica un momento di rottura
rispetto al sistema precedente “ed abbiano consacrato, di conseguenza, il
definitivo ripudio dell’ideale produttivistico quale unico criterio cui
improntare l’agire privato”, in considerazione del fatto che l’attività
produttiva – anch’essa oggetto di tutela costituzionale, poiché attiene
all’iniziativa economica privata quale manifestazione di essa (art. 41, primo comma, Cost.) – è subordinata, ai
sensi del secondo comma della medesima disposizione, alla utilità sociale che
va intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, sia
pure generalizzato alla collettività, quanto, soprattutto, come realizzazione
di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di
sicurezza, di libertà e dignità. Da ciò consegue che la concezione
“patrimonialistica” dell’individuo deve necessariamente recedere di
fronte alla diversa concezione che fa leva essenzialmente sullo svolgimento
della persona, sul rispetto di essa, sulla sua dignità, sicurezza e salute –
anche nel luogo nel quale si svolge la propria attività lavorativa -; momenti
tutti che “costituiscono il centro di gravità del sistema”, ponendosi
come valori apicali dell’ordinamento, anche in considerazione del fatto che la
mancata predisposizione di tutti i dispositivi atti a tutelare la salute dei
lavoratori sul luogo di lavoro viola l’art. 32
della Costituzione che garantisce il diritto alla salute come primario ed
originario dell’individuo, ed altresì l’art. 2087
c.c. che, imponendo la tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore da
parte del datore di lavoro prevede un obbligo, da parte di quest’ultimo, che
non si esaurisce “nell’adozione e nel mantenimento perfettamente
funzionale di misure di tipo igienico-sanitarie o antinfortunistico”, ma
attiene anche – e soprattutto – alla predisposizione “di misure atte a
preservare i lavoratori dalla lesione di quella integrità nell’ambiente o in
costanza di lavoro anche in relazione ad eventi, pur se allo stesso non
collegati direttamente ed alla probabilità di concretizzazione del conseguente
rischio”. Tale interpretazione estensiva della citata norma del codice
civile si giustifica alla stregua dell’ormai consolidato orientamento della
giurisprudenza di legittimità (cfr., già da epoca risalente, Cass. nn. 7768/95; 8422/97), sia in base al
rilievo costituzionale del diritto alla salute – art.
32 Cost. sia per il principio di correttezza e buona fede nell’attuazione
del rapporto obbligatorio – artt. 1175 e 1375 c.c., disposizioni caratterizzate dalla
presenza di elementi “normativi” e di clausole generali
(Generalklauseln) – cui deve essere improntato e deve ispirarsi anche lo
svolgimento del rapporto di lavoro, sia, infine, “pur se nell’ambito della
generica responsabilità extracontrattuale”, ex art.
2043 c.c., in tema di neminem laedere (al riguardo, questa Suprema Corte ha
messo, altresì, in evidenza, da tempo, che, in conseguenza del fatto che la
violazione del dovere del neminem laedere può consistere anche in un
comportamento omissivo e che l’obbligo giuridico di impedire l’evento può
discendere, oltre che da una norma di 
legge o da una clausola contrattuale, anche da una specifica situazione
che esiga una determinata attività, a tutela di un diritto altrui, è da
considerare responsabile il soggetto che, pur consapevole del pericolo cui è
esposto l’altrui diritto, ometta di intervenire per impedire l’evento dannoso).

Per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso
va rigettato;

5. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono
la soccombenza.

6. Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.200,00,
di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed
accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 dicembre 2020, n. 27913
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: