Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 dicembre 2020, n. 28350

Indennità di mobilità, Residenza in Paese extra-UE,
Controllo dello stato di disoccupazione, Condizionalità intesa come stato di
soggezione personale, implicante un impegno attivo e cogente del destinatario
della prestazione, Effettiva presenza del lavoratore nel territorio nazionale

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 736 dell’11 agosto 2014, la Corte
d’appello di Torino, accogliendo l’impugnazione dell’INPS avverso la sentenza
di primo grado, ha rigettato la domanda proposta da A., volta ad ottenere la
condanna dell’INPS al pagamento dell’indennità di mobilità, riconosciuta dal 31
dicembre 2009 e revocata nel mese di maggio 2010 in quanto residente nella
Repubblica Sudafricana sin dal 3 novembre 2007, nonché la condanna
all’accredito della relativa contribuzione figurativa sino al conseguimento
dell’anzianità necessaria per l’accesso alla pensione di anzianità.

2. Si è accertato che il lavoratore (dipendente
della filiale locale di I. s.p.a.) aveva trasferito la propria residenza nella
Repubblica sudafricana nel novembre 2007 e che il 12 dicembre 2011 l’aveva
nuovamente trasferita a Torino; dunque, non potevano considerarsi soddisfatte
le condizioni necessarie per fruire della prestazione prevista dall’art. 7, comma 12, I. n. 223 del
1991, che rinvia all’art. 75
RDL n. 1827 del 1935 ed all’art.
34 del DPR n. 818 del 1957, in quanto tali ultime disposizioni prevedono il
controllo dello stato di disoccupazione nei confronti di chi percepisce
l’indennità di disoccupazione; inoltre, proprio dalla sentenza della Corte di cassazione n. 17936 del 2013,
richiamata dal primo giudice, si evinceva la necessità di una regolare
iscrizione all’ufficio di collocamento ed un collegamento del soggetto
beneficiario con il territorio di residenza. Collegamento inesistente nel caso
di specie, posto che il lavoratore aveva presentato domanda datata 31 dicembre
2009 attestando di essere residente a Torino mentre non lo era e neppure era
stata sufficientemente provato l’assunto di una effettiva presenza dello stesso
sul territorio italiano.

3. Avverso tale sentenza, ricorre per cassazione A.
sulla base di sei motivi.

Resiste l’INPS con controricorso.

In vista dell’adunanza camerale del 5 marzo 2020,
all’esito della quale è stata disposta la trattazione in pubblica udienza, entrambe
le parti hanno depositato memorie. L’Inps ha, in vista della presente udienza,
depositato ulteriore memoria.

 

Ragioni della decisione

 

4. Con il primo motivo si deduce la violazione e o
falsa applicazione dell’art. 7,
comma 12, I. n. 223 del 1991 in relazione agli artt. 75 R.D.L n. 1827 del 1935,
34 del d.P.R. n. 818 del 1957
e 2 d.lgs. n. 181 del 2000,
laddove la sentenza impugnata nel fare applicazione dell’art. 7, comma 12, I. n. 223 del
1991 (che richiama l’art.
37 della I. n. 88 del 1989) non ha tenuto conto che la disciplina della
disoccupazione involontaria deve trarsi dal d.lgs.
n. 181 del 2000 che non prevede la condizione della residenza in Italia al
fine di fruire del beneficio economico dell’indennità di mobilità.

5. Con il secondo motivo si denuncia violazione e o
falsa applicazione del d.lgs. n. 181 del 2000
ed in particolare dell’art. 2, che richiede che lo stato di disoccupazione sia
comprovato dalla presentazione dell’interessato presso il servizio competente
nel cui ambito territoriale si trovi il domicilio del medesimo, cosa avvenuta
nel caso di specie. Peraltro, la giurisprudenza di legittimità richiamata dalla
sentenza aveva ad oggetto la diversa fattispecie del soggetto disoccupato che
aveva trasferito la residenza per cercare nuova occupazione.

6. Con il terzo motivo di ricorso, si denuncia la
violazione e o falsa applicazione del Regolamento
U.E. n. 987 del 16 settembre 2009 e del Regolamento
U.E. del 14 giugno 1971 n. 1408, in ragione del fatto che la sentenza
impugnata nella parte motiva ha fatto riferimento incidentalmente alla normativa
europea in materia di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale ed in
particolare all’art. 55 del
primo Regolamento, accostando erroneamente il ricorrente ad un espatriato in
cerca di lavoro, ipotesi del tutto errata e differente da quella reale.

7. Il quarto motivo denuncia l’omesso esame circa un
fatto decisivo per il giudizio e l’omessa valutazione delle prove e delle
dichiarazioni rese dalla teste Z., in relazione alla perdurante, pacifica e continuata
iscrizione del ricorrente nelle liste del Centro per l’impiego di Torino ed il
quinto motivo prospetta analogo vizio quanto alle dichiarazioni del teste O. in
ordine alla fissazione del domicilio in Torino.

8. Con il sesto motivo, il ricorrente denuncia
violazione e o falsa applicazione dell’art. 2697
c.c. in relazione agli artt. 115 e 416 c.p.c. quanto all’addebito di non aver provato
la propria stabile permanenza a Torino laddove ciò sarebbe in realtà stato
provato, oltre che dalle prove per testi e documentali acquisite, anche dalla
mancata espressa contestazione da parte dell’Inps.

9. I primi tre motivi, considerando che il terzo
sostanzialmente non dialoga con la ratio della decisione, che non risulta
fondata sull’applicazione della normativa europea che si assume essere stata
violata, vanno trattati congiuntamente in quanto connessi strettamente e sono
infondati.

10. In sostanza, ad avviso del ricorrente,
l’indennità di mobilità gli sarebbe stata illegittimamente revocata in quanto,
a prescindere dalle risultanze anagrafiche relative alla residenza in nazione
straniera, il medesimo avrebbe dimostrato in concreto di non essersi sottratto,
durante il periodo di disoccupazione involontaria, ai controlli ed alle
eventuali offerte di formazione o di espletamento di attività pubblica utilità,
provenienti dall’amministrazione competente. In tal senso, dunque, sarebbe del
tutto irrilevante il dato, indiscusso, della residenza anagrafica nella
Repubblica del Sudafrica al momento della iscrizione nelle liste di mobilità,
giacché, contrariamente a quanto accertato dalla sentenza impugnata, il
medesimo ricorrente avrebbe continuato a frequentare la propria abitazione di
Torino, compiendo numerosi viaggi dal Sudafrica ove risiedeva anche il resto
della propria famiglia.

11. La tesi non è corretta. Il trattamento di
mobilità previsto dall’art. 7
della legge n. 223 del 1991, di cui la legge
n. 92 del 2012 ha previsto l’abrogazione a partire dal 2017, è una specie
di trattamento di disoccupazione che, al pari di ogni altra prestazione dello
stesso genere, comporta l’assoggettamento del beneficiario ad una serie di
oneri di comportamento nei confronti della pubblica amministrazione (art. 3 d.lgs. n. 788 del 1945,
art. 8 I. n. 160 del 1988).

Il beneficiario assume l’obbligo della disponibilità
personale che si compendia nella cd. condizionalità, intesa in dottrina come
stato di soggezione personale che implica un impegno attivo e cogente del
destinatario della prestazione, con effetti decadenziali dalla prestazione per
chi vi si sottragga.

12. La giurisprudenza di questa Corte di cassazione
ha dunque affermato (Cass. n. 18528 del 09/09/2011)
che l’indennità di cui si discute costituisce un trattamento di disoccupazione
(Cass. SS.UU. n.11326/2005; Corte Cost. n. 234
del 2001) che ha la sua fonte nella legge la quale, per espresso rinvio del
comma 12 dell’art. 7 I. n. 223
del 1991, dispone l’applicabilità all’indennità di mobilità della
disciplina del trattamento di disoccupazione involontaria. Inoltre, si è
espressamente affermato che condizione per l’erogazione della prestazione è
l’effettiva presenza del lavoratore nel territorio nazionale (Cass. 24 luglio 2013 n. 17936).

13. Tale pronuncia, come ribadito dalla sentenza
impugnata, ha messo in evidenza che l’indennità di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 7 e
l’indennità ordinaria di disoccupazione presentano, nella finalità e nella
struttura, evidenti analogie, perché tali sussidi rientrano nel più ampio genus
delle assicurazioni sociali contro la disoccupazione. Ed è per questo che il
legislatore ha disposto che l’indennità di mobilità è regolata dalla normativa
che disciplina l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione
involontaria, in quanto applicabile (L. n. 223 del 1991, art. 7,
comma 12). L’insieme delle disposizioni che disciplinano l’erogazione
dell’indennità di disoccupazione rende evidente la stretta connessione
funzionale esistente tra la percezione dell’indennità di mobilità e l’effettiva
presenza del lavoratore nel territorio nazionale, e ciò non solo affinché il
lavoratore possa assicurare la propria disponibilità ai fini di un suo
eventuale reimpiego o utilizzo nelle forme sopra indicate, ma soprattutto ai
fini del controllo circa l’effettiva persistenza dello stato di disoccupazione
(D. Lgs. n. 181 del 2000, art. 2,
comma 4).

14. I termini applicativi concreti del principio
della non esportabilità della prestazione di disoccupazione, sono poi stati
precisati da successive pronunce di questa Corte (Cass.
n. 16997 del 2017, seguita da Cass n. 21564
del 2017 e n. 2967 del 2018).

In particolare, Cass.
n. 16997 del 2017, mitigando il rigore di Cassazione n. 13796 del 2013, che
aveva ritenuto incompatibile con la regola della non esportabilità della
prestazione anche l’espatrio di breve periodo, ha, per un verso, confermato che
il sistema della sicurezza sociale resta improntato al principio di
territorialità, obbedendo sia all’obiettivo di assicurare al singolo un
sostegno reale o monetario in dipendenza di determinati eventi che refluiscano
negativamente sulla sua capacità di lavoro e/o di guadagno che allo scopo di
sostenere la domanda interna rispetto alle flessioni negative che sarebbero
altrimenti provocate dalla perdita di reddito dei medesimi assicurati, come
dimostra, l’art. 45, comma 3, r.d.l. n. 1827/1935,
laddove per “disoccupazione involontaria per mancanza di lavoro” si
riferisce logicamente ad un periodo di mancanza involontaria di lavoro che sia
stato trascorso nel territorio nazionale; per altro verso, la pronuncia citata
ha pure affermato che compete al legislatore l’individuazione del punto di
equilibrio tra l’eventuale esigenza del singolo beneficiario di una prestazione
di dimorare altrove e la necessità di garantire che la spesa per consumi
garantita dalle prestazioni del sistema di sicurezza sociale non venga distolta
dagli scopi di politica economica per cui è istituita.

Siffatto punto di equilibrio non può essere
individuato che con riferimento ai requisiti soggettivi e oggettivi che
presiedono al riconoscimento del diritto a beneficiare di ciascuna prestazione
di previdenza o assistenza sociale, non potendo l’attività dell’interprete
spingersi al punto tale da istituirne altri che il legislatore non abbia
previsto.

Per tale ragione, si è riconosciuto che la perdita
del diritto all’indennità di disoccupazione non può essere ancorata ad un
generico allontanamento all’estero dell’assicurato, bensì all’inosservanza
degli specifici comportamenti attivi imposti dal legislatore al fine di
controllare la permanenza dello stato di disoccupazione, previsti dall’art. 4 del d.lgs. n. 181 del 2000,
ratione temporis vigente.

15. In tale quadro è evidente che la fattispecie in
esame non si pone all’interno della nozione di temporaneo allontanamento dal
territorio nazionale come definito dalla più recente giurisprudenza al fine di
limitare le ipotesi di decadenza dal diritto alla prestazione previdenziale.

16. Al contrario, essa inerisce pienamente al
presupposto principale e costitutivo del diritto alla prestazione invocata, che
consiste nello stato di disoccupazione involontaria di colui il quale versa in
tale stato trovandosi all’interno del territorio nazionale, essendo irrilevante
ai fini della insorgenza del diritto la disoccupazione realizzatasi all’estero.

Spetta, dunque, a chi richiede il riconoscimento del
diritto alla indennità di mobilità di cui all’art. 7 I. n. 223 del 1991,
allegare e provare il proprio stato di iscritto alle liste di mobilità in
ragione dello stato di disoccupazione involontaria in cui versa per aver perso
il proprio posto di lavoro ed avendo la propria residenza nel territorio
nazionale, non essendo sufficiente limitarsi ad affermare di aver mantenuto un
legame fisico ed umano con il medesimo territorio che avrebbe consentito di
osservare gli obblighi derivanti dal regime di <<condizionalità>>
previsto per le prestazioni di disoccupazione involontaria.

A tal fine, inoltre, vale pure ricordato che la
giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha pure precisato che la
residenza (la cui nozione si rinviene nell’art. 43
del cod.civ.) è determinata dalla abituale volontaria dimora di una persona
in un dato luogo, sicché concorrono ad instaurare tale relazione giuridicamente
rilevante sia il fatto oggettivo della stabile permanenza in quel luogo sia
l’elemento soggettivo della volontà di rimanervi, la quale estrinsecandosi in
fatti univoci evidenziane tale intenzione, è normalmente compenetrata nel primo
elemento (Cass., 5 febbraio 1985, numero 791; Cass., 14 marzo 1986, n. 1738,
secondo la quale questa stabile permanenza sussiste anche in caso di temporaneo
allontanamento sempre che la persona vi ritorni quando possibile e vi mantenga
il centro delle proprie relazioni familiari e sociali).

17. Gli ultimi tre motivi, che mirano ad incrinare
la sentenza impugnata sul profilo fattuale dell’accertamento compiuto dalla
Corte in ordine al luogo di effettiva residenza del ricorrente, sono
inammissibili.

Quanto, in particolare, ai vizi di motivazione
intitolati alla violazione dell’art. 360, primo
comma n. 5, c.p.c., va ricordato che, in considerazione della data di
pubblicazione della sentenza impugnata – 11 agosto 2014- si applica alla
presente fattispecie la nuova formulazione dell’art.
360 c.p.c., n. 5, ed i motivi come formulati non rispettano il modello
legale in base al quale è ammissibile la proposizione di una censura sulla
motivazione nel giudizio di legittimità. L’art. 360
c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54,
conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce
nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo
all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza
risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito
oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire
che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne
consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve
indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il
“dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il
“come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di
discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo
restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il
vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante
in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la
sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

18. La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54,
conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere
interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo
costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto,
è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in
violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza
della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza
impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale
anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto
materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel
“contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella
“motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa
qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della
motivazione. (Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del
07/04/2014).

19. Nel caso di specie, il ricorrente non prospetta
la mancata disamina di un fatto, come sopra inteso, ma censura la lettura degli
esiti della prova testimoniale resa dalla teste Z. ( sulla circostanza che il
ricorrente non era mai stato chiamato dal Centro per l’impiego di Torino e che
lo stesso era stato incluso nelle liste di mobilità dal 31.12.2009) e dal teste
O. ( sulla circostanza della stabile permanenza in Italia del ricorrente
durante il periodo in cui lo stesso era residente all’estero).

Come si vede, è evidente l’assenza di univocità,
verso l’esito auspicato dal ricorrente finalizzato a dimostrare la sua
permanenza in concreto presso la città di Torino nonostante la fissazione della
residenza all’estero ( laddove tale circostanza risultasse dirimente per la
configurazione del diritto all’indennità di mobilità), che si trae dalla
disamina delle citate dichiarazioni testimoniali; la doglianza cade, in realtà,
sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova e non può ipotizzarsi il
vizio di motivazione laddove la statuizione di esistenza o meno della
circostanza controversa presupponga un giudizio di attendibilità, sufficienza e
congruenza delle testimonianze, giudizio che si colloca interamente nell’ambito
della valutazione delle prove, estranea al giudizio di legittimità ( vd. da
ultimo Cass. n. 25166 del 2019; Cass. n. 23153 del 2018; n. 11892 del 2016).

20. Ancora, risulta infondata la censura contenuta
nel sesto motivo che si riferisce alla violazione della regola del riparto
dell’onere probatorio (art. 2697 c.c.), in
ragione della valutazione negativa per il ricorrente degli esiti della prova
per testi e di quella documentale, tese a provare la reiterata e frequente
presenza del ricorrente presso l’abitazione mantenuta nella città di Torino.
Questa Corte ha, infatti, affermato che in tema di ricorso per cassazione, la
violazione dell’art. 2697 c.c. si configura
soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad
una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le
regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti
costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il
giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale
disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte
dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi
riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte
dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune
piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c. ( da ultimo Cass. n. 26769 del
2018).

21. Quanto, poi, alla affermata violazione dell’art. 416 c.p.c. e del principio di non contestazione
di cui all’art. 115 c.p.c., per come
interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte di cassazione (a partire da Cass. SS.UU. n. 761 del 23 gennaio 2002), in
quanto l’Inps non avrebbe specificamente contestato il fatto del permanere del
domicilio a Torino a fronte della scarsa frequenza dei viaggi compiuti in
Sudafrica nel periodo rilevante, deve osservarsi che il principio di non
contestazione può operare unicamente riguardo ai fatti, che ricadono nella
sfera di conoscibilità della controparte e che sono affermati dall’attore a
fondamento della domanda, cioè sui fatti materiali che integrano la pretesa
sostanziale dedotta in giudizio, e non si estende alle circostanze che implicano
un’attività di giudizio (Cass. n. 11108/07;
Sez. 6 n. 6606 del 2016) come avviene nel caso di specie in ordine
all’accertamento della stabilità della permanenza in fatto presso una certa
abitazione in Torino.

22. In definitiva, alla luce delle considerazioni
che precedono, il ricorso deve essere respinto. Non si deve provvedere sulle
spese del presente giudizio di legittimità, avendo il ricorrente reso la
dichiarazione di esonero prevista dall’art. 152
disp. att. c.p.c.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.lgs. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13, ove
previsto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 dicembre 2020, n. 28350
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