Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 dicembre 2020, n. 28811

Rapporto di lavoro, Qualifica di operaio specializzato e
mansioni di autista, Conteggio in eccesso, ai fini retributivi, delle ore
lavorate, Rinuncia ad una parte della retribuzione sino al soddisfacimento del
danno arrecato alla ditta

 

Rilevato

 

che A.V. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale
di Rovereto, la ditta A.L.N.B. di A.S. – alle dipendenze della quale prestava
servizio dal 19.10.2000, con la qualifica di operaio specializzato e mansioni
di autista -, chiedendone la condanna al versamento, in suo favore, della somma
complessiva di Euro 17.006,34 (corrispondente alla retribuzione di 1320 ore di
lavoro, pari a 165 giorni lavorativi), <<illegittimamente trattenuta in
busta paga>>, nel periodo intercorrente tra il mese di ottobre 2009 ed il
mese di settembre 2010, <<sotto la causale “ore non
lavorate”>> ;

che il Tribunale, con la sentenza n. 67/2014, resa
il 25.11.2014, respingeva la domanda, condannando il V. al pagamento delle
spese del giudizio;

che la Corte di Appello di Trento, con sentenza
pubblicata in data 13.11.2015, accogliendo il gravame interposto dal V.,
avverso la pronunzia del primo giudice, ed in riforma della stessa, condannava
la datrice di lavoro al pagamento, in favore del dipendente, della somma di
Euro 17.006,34, oltre interessi e rivalutazione monetaria dal dì del dovuto al
saldo, ed altresì delle spese di lite dei gradi di merito;

che la Corte di merito, per quanto ancora in questa
sede rileva, ha reputato fondata la doglianza formulata nell’atto di appello al
sensi dell’art. 2113 c.c., per non avere il
giudice di prima istanza attribuito natura transattiva all’accordo con cui, da
un lato, il datore di lavoro aveva acconsentito a non irrogare sanzioni
disciplinari nei confronti del V., una volta accertato che lo stesso aveva
conteggiato in eccesso, ai fini retributivi, le ore lavorate, e, dall’altro, il
dipendente, riconoscendo la sua colpa, si era impegnato a rinunziare mensilmente
ad una parte della retribuzione sino al soddisfacimento del danno arrecato alla
ditta;

che, pertanto, trattandosi di una vera e propria
transazione, tale accordo avrebbe dovuto essere provato per iscritto (e non per
presunzioni o testimonianze) ed <<essere annullato dal primo giudice in
quanto in contrasto con la disciplina di cui all’art.
2113 c.c., in virtù del quale le rinunzie e le transazioni aventi ad
oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili
di legge (come nella fattispecie) sono invalide>>; che per la cassazione
della sentenza ricorre la ditta A.L.N.B. di A.S., articolando due motivi, cui
A.V. resiste con controricorso; che sono state depositate memorie nell’interesse
della parte ricorrente;

che il P.G. non ha formulato richieste che, con ¡I
ricorso, si deduce: 1) in riferimento all’art. 360,
primo comma, n. 3, c.p.c., <<la violazione o falsa applicazione dell’art. 1967 c.c. in relazione all’art. 2113 c.c.>>, e si lamenta che la Corte
distrettuale non abbia considerato che <<il ricorrente ha soltanto
negato>> che l’accordo di cui si è detto in narrativa fosse stato
raggiunto e che, <<in subordine, ha sostenuto che lo stesso sarebbe stato
invalido per violazione dell’art. 2113 c.c.>>,
ed altresì, che, soltanto nel primo motivo del ricorso in appello – e, dunque,
tardivamente -, il V. <<ha eccepito la mancanza di prova scritta del
citato accordo, in violazione dell’art. 1967 c.c.,
lamentando correlativamente l’inammissibilità dell’assunta prova per testimoni
e delle presunzioni poste dal Tribunale a fondamento della propria
decisione>>; 2) in riferimento all’art. 360,
primo comma, nn. 3 e 5 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 2113 c.c., per avere i giudici di seconda
istanza affermato <<in maniera del tutto apodittica che il riconoscimento
da parte del V. dell’addebito mossogli dalla datrice di lavoro ed il relativo
proprio impegno di rimborso rateale delle somme indebitamente percepite
costituiscono atto impugnabile ex art. 2113 c.c.>>,
senza, peraltro, considerare che <<l’accordo in questione si è mosso
nell’ambito del riconoscimento di un debito del lavoratore, riguardante
l’ammontare di un risarcimento danni convenzionalmente determinato e le
modalità di pagamento del predetto ammontare, in aperta contraddizione con la
decisione assunta che risulta così aver violato il principio di diritto
riguardante il campo di applicabilità dell’art.
2113 c.c.>>; che i due motivi – da esaminare congiuntamente per
ragioni di connessione – non sono meritevoli di accoglimento: ed invero –
premesso che il secondo motivo è inammissibile relativamente alla doglianza
sollevata come violazione di legge, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., e che, nella
sostanza, censura un vizio di motivazione, in quanto si lamenta una
<<motivazione contraddittoria>> o <<omessa>>:
formulazione, peraltro, non più consona con le modifiche introdotte al n. 5 del
primo comma dell’art. 360 c.p.c. dall’art. 54, comma 1, lett. b), del D.l.
n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella I. n. 134 del 2012, applicabile, ratione
temporis, al caso di specie, poiché la sentenza oggetto del giudizio di
legittimità è stata pubblicata, come riferito in narrativa, il 13.11.2015 -, la
questione prospettata attiene alla natura da attribuire all’accordo intervenuto
tra il datore di lavoro ed il V., così come descritto in narrativa e se vi sia
stata, o meno, una <<rinunzia>> (finalizzata ad una
<<transazione>>), da parte di quest’ultimo, ad una parte della
retribuzione sino al soddisfacimento del danno arrecato al primo, il quale, a
sua volta, ha rinunziato ad assumere provvedimenti disciplinari nei confronti
del dipendente.

E la soluzione non può che essere favorevole alla
conclusione alla quale, sulla scorta degli elementi delibatori addotti dalle
parti, è giunta la Corte di merito, attraverso un percorso motivazionale
condivisibile e scevro da vizi logico-giuridici, per le considerazioni che
seguono; che non può non dirsi, invero, iuxta alligata ed avendo riguardo al
contenuto ed al tenore delle dichiarazioni e delle proposizioni adoperate e
rilasciate dalle parti, secondo la ricostruzione operata dai giudici di seconda
istanza, che queste abbiano senz’altro agito con il deliberato proposito di
porre in essere una precisa manifestazione di volontà negoziale, con cui hanno
disposto delle situazioni giuridiche che le riguardavano, e che abbiano agito
quindi – attraverso la rappresentazione delle reciproche rinunzie e concessioni
(datum et retentum) – con l’intento di porre fine alla res controversa e di
prevenire ed evitare qualsiasi eventuale lite apud Iudicem) che, come
correttamente osservato dalla Corte di merito, si desume altresì, ex actis, che
le parti abbiano operato con la consapevolezza degli specifici diritti che in
esso si subiettivavano, in contrasto, peraltro, con quanto disposto dall’art. 2113 c.c., ai sensi del quale, le rinunzie e
le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da
disposizioni inderogabili di legge non sono valide (v., tra le altre, Cass. n.
2734/12004 (ndr Cass. n. 2734/2004) ). Ed al riguardo è sintomatico che
il V., nella prima difesa utile (verbale di udienza dell’1.4.2014, come
sottolineato nell’ultima pagina della sentenza impugnata), si sia dato cura di
cautelarsi tempestivamente, impugnando la dichiarazione de voluntate ai sensi
dell’art. 2113 c.c., ritenuta viziata anche per
mancanza del requisito della forma scritta, come eccepito dal lavoratore nelle
note conclusive (v., ancora, l’ultima pagina della sentenza);

che, alla stregua di quanto precede, può quindi
affermarsi che non vi è dubbio che alle volizioni negoziali de quibus, poste in
essere dagli attuali contendenti, debba essere riconosciuta natura e portata
transattiva-abdicativa; e ciò, non soltanto, come si è già detto, in forza
della dichiarazione esteriorizzata, ma in considerazione, inoltre, della
evidente correlazione tra la situazione di reciproco vantaggio, a fronte della
derelictio di altre reciproche pretese che avrebbero eventualmente potuto
essere avanzate;

che, infine, la parte ricorrente non ha neppure
prodotto, (e neppure indicato tra i documenti offerti in comunicazione elencati
nel ricorso per cassazione), né trascritto, a sostegno dei propri assunti, il
verbale di udienza dell’1.4.2014, o le note conclusive, relativamente alle
quali ha eccepito la tardività delle eccezioni formulate dal dipendente ai
sensi dell’art. 2113 c.c.; e ciò, in violazione
del principio, più volte ribadito da questa Corte (ai sensi del disposto dell’art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c.), che
definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico
atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di
legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni
prima di esaminare il merito della questione (v., tra le molte, Cass. n.
14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli
elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione
della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di
tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso
e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di
merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013); che,
per tutto quanto innanzi esposto, il ricorso va respinto; che le spese,
liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R.
n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.700,00,
di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed
accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

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