Giurisprudenza – TRIBUNALE DI BERGAMO – Ordinanza 10 luglio 2020, n. 180

Straniero, Reddito di cittadinanza, Beneficiari, Requisiti
di cittadinanza, residenza e soggiorno, Possesso, per i cittadini di Paesi
terzi, del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo,
Esclusione dall’accesso alla prestazione per i titolari di permesso unico
lavoro, ex art. 5, comma 8.1.,
del d.lgs. n. 286 del 1998, o di permesso di soggiorno di almeno un anno,
ex art. 41 del d.lgs. n. 286 del
1998., Decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4
(Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni),
convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, art. 2,
comma 1, lettera a).

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso depositato il 13 gennaio 2020, E.L.
proponeva ricorso ex art. 702-bis del codice di
procedura civile avanti a questo tribunale perché fosse accertato il
carattere discriminatorio del comportamento dell’INPS (consistito nell’avere
impedito alla ricorrente di presentare domanda volta all’erogazione del reddito
di cittadinanza, in quanto straniera non titolare di permesso di soggiorno UE
per soggiornanti di lungo periodo o titolare di protezione internazionale),
dando diretta applicazione all’art.
12 della direttiva 2011/98/UE o previa rimessione della questione di
costituzionalità dell’art. 2,
comma 1, lettera a), decreto-legge n. 4/2019 (convertito con legge n. 26/2019), nella parte in cui esclude
dalla prestazione del reddito di cittadinanza i titolari di permesso unico
lavoro ex decreto legislativo n. 40/2014 o di
permesso di soggiorno di almeno un anno ex art. 41, decreto legislativo n.
286/1998, con i conseguenti ordini di cessazione della discriminazione e
rimozione degli effetti (ordinando cioè all’INPS di modificare la procedura di
presentazione della domanda on line e condannandolo al pagamento del reddito di
cittadinanza, oltre che al risarcimento del danno derivante dalla impossibilità
di fruire delle prestazioni connesse allo stesso).

Si costituiva l’INPS, eccependo l’inammissibilità
della domanda e comunque contestandone la fondatezza.

Il giudice si riservava la decisione.

 

Motivi della decisione

 

In fatto, si rileva che:

a) la ricorrente, cittadina nigeriana, ha fatto
ingresso in Italia nel 1996, è iscritta all’anagrafe dal febbraio 2000 ed è
titolare del permesso di soggiorno per «attesa occupazione» del 12 gennaio
2017, scaduto il 27 marzo 2019, di cui ha richiesto il rinnovo (cfr. docc. 3-5,
13 e 14 Edward);

b) in data 7 ottobre 2019, la ricorrente ha
presentato via PEC domanda «cartacea» finalizzata ad ottenere il reddito di
cittadinanza; la ricorrente non ha potuto presentare la domanda in forma
telematica, atteso che il sistema informatico consente di dichiarare di essere
cittadino di Paese terzo solo spuntando la casella relativa al possesso del
permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o alla titolarità di
protezione internazionale (cfr. doc. 8 Edward);

c) in data 23 ottobre 2019, l’INPS ha ritenuto
inammissibile la domanda, in quanto la stessa «va presentata solo ed
esclusivamente online, non è possibile accettare domande cartacee» (cfr. doc. 9
Edward).

La ricorrente, premesso di possedere di tutti i
requisiti previsti dal decreto-legge n. 4/2019
(convertito con legge n. 26/2019) per
beneficiare del reddito di cittadinanza ad eccezione del permesso di soggiorno
UE per soggiornanti di lungo periodo, ha richiesto che il tribunale dichiari il
carattere discriminatorio del comportamento dell’INPS, dando diretta
applicazione all’art. 12 della
direttiva 2011/98/UE oppure sollevando la questione di costituzionalità
dell’art. 2, comma 1, lettera a),
decreto-legge n. 4/2019 (convertito con legge
n. 26/2019), nella parte in cui esclude dalla prestazione del reddito di
cittadinanza i titolari di permesso unico lavoro ex decreto
legislativo n. 40/2014 o di permesso di soggiorno di almeno un anno ex art. 41, decreto legislativo n.
286/1998.

L’eccezione di inammissibilità della domanda è
infondata.

L’azione esperita dalla ricorrente nelle forme ex art. 28, decreto legislativo n.
150/2011 è un’azione tipica, specificamente prevista per dare ampia e
flessibile tutela nei confronti di qualunque atto discriminatorio
oggettivamente pregiudizievole, con potere giudiziale di adottare, «anche nei
confronti della pubblica amministrazione, ogni … provvedimento idoneo a
rimuoverne gli effetti».

Nel merito, si osserva preliminarmente che il
Tribunale di Bergamo si è recentemente pronunciato in merito a una questione
analoga (ordinanza dell’1 agosto 2019 nel
procedimento n. 107/2019 R.G., relativo al reddito di inclusione), la cui
condivisibile motivazione può essere in questa sede richiamata, con le
necessarie puntualizzazioni.

«Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di
prevedere una misura … utile ad assicurare un livello minimo di sussistenza»,
l’art. 1, decreto-legge n. 4/2019
(convertito con legge n. 26/2019) ha
istituito, «a decorrere dal mese di aprile 2019, il reddito di cittadinanza …
quale misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto
al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione
sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione,
alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico
e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società
e nel mondo del lavoro». Il reddito di cittadinanza, prosegue il medesimo art. 1, «costituisce livello
essenziale delle prestazioni nei limiti delle risorse disponibili».

L’art.
2, comma 1, decreto-legge n. 4/2019 riconosce il reddito di cittadinanza
«ai nuclei familiari in possesso cumulativamente, al momento della
presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del
beneficio» di alcuni requisiti; in particolare, per quanto interessa in questa sede:

a) «con riferimento ai requisiti di cittadinanza,
residenza e soggiorno, il componente richiedente il beneficio deve essere
cumulativamente:

1) in possesso della cittadinanza italiana o di
Paesi facenti parte dell’Unione Europea, ovvero suo familiare, …, che sia
titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero
cittadino di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per
soggiornanti di lungo periodo;

2) residente in Italia per almeno 10 anni, di cui
gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per
tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo»;

b) «con riferimento a requisiti reddituali e
patrimoniali, il nucleo familiare deve possedere:

1) un valore dell’Indicatore della situazione
economica equivalente (ISEE), …, inferiore a 9.360 euro», con particolare
disciplina «nel caso di nuclei familiari con minorenni», determinati valori del
patrimonio immobiliare e mobiliare (punti 2 e 3) e

«4) un valore del reddito familiare inferiore ad una
soglia di euro 6.000 annui», con determinati incrementi e maggiorazioni;

c) infine, il nucleo familiare si deve trovare in
specifiche condizioni «con riferimento al godimento di beni durevoli».

Il beneficio in parola è poi connesso alla
sottoscrizione di un «patto per il lavoro» o di un «patto per l’inclusione
sociale», attraverso i Centri per l’Impiego o i servizi comunali per il
contrasto alla povertà, come disciplinati dall’art. 4, decreto-legge n. 4/2019.

Ebbene nel caso in esame è controversa solo la
questione dell’estensione soggettiva del beneficio (atteso che la ricorrente
non è titolare permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo),
mentre risulta agli atti (e comunque non è stato specificamente contestato
dall’INPS) il possesso da parte della ricorrente di tutti gli altri requisiti
previsti per il suo riconoscimento.

Va poi escluso che la circostanza che la ricorrente
abbia presentato la domanda in forma cartacea, anziché in via telematica, possa
rilevare ai fini del riconoscimento della prestazione, laddove ne vengano
accertati i fatti costitutivi. La strutturazione del sistema di ricezione
dell’INPS – cui la resistente fatto accesso, ma senza poter concludere la
procedura per l’esistenza di vincoli informatici – risulta esclusivamente
imputabile all’Istituto stesso.

La questione di legittimità costituzionale dell’art.
comma 1, lettera a), decreto-legge n. 4/2019
(convertito con legge n. 26/2019), nella parte
in cui attribuisce il beneficio ai soli cittadini di Paesi terzi in possesso
del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, di cui la
ricorrente è sprovvista, è pertanto rilevante.

Il reddito di cittadinanza è esplicitamente
qualificato come «livello essenziale delle prestazioni», pur nei limiti delle
risorse disponibili, ed è teso «a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto
alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale», con misure
«sostegno economico e … inserimento sociale dei soggetti a rischio di
emarginazione nella società e nel mondo del lavoro».

Tale beneficio è pertanto evidentemente finalizzato
a dare attuazione ai fondamentali compiti della Repubblica di cui agli articoli 2 e 3 della
Costituzione, proponendosi di assicurare, mediante l’intervento della
solidarietà economica, un «livello minimo di sussistenza» e la concreta
possibilità di svolgimento della personalità nelle formazioni sociali (in
primis, quella lavorativa, fondamento della Repubblica), rimuovendo gli
ostacoli di ordine economico e sociale (in primis, le condizioni di povertà ed
emarginazione sociale) che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.

In tema di diritti essenziali, la Corte
costituzionale (cfr. sentenza n. 187/2010 e la
giurisprudenza della CGUE richiamata) ha affermato che la valutazione in
termini di «essenzialità» della prestazione deve essere effettuata «alla luce
della configurazione normativa e della funzione sociale che questa è chiamata a
svolgere nel sistema», verificando se «integri o meno un rimedio destinato il
concreto soddisfacimento dei “bisogni primari” inerenti alla stessa
sfera di tutela della persona umana, che è compito della Repubblica promuovere
e salvaguardare; rimedio costituente, dunque, un diritto fondamentale, perché
garanzia per la stessa sopravvivenza del soggetto. … Ove, pertanto, si versi
in tema di provvidenza destinata a far fronte al “sostentamento”
della persona, qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente
soggiornati nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle
condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con il principio
sancito dall’art. 14 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, avuto riguardo alla relativa
lettura che … è stata in più circostanze offerta dalla Corte di Strasburgo».

Ebbene, se il reddito di cittadinanza è
riconducibile nell’alveo dei diritti essenziali – come appare esserlo, in
ragione delle esplicite qualificazioni e finalità attribuite dalla legge alla
prestazione, sopra richiamate – la scelta di introdurre particolari condizioni
soggettive (in particolare, il possesso del permesso di soggiorno UE di lungo
periodo) appare in contrasto con i principi ex art.
2 e 3 della Costituzione (anche nelle
specifiche forme della tutela della famiglia e del lavoro ex articoli 31 e 38 della
Costituzione), nonché dell’art. 117, comma 1
della Costituzione, in relazione all’art. 14 CEDU e agli articoli 20 e 21 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea in tema di principi di eguaglianza
e di non discriminazione.

In ogni caso, se anche il reddito di cittadinanza
fosse ritenuto una prestazione estranea al nucleo dei diritti essenziali, la
limitazione soggettiva dell’art.
2, comma 1, lettera a), decreto-legge n. 4/2019 appare ancora una volta in
contrasto con l’art. 3 della Costituzione per
irragionevolezza.

Infatti, se è vero che il legislatore può
legittimamente decidere di circoscrivere la platea dei beneficiari di
determinate prestazioni sociali, l’eventuale limitazione «deve pur sempre
rispondere al principio di ragionevolezza ex art. 3
della Costituzione» e «tale principio può ritenersi rispettato solo qualora
esista una “causa normativa” della differenziazione, che sia
giustificata dal una ragionevole correlazione tra la conduzione a cui è
subordinata l’attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne
condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio. … Una simile
ragionevole causa normativa può in astratto consistere nella richiesta di un
titolo che dimostri il carattere non episodico o di breve durata della
permanenza sul territorio dello Stato: anche in questi casi, peraltro, occorre
pur sempre che sussista una ragionevole correlazione tra la richiesta e le
situazioni di bisogno o di disagio, in vista delle quali le singole prestazioni
sono state previste» (cfr. Corte costituzionale,
sentenza n. 166/2018).

Nel caso in esame, l’esclusione dei cittadini di
Paesi terzi che – come la ricorrente – siano in possesso dei requisiti di
residenza e di un permesso di soggiorno, ma sprovvisti di quello UE di lungo
periodo (il quale, ai sensi dell’art.
9, decreto legislativo n. 286/1998, richiede la disponibilità di un reddito
non inferiore all’assegno sociale, pari nel 2019 e euro 5.889, oltre che di un
alloggio), finisce per penalizzare – senza alcuna apprezzabile ragione e anzi
in aperto contrasto con l’intento legislativo – proprio i nuclei familiari più
bisognosi (come del resto evidenziato dai dati statistici allegati dalla
ricorrente a pag. 7 del ricorso, non contestati dall’INPS).

Valgono in tema di apparente contrasto con l’art. 3 della Costituzione gli argomenti
recentemente svolti dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza di rimessione n.
16164/19 (cfr. punti 16-21), relativa all’art. 1, comma 125, legge n.
190/2014; tale disposizione ha escluso dalla prestazione i nati o gli
adottati tra l’1 gennaio 2012 e il 31 dicembre 2017 da genitori cittadini
extracomunitari legalmente residenti in Italia in base ad idoneo permesso di
soggiorno e lavoro e che fruiscono di redditi non superiori a determinate
soglie, ma che siano sprovvisti del permesso di soggiorno UE di lungo periodo.

La Corte di Cassazione ha rilevato che «pare in
contrasto con il principio della ragionevolezza … escludere dalla …
prestazione sociale, rilevante perché a contenuto economico, intere categorie
di soggetti, selezionati non in base all’entità o alla natura del bisogno, ma
ad un criterio privo di ogni collegamento con questo, quale la titolarità del
permesso di lungo soggiorno che presuppone una durata pregressa della residenza
almeno quinquennale, un reddito comunque almeno pari all’importo dell’assegno
sociale, un alloggio idoneo e la conoscenza della lingua italiana:
determinando, con ciò, l’esclusione di chi si trova in situazione di maggior
bisogno rispetto a tale categoria e disparità di trattamento tra situazioni
identiche o analoghe, con conseguente lesione del principio di eguaglianza».

Tanto più che la disposizione in quella sede
censurata – al pari quella rilevante nella presente controversia – «non si
raccorda in alcun modo con la previsione contenuta nell’art. 41 del decreto legislativo n.
286 del 1998 (disposizione appartenente all’insieme di norme contenute nel
t.u. che l’art. 1, comma 4, definisce “norme fondamentali di riforma
economico-sociale della Repubblica”) che riconosce in linea generale
parità di trattamento, rispetto ai cittadini italiani, in materia di assistenza
sociale, ai cittadini extracomunitari titolari di permesso di soggiorno e di
lavoro validi per almeno un anno».

Va infine considerato, sempre richiamando la Corte
di Cassazione, che non rilevano, «in senso contrario, valutazioni relative alla
necessità di limitare l’erogazione di prestazioni di natura economica eccedenti
quelle essenziali in ragione della limitatezza delle risorse disponibili, posto
che ciò non esclude “che le scelte connesse alla individuazione dei
beneficiari – necessariamente da circoscrivere in ragione della limitatezza
delle risorse disponibili – debbano essere operate sempre e comunque in
ossequio al principio di ragionevolezza” come statuito da Corte
costituzionale n. 40 del 2001 e n. 432 del 2005».

Quanto infine alla questione relativa
all’applicazione del diritto alla parità di trattamento sancito dall’art. 12 della direttiva 2011/98/UE
nel godimento delle prestazioni di sicurezza sociale ex reg. CE 883/04 in
favore di tutti i titolari di permesso unico lavoro, si osserva che la
possibilità o meno di ricondurre il reddito di cittadinanza alle «prestazioni
di disoccupazione» ex art. 3,
comma 1, lettera h), reg. CE 883/04 non condiziona la proposizione della
questione di legittimità costituzionale; sul punto si richiama quanto già
affermato nell’ordinanza n. 16164/2019 della Corte di Cassazione ai punti 7-12.

Conclusivamente, si deve ritenere rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a),
decreto-legge n. 4/2019 (convertito con legge
n. 26/2019), in relazione agli articoli 2, 3, 31, 38 e 117, comma 1
della Costituzione (quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU e agli articoli 20 e 21 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea), nella parte in cui esclude dalla
prestazione del reddito di cittadinanza i titolari di permesso unico lavoro ex art. 5, comma 8.1, decreto
legislativo n. 286/1998 o di permesso di soggiorno di almeno un anno ex art. 41, decreto legislativo n.
286/1998.

 

P.Q.M.

 

In funzione di giudice del lavoro, visti l’art. 134 della Costituzione, l’art. 1 della legge costituzionale n. 1/1948 e l’art. 23 della legge n. 87/1953,
ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2, comma
1, lettera a), decreto-legge n. 4/2019 (convertito con legge n. 26/2019), in relazione agli articoli 2, 3, 31, 38 e 117, comma 1 della Costituzione (quest’ultimo in
relazione all’art. 14 CEDU e
agli articoli 20 e 21 della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), nella parte in cui esclude dalla
prestazione del reddito di cittadinanza i titolari di permesso unico lavoro ex art. 5, comma 8.1, decreto
legislativo n. 286/1998 o di permesso di soggiorno di almeno un anno ex art. 41, decreto legislativo n.
286/1998, sospende il giudizio e dispone la trasmissione degli atti alla
Corte costituzionale, ordinando che, a cura della cancelleria, l’ordinanza di
rimessione alla Corte costituzionale sia notificata alle parti in causa, al
Presidente del Consiglio dei ministri e ai presidenti delle due Camere del
Parlamento.

 

Provvedimento pubblicato nella G.U. del 23 dicembre 2020, n. 52

Giurisprudenza – TRIBUNALE DI BERGAMO – Ordinanza 10 luglio 2020, n. 180
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