Le certificazioni mediche sono discrezionali e insindacabili a meno che non siano irragionevoli, travisino palesemente i fatti, trascurino fatti irrilevanti, utilizzino criteri tecnici scorretti.
Nota a Cons. Stato, sez. III, 12 novembre 2020, n. 6963
Flavia Durval
Il Consiglio di Stato (sez. III, 12 novembre 2020, n. 6963) ha respinto il ricorso, presentato da un vigile del fuoco, divenuto inidoneo al servizio, che ha dedotto la violazione dell’art. 2087 c.c. sul presupposto che l’Amministrazione non aveva tutelato la sua integrità fisica, adibendolo a mansioni incompatibili con le patologie accusate.
Il Collegio ha ritenuto rispettosa delle risultanze sanitarie l’Amministrazione poiché si era sempre attenuta alle prescrizioni del competente organo sanitario, adibendo il dipendente a mansioni logistiche, quando il giudizio medico era stato espresso nel senso della inidoneità al servizio operativo ed ha precisato una serie di importanti principi in tema di certificazione medica e di tutela della salute nei luoghi di lavoro.
Quanto al primo aspetto, il Consiglio ha chiarito che “le certificazioni mediche sono atti connotati da discrezionalità tecnica, basati su nozioni scientifiche e su dati di esperienza tecnica, con conseguente insindacabilità degli stessi, innanzitutto da parte dell’Amministrazione datrice di lavoro, fatta eccezione per le ipotesi di manifesta irragionevolezza, di palese travisamento dei fatti, di omessa considerazione di circostanze di fatto rilevanti, nonché di scorrettezza dei criteri tecnici e del procedimento”.
Circa le atre tematiche, i giudici hanno sottolineato che:
– l’art. 2087 c.c. si applica anche al pubblico impiego ed al personale militare (v. fra tante, Cons. St., sez. IV, n. 6166/2018);
– tale disposizione, come noto, impone al datore di lavoro di adottare tutte “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, incorpora l’obbligo di sicurezza all’interno rapporto obbligatorio (essendo il contratto individuale di lavoro integrato per legge, ai sensi dell’art. 1374 c. c., dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale) ed è fonte di obblighi positivi (e non solo di mera astensione) del datore di lavoro, con possibilità per il prestatore di eccepirne – e provarne – l’inadempimento e di rifiutare la prestazione pericolosa (ex art. 1460 c. c.) (Cass. n. 24742/2018 e Cass. n. 2209/2016);
– per ciò che concerne il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro (che si pone nei medesimi termini dell’art. 1218 c.c. relativamente all’inadempimento delle obbligazioni), il lavoratore, che agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro o malattia professionale, deve allegare e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa e del danno nonché il nesso causale tra quest’ultimo e la prestazione. Dal canto suo il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile e, cioè, di aver adempiuto interamente all’obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno;
– con riferimento al perimetro di operatività della responsabilità contrattuale del datore di lavoro (ex art. 2087 c.c.), “il mero fatto che il lavoratore abbia riportato lesioni in occasione dello svolgimento della propria attività non determina di per sé l’addebito delle conseguenze dannose al datore di lavoro, essendo necessaria la prova, tra l’altro, della nocività dell’ambiente di lavoro” (Cass. n. 20366/2019 e Cass. n. 24742/2018), dovendo la responsabilità del datore di lavoro essere collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento (Cass. n. 2038/2013). In particolare, “la dipendenza della malattia del lavoratore da una ‘causa di servizio’ non implica, né può far presumere, che l’evento dannoso sia derivato dalle condizioni di insicurezza dell’ambiente di lavoro, essendo possibile che la patologia accertata debba essere collegata alla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa ed al logoramento dell’organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo. In tale ultimo caso non si rientra nell’ambito dell’art. 2087 c.c., il quale riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici” (Cass. n. 25151/2017);
– pertanto, al fine di impedire che il datore di lavoro sia responsabile per qualunque evento lesivo patito dal dipendente, anche se imprevedibile e inevitabile, grava sul lavoratore che lamenti di avere subito un danno alla salute, a causa dell’attività lavorativa svolta, l’onere di provare: a) l’esistenza di tale danno; b) la nocività dell’ambiente di lavoro; c) il nesso tra l’uno e l’altro. Soltanto qualora il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze il datore di lavoro ha l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno medesimo e che la malattia o l’infortunio non siano ricollegabili alla inosservanza degli obblighi di legge incombenti su di lui (Cass. n. 24742/2018).