Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 dicembre 2020, n. 34734

Violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul
lavoro, Ulteriore colpa consistita in imprudenza, negligenza ed imperizia,
Mancata specifica formazione del personale, Abnormità del comportamento del
lavoratore, Non sussiste

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 13 settembre 2018 la Corte di
Appello di Venezia ha confermato la sentenza del G.U.P. del Tribunale di
Treviso con cui F.F., nella qualità legale rappresentante della S. s.n.c., è
stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art.
589, comma 2, cod. pen., per avere causato, con colpa consistita in
imprudenza, negligenza ed imperizia, nonché nella violazione delle norme per la
prevenzione degli infortuni sul lavoro di cui all’art. 66 d.lgs. 81/2008, la morte
-per insufficienza multiorgano post ipotermia accidentale- di R.B., che,
entrato nella cella di surgelazione I.Q.F. n.6 e, in particolare, nell’apertura
di ispezione, a seguito di malore, non era in grado di rispondere al collega
L.D., il quale, provvedeva a chiudere la porta aperta, ritenendo che la cella
fosse vuota, prima di avviare nuovamente l’immissione di azoto.

2. Il fatto per come accertato dalla sentenza di
primo grado -e ripreso dalla Corte territoriale- può essere riassunto come
segue. L’operaio R.B., cui erano attribuite mansioni generiche, venne rinvenuto
alle ore 18,25 del 9 agosto 2012, all’interno della cella di surgelazione IQF,
dove si raccoglieva il prodotto in lavorazione, in stato di incoscienza, dai
colleghi di lavoro, intenti a cercarlo da circa 20 minuti. Immediatamente
soccorso, decedeva il giorno successivo per insufficienza multiorgano post
ipotermia accidentale. Nessuno poté osservare la dinamica del sinistro e,
tuttavia, nel corso delle ricerche del lavoratore il dipendente A. L., trovata
la cella aperta e l’erogatore dell’azoto chiuso, dopo avere chiamato il B., non
ottenendo risposta, richiuse la porta e riavviò l’azoto. Furono riscontrate
dalle indagini dello SPISAL le seguenti carenze: assenza nel DVR della
valutazione dei rischi connessi all’uso dell’azoto in ambiente chiuso, con
conseguente mancata specifica formazione del personale sul punto; assenza di un
sistema di sicurezza -ossimetro- finalizzato alla segnalazione di un livello di
ossigeno ed idoneo ad impedire l’apertura della porta in condizioni di rischio
od a disattivare il funzionamento degli apparati meccanici in caso di porta aperta;
assenza di strumenti di protezione individuale (autorespiratori), per coloro
che dovevano accedere alla cella, anche per interventi di soccorso. Le sentenze
danno atto che nell’impossibilità di ricostruire le esatte ragioni
dell’ingresso di B. nella cella, nonché la dinamica della caduta all’interno
della vasca, attraverso un foro della misura di cm. 40X40, è stato, nondimeno,
appurato che B. osservò due delle tre prescrizioni impartite per l’accesso-
mantenimento della porta aperta, disattivazione dell’azoto- senza però
provvedere a dare avviso ad almeno un collega del suo ingresso nella cella,
come previsto. Mentre non è risultato possibile accertare quanto tempo il
lavoratore attese dal momento dall’apertura della porta e dello spegnimento
dell’azoto, prima di accedere all’interno, essendo stato stabilito, nelle
prescrizioni impartite, un intervallo minimo di almeno un minuto. Dunque, il
lavoratore, le cui mansioni generiche includevano anche l’accesso alla vasca
per effettuare controlli sul prodotto in lavorazione, si introdusse nella
cella, ivi perdendo i sensi per l’eccessiva quantità di azoto presente,
scivolando attraverso il pertugio nella vasca di lavorazione, dove venne
rinvenuto dai colleghi. Sia la sentenza di primo grado che quella di secondo grado
escludono l’intenzione suicidiaria del lavoratore, avendo il medesimo spento i
macchinari, prima di introdursi nella cella, azione questa incompatibile con
una simile volontà.

Parimenti hanno ritenuto non incompatibile con la
caduta accidentale la ridotta larghezza dell’apertura di ispezione,
considerandola sufficiente al passaggio del corpo di un uomo di medie
dimensioni, soprattutto se posto di fianco. Le decisioni hanno escluso,
altresì, l’abnormità del comportamento del lavoratore, posto che, seppure
questi disattese le regole fondamentali prescritte per evitare infortuni
all’interno della cella -la cui pericolosità era nota ai lavoratori- il datore
di lavoro avrebbe dovuto prevedere che un lavoratore, anche per mera
superficialità, ponesse in essere condotte errate. Sicché la mancata adozione
di misure preventive efficaci, idonee ad impedire l’accesso alla cella, in
presenza di concentrazioni di azoto tossiche per l’uomo, è stata ritenuta
condotta colposa causalmente connessa all’evento dannoso.

3. Avverso la sentenza della Corte di appello F. F.,
a mezzo del suo difensore, propone ricorso per cassazione, affidandolo a tre
motivi.

4. Con il primo fa valere, ex art. 606, primo comma, lett. e), il vizio di
motivazione, rilevabile dal provvedimento impugnato e dagli atti del
procedimento, in ordine alla ritenuta accidentalità della caduta ed alla causa
della morte. Osserva che la Corte territoriale nel discostarsi dalla
ricostruzione del primo giudice, secondo il quale B. sarebbe entrato nella
vasca intenzionalmente, ha ritenuto, con argomentazioni del tutto prive di
supporto scientifico, ed avulse da accertamenti anche sperimentali, che la
caduta e la posizione finale del corpo non fossero incompatibili con un evento
accidentale, senza tenere in considerazione la relazione dei funzionari Spisal.
Secondo il parere espresso dai tecnici, infatti, nell’impossibilità di
ricostruire la dinamica del sinistro, appare inverosimile che una persona
possa, nella postazione sopra la scala a gradini di ispezione al contenitore,
cadere completamente all’interno del contenitore stesso ad esempio a seguito di
uno svenimento, di un malore o del semplice scivolamento. Al massimo, infatti,
l’operatore potrebbe rimanere incastrato all’interno dell’apertura quadra della
tramoggia. A fronte di ciò la decisione della Corte d’appello si limita ad
asserire che, contrariamente a quanto affermato nel rapporto Spisal, l’apertura
fosse sufficientemente larga da consentire il passaggio della parte inferiore
del corpo, dal bacino in giù, di un uomo di medie dimensioni, soprattutto se
posto di fianco. E ciò senza basarsi su dati di alcun genere. Assume che,
d’altro canto, B. fu rinvenuto riverso all’interno della vasca con l’intero
corpo e non solo dal bacino in giù, il che dimostra l’inconsistenza
dell’apparato argomentativo della sentenza, nella parte in cui riconosce
l’assenza di ragioni di un accesso volontario all’interno della vasca, ma poi
conclude per una caduta accidentale, incompatibile con la conformazione del
luogo. Il che implica quale unica spiegazione plausibile l’accesso volontario
all’interno del vascone. Sostiene che solo dalla supposta caduta accidentale,
non sorretta da alcuna evidenza processuale, la Corte trae che il lavoratore
fosse entrato nella cella quando l’aria era ancora satura di azoto, così
perdendo i sensi. La motivazione, pertanto, si dimostra gravemente illogica e
del tutto assertiva.

