Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 31 dicembre 2020, n. 37928

Lavoro, Associazione culturale, Artifici e raggiri ai fini
dell’assunzione, Licenziamento per mancato superamento del periodo di prova,
Reato di truffa aggravata

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Appello
di Perugia, in riforma della sentenza del Tribunale
di Perugia del 16 ottobre 2017, assolveva A.M.K. dal reato di truffa aggravata ascrittogli, per il
quale il giudice di primo grado lo aveva condannato alla pena di giustizia ed
al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili odierne ricorrenti.

Secondo il capo di imputazione, A.M.K.,
quale presidente di una associazione culturale, avrebbe usato artifici e
raggiri nei confronti delle parti civili inducendole a versare 43.000 euro al
fine di ottenere che il loro figliolo, N.M., potesse
essere assunto presso l’associazione quale addetto al bar, per poi, a distanza
di pochi giorni dalla assunzione, licenziare il N.M. per mancato superamento
del periodo di prova e, con ulteriori raggiri inducendolo a credere in una
futura riassunzione che portava la vittima a firmare un atto con il quale si
impegnava a non richiedere la restituzione della somma versata entro una certa
data concedendo anche alla associazione una restituzione rateale di quanto
percepito.

La Corte non riteneva provata tale condotta
artificiosa, assolvendo l’imputato e revocando le statuizioni civili.

2. Ricorrono per cassazione le parti civili N.D.R. e C.M., con unico atto ed
ai soli effetti della responsabilità civile.

Deducono:

1) vizio della motivazione per avere la Corte
travisato la testimonianza di M.A. sulla quale si era
fondata la condanna di primo grado, in quanto tale prova era stata ritenuta dal
Tribunale confermativa della deposizione della parte civile N.D.R.,
avendo il teste riferito di una confidenza fattagli dall’imputato in ordine al
suo intento di liberarsi di M.N. non appena i suoi
genitori avessero versato la cifra pattuita, con il che dimostrandosi il
raggiro posto in essere nell’assumere il N.M.

La Corte di Appello, secondo le ricorrenti, avrebbe
fornito una interpretazione non corretta di tale testimonianza e degli altri
elementi processuali con essa convergenti, ritenendo non provata la circostanza
che il licenziamento fosse stato preordinato fin dall’inizio dall’imputato.

Mancherebbe, pertanto(una motivazione assolutoria
rafforzata rispetto a quella di segno opposto adottata in primo grado.

Le parti civili ricorrenti aggiungono che le loro
posizioni quali vittime del reato non sarebbero elise dalle condotte del loro
figlio, che aveva autonomamente deciso di non impugnare il licenziamento
sebbene illegittimo ed aveva riconosciuto alla associazione una dilazione nella
restituzione della somma.

Si dà atto che nell’interesse dell’imputato è stata
depositata una memoria.

 

Considerato in diritto

 

Il ricorso è infondato.

1. Deve richiamarsi, preliminarmente, il principio
di diritto secondo cui, il giudice d’appello che riformi in senso assolutorio
la sentenza di condanna di primo grado non ha l’obbligo di rinnovare
l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso
dichiarazioni ritenute decisive, ma deve offrire una motivazione puntuale e
adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione
adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva.

Nel caso in esame, si ritiene che la Corte di
Appello abbia dettagliatamente motivato la decisione di assoluzione
dell’imputato, procedendo ad una analisi minuziosa della deposizione del
testimone M.A. il quale, nella prospettiva dei
ricorrenti e del Tribunale, avrebbe dovuto confermare la prova d’accusa
scaturente dalle dichiarazioni della parte civile N.D.R.

La Corte ha richiamato le incongruenze della
testimonianza, fornendo una giustificazione logica immune da vizi rilevabili in
questa sede del perché in alcune parti di essa, espressamente richiamate in
sentenza, fosse emerso che l’imputato non aveva preordinato alcun artificio nei
confronti delle parti civili, invece effettivamente promettendo l’assunzione
del loro figlio e licenziandolo solo a causa del
fatto che questi non lavorasse bene, attribuendo alla frase più significativa
per la difesa una causale dovuta all’ira dell’imputato per il ritardo nei
pagamenti, effettivamente presente a pg. 109 della trascrizione, allegata al
ricorso. Soprattutto, la ricostruzione della vicenda operata dai ricorrenti, ha
del tutto sorvolato su alcuni elementi di conferma al giudizio assolutorio
espresso dalla Corte ed alla interpretazione della precedente testimonianza.

In particolare, nel ricorso non vi è adeguato cenno
al fatto che le trattative tra le vittime e l’imputato si erano protratte per
anni, al fatto che l’assunzione del N.M. era stata in primo luogo negata
dall’imputato con mail del 7.4.2011, alla riapertura delle trattative dovuta al
fatto che si fosse effettivamente liberato quel posto di lavoro che poi era
stato assunto dal N.M. sia pure per soli quindici giorni (a conferma che
l’assunzione del M. rispondesse a reali esigenze dell’associazione), alla
circostanza che venne stipulato un regolare contratto di assunzione e
confezionata una lettera di licenziamento mai oggetto di impugnazione da parte
dell’interessato, alla significativa ammissione da parte della associazione del
debito verso il N. e dell’obbligo di restituzione da questi accettato in vista
di una futura riassunzione e con la subitanea attribuzione della qualifica di
socio benemerito per aver contribuito al risanamento dell’associazione.

Si tratta di una serie di elementi, alcuni dei quali
obliterati in ricorso, la cui convergenza logica è stata posta in luce dalla
Corte territoriale a sostegno del proprio convincimento, con motivazione che
relega al puro merito le diverse argomentazioni difensive, in parte anche
generiche nella misura in cui non richiamando tutti i dati indicati, offrono
una ricostruzione parziale delle emergenze processuali, non idonea ad inficiare
di illogicità la sentenza impugnata.

Al rigetto del ricorso segue la condanna dei
ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al
pagamento delle spese processuali.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 31 dicembre 2020, n. 37928
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