Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 dicembre 2020, n. 28422
Contratto a termine, Nullità, Difetto della forma scritta,
Conversione in rapporto a tempo indeterminato
Rilevato che
1. Con la sentenza n. 978 del 2017 la Corte di
appello di Messina riformava la decisione del primo giudice e dichiarava la
nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra C.M. ed il
Consorzio per le Autostrade Siciliane nel periodo da 6.3.2010 al 3.6.2010 e
condannato il suddetto Consorzio al risarcimento del danno in favore del
lavoratore quantificato in tre mensilità dell’ultima retribuzione globale di
fatto, oltre interessi.
2. Ad avviso della Corte e per quello ancora di
rilievo in questa sede, dalla declaratoria di illegittimità del contratto per
difetto della forma scritta non derivava la sua conversione in rapporto a tempo
indeterminato stante la natura di ente pubblico del Consorzio, ma solo il
diritto al risarcimento del danno ex art. 32 della legge n. 183 del 2010
determinato nella misura sopra indicata.
3. Per la cassazione di tale decisione propone
ricorso il Consorzio per le Autostrade Siciliane affidato ad un unico motivo,
illustrato anche con memoria, cui resiste con controricorso C.M..
Considerato che
1. Con l’unico motivo si deduce la violazione e
falsa applicazione degli artt.
36 co. 5 D.lgs. n. 165 del 2001 e 2697 cod.
civ., ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc,
nonché la falsa applicazione dell’art.
32 co. 5 della legge n. 183 del 2010, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc, per avere la Corte di merito
erroneamente liquidato il danno ex art.
32 co. 5 Legge n. 183 del 2010 nonostante in sede di legittimità fosse
stato chiarito che siffatto danno poteva essere riconosciuto solo nel caso in
cui si verteva nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine e
non anche nella diversa fattispecie in cui era stato impugnato un singolo
contratto a termine.
2. Il motivo è fondato.
3. Nel caso in esame, oggetto della declaratoria di
nullità è l’unico contratto a termine stipulato tra le parti in considerazione
del rilevato difetto di forma e, dunque, non si rientra nell’ipotesi di abusiva
reiterazione di contratti a termine che configura violazione del diritto
dell’Unione (ai sensi della clausola 1 lett. b) e della clausola 5 dell’Accordo
quadro sui contratti a tempo determinato attuato con la Direttiva 1999/70/CE) per la quale opera -in
funzione di agevolazione dell’onere probatorio del danno subito dal dipendente
pubblico assunto reiteratamente a termine- il risarcimento di cui all’art. 32 co. 5 legge n. 183 del 2010,
quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come danno
comunitario (Cass. SSUU n. 5076 del 15 marzo 2016; per la differenza tra le due
ipotesi cfr. Cass. 2.12.2016 n. 24666; Cass. 17.11.2016 n. 23433). Infatti,
nell’ipotesi di ritenuta illegittimità di un unico contratto non può trovare
applicazione il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite con la
citata sentenza n. 5076/2016, perché l’agevolazione probatoria è stata ritenuta
necessaria al solo fine di adeguare la norma interna alla ipotesi direttiva
euro-unitaria, nella parte in cui impone l’adozione di misure idonee a
sanzionare la illegittima reiterazione del contratto. Invece, ove venga in
rilievo un unico rapporto, non vi è ragione alcuna che possa portare a
disattendere la regola, imminente nel nostro ordinamento, e richiamata dalle
Sezioni Unite, in forza della quale il danno deve essere allegato e provato dal
soggetto che assume di averlo subito (v. Cass. n. 9.7.2014 n. 15714).
4. E’ stato anche precisato che sono, invece,
estensibili alla fattispecie, pur nella pacifica inapplicabilità dell’art. 36 del D.lgs. n. 165 del
2001, le considerazioni espresse nella richiamata sentenza n. 5076 del 2016
quanto alla impossibilità di fare coincidere il danno con la mancata
conversione, posto che il pregiudizio è risarcibile solo se ingiusto e tale non
può ritenersi la conseguenza che sia prevista da una norma di legge, non
sospettabile di illegittimità costituzionale o di non conformità al diritto
dell’Unione.
5. A detti principi, cui non si è attenuta la Corte
territoriale, il Collegio ritiene di dare continuità anche perché ribaditi in
numerose decisioni di questa Corte e successive (Cass. n. 6818 del 2018; Cass.
n. 6772 del 2018, Cass. n. 5525 del 2018; Cass. n. 10410 del 2019) a quella di
segno contrario richiamata dal giudice del gravame a sostegno dell’applicazione
al caso in esame dell’indennità di cui all’art. 32 co. 5 legge n. 183 del 2010:
ciò esclude, quindi, anche la sussistenza di un ipotizzabile contrasto giurisprudenziale
che richieda un intervento delle Sezioni Unite.
6. Deve, da ultimo respingersi la richiesta,
avanzata dal controricorrente, di rimessione degli atti, ai sensi dell’art. 267 TFUE alla Corte di
Giustizia dell’Unione Europea, sotto il profilo del rispetto di effettività ed
equivalenza delle tutele apprestate dallo Stato italiano tra i lavoratori
privati e pubblici assunto con contratti a termine, nella ipotesi di stipula di
un solo contratto dedotto in causa, per non incorrere nella decadenza di cui
all’art. 32 legge n. 183 del 2010.
7. Giova, al riguardo, precisare, che non è
sufficiente che una parte sostenga che la controversia verta su una questione
d’interpretazione del diritto UE perché l’organo giurisdizionale interessato –
anche se di ultima istanza – sia tenuto a considerare che sussiste una
questione da sollevare ai sensi dell’art. 267 TFUE (Corte giust., 10
gennaio 2006, causa C-344/04, IATA e ELFAA, punto 28; 1 marzo 2012, causa
C484/10, Ascafor e Asidac, punto 33; ord. 18 aprile 13, causa C-368/12,
Adiamix, punto 17; ord. 14 novembre 2013, causa C-257/13, Mlamali, punto 23).
8. Come chiarito dalla stessa consolidata
giurisprudenza della Corte di giustizia UE (a partire dalla sentenza 6 ottobre
1982, causa C-283/81, 5 Cilfit), il giudice di ultima istanza, in presenza di
una questione interpretativa del diritto della UE, deve adempiere l’obbligo del
rinvio, soltanto dopo aver constatato “alternativamente” che:
a) la suddetta questione esegetica è rilevante ai
fini della decisione del caso concreto;
b) la disposizione di diritto UE di cui è causa non
ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della CGUE;
c) la soluzione della questione non è ricavabile
“da una costante giurisprudenza della Corte che, indipendentemente, dalla
natura dei procedimenti da cui sia stata prodotta, risolva il punto di diritto
litigioso, anche in mancanza di stretta identità fra le materie del
contendere”;
d) la corretta applicazione del diritto europeo non
è tale da imporsi “con tale evidenza da non lasciar adito ad alcun
ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata”, con
l’avvertenza che la configurabilità di tale ultima eventualità deve essere
valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione,
delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio
di divergenze di giurisprudenza (vedi Corte giust., 17 maggio del 2001, causa
C340/99, TNT Traco, punto 35; 30 settembre 2003, causa C224/01, Kiibler, punto
118; 4 giugno 2002, causa C-99/00, Kenny Roland Lyckeskog).
9. Orbene, osserva il Collegio che sulla vicenda
sostanziale la Corte di giustizia si è già espressa, pronunziandosi sulla
domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal
Tribunale di Trapani, con la ordinanza del 5 settembre 2016, e partendo dai
principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte, sopra richiamati, ha
osservato:
– sotto il profilo del principio di equivalenza, che
da esso discende che gli individui che fanno valere i diritti conferiti
dall’ordinamento giuridico dell’Unione non devono essere svantaggiati, rispetto
a quelli che fanno valere diritti di natura meramente interna; tanto le misure
adottate dal legislatore nazionale nel quadro della direttiva
1999/70/CE al fine di sanzionare l’uso abusivo dei contratti a tempo
determinato da parte dei datori di lavoro del settore pubblico che quelle
adottate per sanzionare l’uso abusivo da parte dei datori di lavoro del settore
privato attuano il diritto dell’Unione, con la conseguenza che le modalità
proprie di questi due tipi di misure non possono essere comparate sotto il
profilo del principio dell’equivalenza, in quanto entrambe hanno ad oggetto
l’esercizio di diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione
(sentenza Corte di Giustizia UE 7 marzo 2018 in causa C-494/2016, punti da 39 a
42);
– sotto il profilo della effettività, che, gli Stati
membri non sono tenuti, alla luce della clausola 5 dell’accordo quadro, a
prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di
lavoro a tempo determinato sicché non può essere nemmeno loro imposto di
concedere in assenza di ciò un’indennità destinata a compensare la mancanza di
una siffatta trasformazione del contratto (sentenza Corte di Giustizia UE cit.,
punto 47);
– che, tenuto conto delle difficoltà inerenti alla
dimostrazione dell’esistenza di una perdita di opportunità, il ricorso a
presunzioni dirette a garantire ad un lavoratore che abbia sofferto – a causa
dell’uso abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione –
una perdita di opportunità di lavoro, la possibilità di cancellare le
conseguenze di una siffatta violazione del diritto dell’Unione è tale da
soddisfare il principio di effettività (sentenza Corte di Giustizia UE cit.,
punto 50).
10. Il giudice europeo ha, poi, escluso la tesi
secondo cui la indennità ex articolo
32 legge 183/2010 debba essere liquidata in ragione di ogni singolo
contratto per il quale venga accertata la illegittimità del termine. Essa tesi,
invero, non tiene conto del fatto che il danno comunitario presunto, ex articolo 32 legge 183/2010, nel
settore pubblico, non è quello derivante dalla nullità del termine del
contratto di lavoro, ma è quello conseguente all’abuso per l’«utilizzo di una
successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato», come
prevede la clausola 5 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE. L’illecito si consuma non in
relazione ai singoli contratti a termine ma soltanto dal momento e per effetto
della loro successione e, pertanto, il danno presunto dovrà essere liquidato
una sola volta, nel limite minimo e massimo fissato dall’articolo 32 legge 183/2010,
considerando nella liquidazione dell’unica indennità il numero dei contratti in
successione intervenuti tra le parti sotto il profilo della gravità della
violazione (cfr. in tali termini, Cass. 3.12.2018 n. 31175).
11. Il giudice europeo ha dunque già esaminato e
superato le questioni mosse con la richiesta di rinvio ex art. 287 TFUE.
12. Non sarebbe, poi, rilevante, nell’ambito della
prospettata questione interpretativa, la circostanza che, nel caso in esame,
sia stata dedotta in causa l’illegittimità della clausola del termine di un
solo contratto per non incorrere, per altri, nelle decadenze di cui all’art. 32 legge n. 183 del 2010,
come asserisce il Messina nel suo controricorso.
13. La sussistenza di altri contratti a termine,
intercorsi tra le parti, non emerge dalla impugnata sentenza né il lavoratore
ha specificato il “come”, il “dove” ed il
“quando” essa sia stata sottoposta al giudice di merito adito.
14. Non essendo, pertanto, la questione stata rite
et recte prospettata, la stessa incontra il limite della irrilevanza ai fini
della decisione del presente giudizio e, pertanto, non può essere oggetto di
richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE.
15. Alla luce di tali considerazioni, la sentenza
impugnata – che, ha riconosciuto il risarcimento del danno ex art. 32 legge n. 183 del 2010
nell’ipotesi di declaratoria di illegittimità di un unico contratto, si è posta
in contrasto con i richiamati principi – va cassata e la causa va rimessa alla
Corte d’appello di Messina, in diversa composizione, che si atterrà, nel nuovo
esame della fattispecie, ai principi su richiamati, provvedendo, altresì, sulle
spese anche del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e
rinvia alla Corte di appello di Messina, in diversa composizione, cui demanda
di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.