5. Con il secondo motivo lamenta ex art. 606, comma 1″ lett. b) ed e) cod. proc. pen.
la violazione della legge penale in relazione agli artt.
40 e 41, comma 2 cod. pen., nonché il vizio
di motivazione rilevabile dal testo del provvedimento impugnato e dagli atti
specificamente indicati nei motivi di gravame. Deduce che la Corte territoriale
omette di dar conto delle ragioni per le quali l’adozione del comportamento
alternativo lecito -ovverosia l’installazione di dispositivi che non
consentissero l’accesso alla cella in presenza di una concentrazione di azoto
incompatibile con l’organismo umano- avrebbe consentito di evitare l’evento.
Infatti, B. disattivò l’azoto prima di entrare nella cella, decidendo
volontariamente di accedere alla vasca, utilizzando la scaletta per accedere ad
un foro di ispezione largo appena 40 centimetri. Il collega L.D., tuttavia,
passando davanti alla cella e vedendo la porta aperta, ritenendo che dentro non
vi fosse nessuno, chiuse la porta e riavviò l’azoto. L’andamento dei fatti,
pertanto, dimostra che la morte di R.B. non derivò dalla mancata adozione del
dispositivo indicato dalla Corte, ma dal comportamento -pur incolpevole- di un
altro lavoratore. La condotta ritenuta “appropriata” dal giudice del merito,
dunque, non sarebbe stata idonea ad evitare l’evento. Aggiunge che la perdita
completa dei sensi da parte di B., che avrebbe causato la caduta accidentale, è
una mera asserzione, non giustificata in alcun modo dal giudice d’appello. Così
come del tutto priva di sostegno scientifico è l’affermazione secondo la quale,
una volta disattivato l’azoto, senza attendere un tempo sufficiente, il livello
di saturazione dell’aria può indurre la perdita di coscienza, anziché provocare
solo un vago stordimento.

Rileva che per affermare la sussistenza del nesso di
causalità fra la condotta doverosa omessa e l’evento occorre immaginare che
cosa sarebbe accaduto se la cella fosse stata dotata del dispositivo indicato
dalla Corte come salvifico, e cioè tale da impedire l’accesso del lavoratore
alla cella prima che della discesa dell’azoto sotto determinati livelli. In
questo caso, se il lavoratore si fosse introdotto nella cella solo dopo il
raggiungimento del livello di azoto non nocivo ed avesse, del tutto
volontariamente, deciso di accedere all’interno della vasca tramite il foro di
ispezione, utilizzando la scaletta per raggiungerlo, la semplice adozione del
dispositivo non avrebbe consentito di evitare l’evento, qualora un collega di
lavoro, non avvertito della presenza di altro lavoratore all’interno della
cella, trovando la porta aperta, l’avesse chiusa ed avesse riavviato l’azoto.
Inoltre, l’abnormità del comportamento del lavoratore -che decide, del tutto
imprevedibilmente e senza alcuna ragione legata ad esigenze produttive, di introdursi
nella cella, senza avvertire nessuno- dimostra la sussistenza del c.d. “rischio
elettivo”, avendo B. scelto di porsi deliberatamente in pericolo, per motivi
diversi da finalià produttive e dal funzionamento del macchinario. Queste,
invero, sono le conclusioni risultanti anche dalla lettura del rapporto dei
funzionari dello Spisal e dalla relazione INAIL, che danno atto
dell’inverosimiglianza della caduta accidentale e completa dalla postazione
sopra la scala all’interno del contenitore.

6. Con il terzo motivo, contesta il vizio di
motivazione, sotto il profilo dell’omissione, risultante dal provvedimento
impugnato, in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti
generiche sulla contestata aggravante. Conclude per l’annullamento della
sentenza impugnata, senza rinvio o con rinvio.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso va rigettato.

2. I primi due motivi, che vanno trattati insieme in
quanto strettamente connessi, non sono fondati.

3. La decisione impugnata, infatti, preliminarmente
rinvia alla sentenza di primo grado in ordine alla ricostruzione delle
violazioni delle regole prevenzionistiche (come constate dallo Spisal, e
consistenti, secondo il primo giudice, nelle deficienze del D.V.R. sui rischi
tecnici legati all’uso dell’azoto in “Ambiente sospetto di
inquinamento-Ambiente confinato”, sulle dimensioni degli accessi per il
recupero delle persone, e sulle caratteristiche tecniche dell’impianto
-sprovvisto di documentazione tecnica- e delle procedure di accesso alla cella
da parte dei lavoratori; nell’inidoneità della procedura di accesso alla cella
essendo stabilito – come indicato nel cartello posto all’esterno- un tempo
minimo di attesa dal distacco dell’azoto di un minuto, anziché di tre, come
necessario; nell’assenza di un dispositivo di blocco dei macchinari legato
all’apertura della porta; nella mancanza di un ossimetro, al fine di conoscere
la qualità dell’area all’interno della cella, nell’assenza di dispositivi di
autoprotezione per l’accesso, quali gli autorespiratori; nell’assenza di
adeguata formazione dei lavoratori).

Indi, dato atto della non contestazione delle
violazioni da parte dell’imputato, ritiene di escludere l’abnormità del
comportamento del lavoratore, posto che dalle testimonianze raccolte in
giudizio è emerso che la verifica della lavorazione all’interno della cella
fosse pratica comune fra i lavoratori, e che l’ingresso da parte di B. – pur
gravemente imprudente, per non avere il medesimo  avvertito i proprii compagni di lavoro,
contravvenendo alle istruzioni impartite era compatibile con esigenze connesse
alla produzione, quali la verifica del prodotto ancora rimanente nella
vasca-tramoggia, collocata all’interno della cella. E ciò, tenuto conto che il
medesimo aveva eseguito una specifica fase produttiva, e che le sue mansioni
generiche, includevano il processo realizzato all’interno della cella di
congelamento. Il giudice di seconda cura dà, altresì, atto della correttezza
del rilievo difensivo, secondo il quale il corpo, diversamente da quanto
affermato dal primo giudice, era rivolto con il capo verso l’apertura di
ispezione della tramoggia, ma rileva che ciò non confuta, in alcun modo, la
tesi della caduta accidentale. Secondo la Corte, infatti, è logico pensare che
trovandosi il lavoratore sull’ultimo gradino di accesso al vascone, con la
linea della cintura più alta della bocca di apertura, posizionato di fianco, a
seguito di un malore, sia caduto di testa, trascinando la parte inferiore del
corpo e consentendo alle gambe di superare il bordo inferiore del pertugio.
Questa dinamica, dunque, smentisce la tesi dell’imputato, secondo cui la
posizione del corpo sarebbe incompatibile con la caduta accidentale,
rappresèntando, invece, la prova dell’ingresso volontario, legato alla
realizzazione di   comportamenti
personali (suicidio o scherzo finito male).

4. La motivazione, che collega l’evento alla caduta
accidentale dovuta alla presenza all’interno della cella di un quantità di
azoto non compatibile con un accesso sicuro al suo interno, non è
persuasivamente contraddetta dalle osservazioni contenute nel ricorso, essendo
la perdita di coscienza, effetto tipico dell’alto livello di azoto nell’aria e
restando la tesi dell’ingresso volontario, determinato da impulsi
anticonservativi, una mera ipotesi non supportata da alcuna evidenza, la cui
esclusione viene efficacemente argomentata dalla Corte territoriale. La
sentenza osserva, infatti, che l’intenzione suicida mostra segni premonitori o
comportamenti esteriori che ne preludono l’attuazione, del tutto assenti, nel
caso di specie, non potendo considerarsi tale una frase del tutto equivoca
pubblicata su facebook, qualche tempo prima del fatto. Peraltro, il Collegio,
contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, giustifica, ancora una in modo
del tutto condivisibile, la compatibilità della caduta accidentale con le
ridotte dimensioni dell’apertura del vascone, valutandone la compatibilità con
le dimensioni di un uomo medio, posto di fianco. E ciò perché la considerazione
dello Spisal -secondo cui l’evento accidentale non avrebbe potuto produrre
l’effetto della caduta nella tramoggia, rimanendo, al più, il corpo incastrato
nell’apertura- su cui si concentra il ricorrente, viene smentita, sotto il
profilo logico -sotteso alla decisione- dalla constatazione per la quale se
l’apertura fosse stata effettivamente troppo piccola, non avrebbe consentito
neppure l’introduzione volontaria.

5. Fatte queste premesse sulla coerenza della
ricostruzione della Corte territoriale, va da sé che la tesi dell’ascrivibilità
dell’evento al comportamento del collega di lavoro L.D. -che, rinvenendo la
porta della cella aperta, chiamato B. senza ricevere risposta, la richiuse e
riavviò l’azoto- perde qualsiasi consistenza. Ciò perché, anche se la Corte non
affronta direttamente l’argomento, è del tutto implicito che la perdita di
coscienza impedisca a chiunque di rispondere, ma, come mette bene in evidenza
il primo giudice, se l’impianto fosse stato dotato da un ossimetro e di una
segnalazione acustica o luminosa indicante la presenza di una persona al suo
interno, l’evento avrebbe potuto essere scongiurato, evitando a terzi di
chiudere inconsapevolmente la porta di accesso, nonostante la presenza di una
persona all’interno.

6. Le motivazioni dei giudici di merito -che si
integrano formando un unico corpo argomentativo- forniscono, dunque, risposte
convincenti alle domande proposte dalla difesa dell’imputato.

7. Neppure l’ultimo motivo può trovare accoglimento.
Va, preliminarmente osservato che al ricorso in esame non è allegato l’atto di
appello, il che impedisce il vaglio della doglianza. Invero, “In tema di
ricorso per cassazione, la censura di omessa valutazione da parte del giudice
dell’appello dei motivi articolati con l’atto di gravame onera il ricorrente
della necessità di specificare il contenuto dell’impugnazione e la decisività
del motivo negletto al fine di consentire l’autonoma individuazione delle
questioni che si assumono non risolte e sulle quali si sollecita il sindacato
di legittimità, dovendo l’atto di ricorso contenere la precisa prospettazione
delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a
verifica” (Sez. 3, n. 8065 del 21/09/2018 – dep. 25/02/2019, C, Rv.
275853; Sez. 2, n. 13951 del 05/02/2014, Caruso, Rv. 259704). Al di là di
siffatta considerazione, nondimeno, vi è che la Corte, che riporta il motivo in
modo diverso da quello qui rappresentato, senza fare riferimento alla richiesta
di diverso bilanciamento delle circostanze, dà adeguata risposta
sull’adeguatezza del trattamento sanzionatorio, sottolineando che il
comportamento di B. è stato tenuto in considerazione dal primo giudice, nella
determinazione concreta del trattamento sanzionatorio, ai fini della
valutazione della gravità della colpa e per la concessione delle attenuanti
generiche. La condivisione del giudizio del primo giudice, espresso con la
valutazione di “equità” della pena inflitta, esclude il vaglio di questa Corte,
anche in relazione alla doglianza in esame, tenuto conto dei principi enunciati
dalle Sezioni unite di questa Corte, secondo cui: “Le statuizioni relative
al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione
discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di
legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico
e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che
per giustificare la soluzione dell’equivalenza si sia limitata a ritenerla la
più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto. (Sez. U,
n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931).

8. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato con
condanna del ricorrente alle spese processuali ed alla rifusione delle spese
sostenute dalle parti civili costituite B. A. e B.A. che si liquidano in
complessivi euro tremilaseicento, oltre accessori come per legge.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute
dalle parti civili B.A. e B.A.  che
liquida in complessivi euro tremilaseicento oltre accessori come per legge.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 dicembre 2020, n. 34734
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: