Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 dicembre 2020, n. 29303

Rapporto di lavoro, Giornalista, Contratto a termine,
Nullità, Divergenza tra la prestazione resa e l’oggetto del contratto
sottoscritto

 

Rilevato che

 

1. La Corte di appello di Roma ha confermato la
sentenza del Tribunale della stessa città che aveva accertato che il termine
apposto al contratto intercorso tra F.M.C. e l’A. s.p.a. era nullo e che tra le
parti era in corso un rapporto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dal 3.11.2008
con la qualifica di giornalista corrispondente ai sensi degli artt. 5 e 11
comma 5 del c.c.n.I.g. ed aveva condannato la società al pagamento in favore
del C. della somma di € 73.430,60, oltre interessi e rivalutazione, a titolo di
differenze retributive maturate dal 3.11.2008 al 20.5.2011.

2. Il giudice di appello, al pari di quello di primo
grado, ha ritenuto che la comunicazione del 17 maggio 2011 era meramente
ricognitiva della cessazione del rapporto per avvenuta scadenza del termine.

2.1. Ha poi accertato che dall’istruttoria svolta
era risultato confermato che il C. non aveva mai lavorato a Roma come
praticante e che, invece, era stato sempre utilizzato a M. quale
corrispondente.

2.2. Ha ritenuto che alla radicale divergenza tra la
prestazione resa e l’oggetto del contratto sottoscritto era conseguita la
nullità del termine appostovi.

2.3. Ha confermato che per la durata della
prestazione questa doveva essere retribuita, ai sensi dell’art. 36 Cost. e dell’art.
2126 cod. civ. in proporzione alla qualità e quantità del lavoro svolto
poiché il contratto non aveva causa o oggetto illecito.

2.4. Ha accertato che il C. svolgeva a M. i compiti
del corrispondente estero – pubblicando articoli per coprire l’informazione
giornaliera del settore, in contatto con la redazione italiana e sulla base di
direttive e disposizioni dell’azienda – e lo ha equiparato a livello
retributivo al capo servizio.

2.5. Ha confermato la correttezza della liquidazione
operata dal Tribunale anche con riguardo alla misura dell’indennità
risarcitoria liquidata in cinque mensilità.

3. Per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso A. s.p.a. affidato a quattro motivi ai quali ha opposto difese con
tempestivo controricorso F.M.C.. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai
sensi dell’art. 380 bis.l cod. proc.civ..

 

Considerato che

 

4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la
violazione e falsa applicazione degli artt. 1324
e 1362 cod.civ. in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod.proc.civ..

4.1. Sostiene la ricorrente che la Corte sarebbe
incorsa nella denunciata violazione di legge poiché, nell’interpretare la
comunicazione del 17 maggio 2011, non avrebbe tenuto conto del suo chiaro
tenore testuale. Accanto al riferimento alla scadenza del termine (il 20 maggio
2011) nella lettera era espressa la volontà di cessare la collaborazione alla
stessa data in considerazione della ultimazione dell’attività che ne aveva
costituito l’oggetto sicché la prestazione non avrebbe potuto essere
ulteriormente utilizzata in maniera proficua. Deduce che anche il comportamento
tenuto avrebbe avvalorato l’interpretazione proposta atteso che l’ufficio di M.
era stato chiuso ed i locali erano stati riconsegnati. Evidenzia che i testi
avevano confermato sia la rispondenza delle mansioni svolte a quelle indicate
nel contratto sia la soppressione del ruolo successivamente alla risoluzione
del rapporto con il C. sottolineando che a Mosca non c’era mai stato un ufficio
di corrispondenza. Sulla base di queste considerazioni ha perciò ritenuto
confermato sia lo svolgimento di compiti aderenti a quelli previsti dai due
contratti e dalla proroga, sia la natura di licenziamento della comunicazione
del maggio 2011.

5. Con il secondo motivo di ricorso, sempre in
relazione alla comunicazione 17.5.2011, denuncia la violazione degli artt. 112 e 115
cod.proc.civ. e I’ omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in
relazione all’art. 360 primo comma nn. 3 e 5 cod.
proc.civ..

5.1. Osserva la ricorrente che la Corte non avrebbe
tenuto conto del fatto che, vertendosi in una ipotesi di licenziamento per
giustificato motivo oggettivo, alla mancata tempestiva impugnazione
stragiudiziale dello stesso era conseguita la decadenza dalla facoltà di agire
in giudizio.

6. Le censure devono essere esaminate congiuntamente
e sono infondate.

6.1. Ritiene infatti il Collegio che la sentenza non
è incorsa nel denunciato vizio di interpretazione della comunicazione del
17.5.2011 e, conseguentemente, una volta riferita la risoluzione del rapporto
all’ avvenuto decorso del termine, nessuna decadenza era maturata.

6.2. Correttamente infatti la Corte ha interpretato
la comunicazione riferendola al contesto specifico in cui è stata adottata:
quello di un contratto a tempo determinato in scadenza, e dunque l’ulteriore
specificazione della ragione della cessazione va correlata alla volontà
datoriale di non reiterare il contratto a termine. Solo all’esito del giudizio
intrapreso è stata accertata l’esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro
a tempo indeterminato in quanto si è ritenuta illegittima proprio l’apposizione
del termine.

6.3. Quanto alla decadenza va premesso che nel caso
in esame il lavoratore non era tenuto ad impugnare nel termine di sessanta
giorni il contratto, come previsto dall’art. 32 comma 3 lett. d) della legge
n. 183 del 4.11.2010, atteso che l’entrata in vigore della disposizione
“in sede di prima applicazione” è stata differita al 31 dicembre 2011
dal comma 1 bis dell’art. 32, introdotto dal
d.l. n. 225 del 2010, conv. con mod. dalla I.
n. 10 del 2011, ed a quella data il C. aveva già depositato il ricorso
introduttivo del giudizio di primo grado.

6.5. Esclusa l’esistenza di un licenziamento e
vertendosi in tema di accertamento della illegittimità dei termini apposti ai
contratti sul ricorrente non gravava alcun onere di impugnazione
stragiudiziale. Resta infatti valido il principio ripetutamente affermato da
questa Corte (cfr. Cass. 09/12/2002 n. 17524, 14/07/2005
n. 14814, 10/11/2009 n. 23756) secondo il
quale in caso di scadenza di un contratto di lavoro a termine illegittimamente
stipulato e di comunicazione (da parte del datore di lavoro) della conseguente
disdetta, non sono applicabili – tenuto conto della specialità della disciplina
della legge n. 230 del 1962 (sul contratto di
lavoro a tempo determinato) rispetto a quella legge
n. 604 del 1966 (sull’estinzione del rapporto a tempo indeterminato) e
della qualificabilità dell’azione diretta all’accertamento dell’illegittimità
del termine non come impugnazione del licenziamento ma come azione
(imprescrittibile) di nullità parziale del contratto – ne’ la norma dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966,
relativa alla decadenza del lavoratore dall’impugnazione dell’illegittimità del
recesso, ne’ la norma dell’art.
18 della legge n. 300 del 1970 relativa alla reintegrazione nel posto di
lavoro (ancorché la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo
indeterminato dia ugualmente al lavoratore il diritto di riprendere il suo
posto e di ottenere il risarcimento del danno). È peraltro salva
l’applicabilità di entrambe tali norme qualora il datore di lavoro, anziché
limitarsi a comunicare (con un atto nel quale non è assolutamente ravvisabile
un licenziamento) la disdetta per scadenza del termine, abbia intimato un vero
e proprio licenziamento sul presupposto dell’illegittimità del termine e della
durata indeterminata del rapporto.

7. Con il terzo motivo di ricorso è censurata la
sentenza per avere, ai sensi dell’art. 360 primo
comma nn. 3 e 5 cod. proc. civ., violato e falsamente applicato l’art. 1 d.lgs. 368 del 2001 e gli
artt. 112 e 115
cod.proc.civ., omettendo altresì l’esame di un fatto decisivo per il
giudizio.

7.1 Sostiene la ricorrente che la sentenza, nel
ritenere nulla la clausola appositiva del termine, avrebbe travisato le
risultanze dell’istruttoria dalla quale era emerso che l’attività svolta era
proprio quella indicata nei contratti; che era stata espletata solo nel periodo
in cui il C. aveva lavorato per AGI (mai né prima né dopo); che l’ufficio di M.
era stato chiuso con la cessazione del rapporto e non ne era stato mai aperto
un altro; che nessun altro ufficio di corrispondenza esisteva oltre a quello di
Bruxelles e che era risultata, infine, provata l’esigenza di ridurre gli
organici.

7.2. Osserva che si trattava di circostanze che
confermavano l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento
tenuto conto dell’esiguo numero di notizie utilizzate e del carattere
transitorio dell’esigenza che aveva giustificato la scelta di ricorrere a contratti
a tempo determinato.

8. La censura è inammissibile poiché, pur
prospettata/almeno in parte, in termini di violazione di leggersi sostanzia in
una rivisitazione delle risultanze istruttorie secondo una ricostruzione
alternativa e più favorevole che non è consentita davanti al giudice di
legittimità se non nei limiti del vizio di motivazione quale ridisegnato dalla
novella dell’art. 360 n. 5 cod. proc.civ. del
2012.

8.1. Va qui ribadito che la violazione e falsa
applicazione degli artt. 115 e 116 cod.proc.civ. non può porsi per una erronea
valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo
se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non
dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o
abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove
legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza
apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr.
Cass. 17.01.2019 n. 1229 e già n. 27000 del 2016).

8.2. Neppure poi è chiarito quale sarebbe il fatto
decisivo trascurato dalla Corte di appello che ha proceduto ad una analisi
delle prove aderente ai fatti allegati.

9. Anche l’ultimo motivo di ricorso, con il quale è
denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e 11 del
c.c.n.I.g., dell’art. 2231 cod.civ e degli artt.112 e 115 cod.
proc.civ. oltre che I’ omesso esame di un fatto decisivo, non può trovare
accoglimento.

9.1. Nel richiamare le considerazioni svolte sul
precedente motivo di ricorso va qui rilevato che il richiamo effettuato dalla
società all’art. 2231 cod. civ. non è
pertinente atteso che tale disposizione si applica ai liberi professionisti e
qui è pacifico che il C., seppure con una serie di contratti a termine, ha
lavorato in regime di subordinazione.

9.2. Del tutto correttamente la Corte di merito,
avendo accertato le caratteristiche con le quali in concreto si era svolto il
rapporto e avendo sussunto le mansioni nella categoria ad esse corrispondente,
con procedimento corretto e con valutazione dei fatti a lei riservata, ha poi
ritenuto applicabile alla fattispecie l’art. 2126
cod. civ..

9.3. Ed infatti in caso di esercizio di fatto di
attività giornalistica da parte di un soggetto non iscritto all’albo
professionale, la nullità del rapporto di lavoro, non derivando dall’illiceità
dell’oggetto o della causa ma dalla violazione della norma imperativa dettata
dall’art. 43 della legge 3
febbraio 1963, n. 69, non produce effetto nel periodo in cui il rapporto ha
avuto esecuzione, secondo l’espresso disposto dell’art.
2126 cod. civ.. Ciò comporta, limitatamente a tale periodo, che il lavoro
prestato in carenza di iscrizione deve essere retribuito, con eventuale
adeguamento della misura della retribuzione ex art.
36, primo comma, Cost. (cfr. Cass. n. 21591
del 2008, n. 3399 del 2006 e n. 28 del 2005).

10. In conclusione, per le ragioni esposte, il
ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e
sono liquidate nella misura indicata in dispositivo e distratte in favore
dell’avv. B.D.V. che se ne è dichiarato antistatario. Condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in € 4.000,00 per
compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre
agli accessori dovuti per legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R.,
se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità liquidate in € 5.500,00 per compensi professionali, €
200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per
legge. Spese da distrarsi.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R.,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 dicembre 2020, n. 29303
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: