Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 dicembre 2020, n. 29114

Lavoro, Demansionamento, Risarcimento del danno, Adozione
della procedura informatizzata di controllo a distanza dell’attività lavorativa
– Illegittimità, Accertamento

 

Rilevato

 

Che il Tribunale di Bari, con sentenza resa in data
1.8.2012, in accoglimento del ricorso proposto da C.A.I., nei confronti di T.I.
S.p.A., ha ordinato alla società di attribuire al dipendente mansioni
equivalenti a quelle effettivamente espletate sino al mese di febbraio del 2002
e, per l’effetto, ha condannato la stessa a risarcire il danno cagionato al
ricorrente, quantificato nell’importo pari ad 1/3 delle retribuzioni percepite
dalla data del demansionamento sino a quella in cui è cessata la condotta illegittima;
ha, inoltre, dichiarato la illegittimità della sanzione disciplinare irrogata
al dipendente in data 3.12.2002 ed altresì la illegittimità dell’adozione della
procedura informatizzata FAS di controllo a distanza dell’attività lavorativa
del medesimo, ordinando alla società datrice la dismissione di tale procedura;

che la Corte di Appello di Bari, con sentenza
pubblicata il 10.11.2015, in parziale accoglimento del gravame interposto da
T.I. S.p.A. avverso la pronunzia di prima istanza, ha rigettato la richiesta di
dismissione dei terminali collegati alla procedura FAS, confermando per il
resto la sentenza impugnata; che per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso T.I. S.p.A. articolando sei motivi; che C.A. I. ha resistito con
controricorso;

che il P.G. non ha formulato richieste.

 

Considerato

 

che, con il ricorso, si censura: 1) la violazione e
falsa applicazione degli artt. 2103 c.c.; 12 del CCNL Telecomunicazioni 1992
e 23, lett. B), del CCNL
Telecomunicazioni 2000, in riferimento all’art.
360, primo comma, n. 3, c.p.c., e si lamenta che la decisione assunta dalla
Corte distrettuale sia violativa delle norme citate, in quanto frutto di
<<un’erronea ricognizione delle fattispecie astratte sopra
menzionate>>, nonché di una <<erronea interpretazione delle
declaratorie contrattuali previste dalla contrattazione collettiva di settore>>,
poiché, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, <<le
attività cui era stato preposto l’I. sono sussumiteli nelle previsioni
contrattuali delineate dall’art. 23
del ccnl del 2000, ovvero nel 4° livello>; pertanto, a parere della
società ricorrente, la Corte di merito avrebbe errato nel <<ritenere che
il dedotto demansionamento sia stato la conseguenza della mera assegnazione da
parte della T. dell’I. ad un settore diverso, in quanto ciò non ha comportato
una misura inferiore di responsabilità>> e, comunque, <<ormai l’art. 3 del d.lgs. n. 81/2015 ha
integralmente sostituito l’art. 2103 c.c.,
positivizzando l’esercizio del c.d. ius variarteli orizzontale, ovvero lo
spostamento del dipendente a mansioni equivalenti…, permettendo
l’assegnazione di mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale
di inquadramento delle ultime effettivamente svolte, assumendo quale parametro
non più il concreto contenuto delle mansioni svolte in precedenza dal
dipendente, bensì solamente le astratte previsioni del sistema di
classificazione adottato dal contratto collettivo applicabile al
rapporto>>; 2) in riferimento all’art. 360,
primo comma, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il
giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti: mancata valutazione
delle deposizioni testimoniali, per avere la corte di appello <<ritenuto
sussistente il presunto demansionamento, e la conseguente violazione dell’art. 2103 c.c. seguito dell’adibizione dell’I.
presso il nuovo settore CLU, …. mancando di valutare le proprie fonti di
convincimento>>; 3) in riferimento all’art.
360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., <<nella parte in cui la
sentenza non ha fornito alcuna argomentazione logica e coerente circa la
mancata valutazione delle prove orali raccolte in primo grado>; 4) in
riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.,
la violazione dell’art. 2729 c.c. in relazione
agli artt. 1218, 1223
e 2043 c.c., per avere i giudici di secondo
grado ammesso presunzioni semplici sul danno da demansionamento nonostante esse
non fossero né precise, né gravi ed avere fondato la liquidazione del danno da
dequalificazione professionale, <connettendo del tutto di considerare che il
risarcimento del danno deve essere perentoriamente provato>>; 5) in
riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.,
la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,
1223, 1226, 2103, 2697 c.c. e 432 c.p.c., <<per carenza di allegazioni sul
danno da demansionamento da parte del dipendente>>; 6) in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la
violazione degli artt. 1460, 2104, 2105 c.c.,
nonché dell’art. 7 della I. n.
300 del 1970, per avere la Corte territoriale ritenuto illegittima la
sanzione disciplinare comminata all’I., considerandola <<del tutto
ingiustificata, innanzitutto e in via decisiva perché il ricorrente, non avendo
nella fase transitoria della ristrutturazione elementi necessari, non poteva
attendere all’attività richiestagli, così come avveniva anche per gli altri
suoi colleghi di lavoro di provenienza CLPS che si vedevano costretti a
rifiutare regolarmente tali lavori, senza peraltro reazioni disciplinari da
parte della società. … Appare allora pertinente il richiamo all’eccezione di
inadempimento ex art. 1460 (ex multis Cass., 12
luglio 2002, n. 10187)…>>;

che il primo motivo non è fondato; con esso,
all’evidenza, si censura, nella sostanza, il fatto che i giudici di seconda
istanza avrebbero omesso il procedimento logico-giuridico c.d. trifasico,
ritenuto necessario, alla luce del consolidato orientamento della Suprema
Corte, per il corretto inquadramento del lavoratore; non avrebbero, cioè,
accertato quali attività lavorative svolgesse in concreto il dipendente, non
avrebbero proceduto all’individuazione delle qualifiche previste dai CCNL di
categoria applicabili alla fattispecie ed infine, non avrebbero operato il
raffronto tra il risultato della prima indagine e le declaratorie contrattuali
individuate nella seconda;

che questo Collegio osserva, al riguardo, che la
Corte di Appello, attraverso un percorso motivazionale condivisibile sotto il
profilo logico-giuridico, è pervenuta alla decisione oggetto del giudizio di
legittimità dopo aver analiticamente vagliato le risultanze dell’istruttoria
espletata in primo grado ed uniformandosi ai consolidati arresti
giurisprudenziali di questa Corte, alla stregua dei quali il procedimento logico-giuridico
che determina il corretto inquadramento di un lavoratore subordinato si compone
di tre fasi (cfr., ex plurimis, Cass. n.
17163/2016): l’accertamento in fatto dell’attività lavorativa svolta in
concreto; l’individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal CCNL di
categoria; il raffronto dei risultati delle suddette fasi (v., in particolare,
le pagg. 7-10 della sentenza impugnata); che, sulla scorta, quindi, degli
elementi delibatori emersi in prima istanza e della corretta interpretazione
delle declaratorie contrattuali, la Corte di Appello ha preso atto del fatto
che il dipendente, <<dapprima destinato a mansioni specialistiche rivolte
all’utenza medio-alta, che presupponevano l’utilizzo di specifici strumenti di
lavoro ed il coordinamento di persone addette a qualifiche inferiori, è stato
successivamente assegnato, in termini di prevalenza qualitativa, quantitativa e
temporale, a mansioni esecutive di mero intervento e successiva manutenzione su
impianti di utenti privati, prive di qualsivoglia complessità e normalmente
espletate da personale operaio appartenente a qualifiche inferiori…>>.
Inoltre, i giudici di seconda istanza hanno sottolineato che l’I. è inserito
nel livello 4 del CCNL del 2000, con il profilo
di “Tecnico specialista”, che, sulla base del precedente CCNL del 1992 corrispondeva alla figura
impiegatizia del “Lavoratore addetto ai Prodotti Sistemi”,
nell’ambito dell’Organizzazione Territoriale Business, da cui la denominazione
di “Tecnici ex PS” (<<tale è il lavoratore al quale sono
affidati nel settore tecnico dei Prodotti Sistemi interventi richiedenti una
particolare valutazione concettuale”, con “cognizioni teoriche di
rilievo”, con “conoscenze e capacità di utilizzo, adeguate al livello
di appartenenza, del linguaggio uomo-macchina e dei manuali di operatore,
disimpegnando compiti di coordinamento operativo di altro personale anche sotto
il profilo antinfortunistico”: declaratoria del CCNL
1992>>); che, all’esito di tale disamina, il Collegio di merito ha
motivatamente ritenuto delibato che la società datrice, pur riconoscendo al
dipendente ancora il livello 4, ne ha, però, rideterminato in peius le mansioni
e, in sostanza, <<ne ha confuso il profilo professionale, qualificandolo
come “tecnico addetto ad attività di intervento”, figura
professionale operaia e non impiegatizia, che nell’attuale CCNL del 2000 risulta coincidente con la figura
dell'”addetto ad interventi tecnici” di cui al livello 3, appunto
inferiore a quello in cui>> formalmente l’I. risulta inquadrato (il
livello 4, appunto); con ciò, di fatto, dequalificandolo e mortificandone la professionalità;

che il secondo ed il terzo motivo – da trattare
congiuntamente per ragione di connessione e sostanzialmente tesi, entrambi, ad
ottenere un nuovo esame del merito, non consentito in questa sede – sono
inammissibili, in quanto è ius receptum che la valutazione delle risultanze
probatorie o processuali denunciarle in sede di legittimità deve riguardare
specifiche circostanze oggetto della prova, sulle quali il giudice di
legittimità può esercitare il controllo della decisività dei fatti da provare
e, quindi, delle prove stesse (arg. ex Cass. nn. 21486/2011; 17915/2010); nella
specie, si rileva che non sono state riportate neppure compiutamente le
dichiarazioni rese dai testi escussi, che si assumono erroneamente interpretate
dalla Corte di merito; e ciò, in violazione del disposto dell’art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c., con la
conseguenza che questa Corte non è stata messa in grado di apprezzare
compiutamente la veridicità della doglianza svolta (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013); a
fronte di ciò, va, altresì, rilevato che i giudici di seconda istanza hanno
compiutamente ed analiticamente esaminato tutte le risultanze istruttorie (v.,
in particolare, le pagg. 4-10 della sentenza impugnata) poste a fondamento
della decisione oggetto del presente giudizio; che il quarto ed il quinto
motivo – anch’essi connessi – non sono meritevoli di accoglimento; ed invero,
premesso che, nel caso di specie, non può applicarsi il nuovo testo dell’art. 2103 c.c., poiché il demansionamento di cui
si tratta si riferisce ad epoca antecedente all’entrata in vigore delle novità
introdotte alla citata norma dal D.lgs. n. 81 del 2015,
per quanto più specificamente attiene al pregiudizio alla professionalità
derivato al lavoratore a seguito del demansionamento subito, i giudici di
seconda istanza sono pervenuti alla decisione, uniformandosi ai consolidati
arresti giurisprudenziali di questa Corte, alla stregua dei quali, in tema di
demansionamento e di dequalificazione professionale, Il riconoscimento del
diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale e biologico non
ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può
prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche
del pregiudizio lamentato (cfr., ex plurimis, Cass.
n. 5237/2011).

Pacificamente, infatti, va distinto il momento della
violazione degli obblighi contrattuali da quello relativo alla produzione del
danno da inadempimento, essendo quest’ultimo eventuale, in quanto il danno non
è sempre diretta conseguenza della violazione di un dovere. In base ai principi
generali dettati dagli artt. 2697 e 1223 c.c., è necessario individuare, quindi, un
effetto della violazione incidente su di un determinato bene perché possa
configurarsi un danno e possa poi procedersi alla liquidazione (eventualmente
anche In via equitativa) del danno stesso. Al riguardo, il Giudice delle leggi
ha chiarito, già da epoca non recente (v. sent. n. 372/1994), che neppure il
danno biologico è presunto, perché se la prova della lesione costituisce anche
la prova dell’esistenza del danno, occorre tuttavia la prova ulteriore
dell’esistenza dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha
prodotto una perdita di tipo analogo a quello Indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o
privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento
deve essere commisurato. Nello stesso senso, questa Corte ha sottolineato che
le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda
risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione di una condotta
datoriale colpevole, produttiva di danni nella sfera giuridica del lavoratore,
ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e non
patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo il ricorrente mettere la
controparte in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo
comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e
dall’assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo (v., ex multis, Cass.
nn. 5590/2016; 691/2012). Grava, quindi, sul lavoratore l’onere di provare
l’esistenza del danno lamentato, la natura e le caratteristiche del pregiudizio
subito, nonché il relativo nesso causale con l’inadempimento del datore di
lavoro (cfr., tra le altre, Cass. nn. 2886/2014; 11527/2013;
14158/2011; 29832/2008);

che, facendo corretta applicazione dei principi
enunciati, i giudici di merito hanno motivatamente accolto le pretese del
lavoratore, ritenendo correttamente che quest’ultimo, al fine della
liquidazione del danno professionale, non si fosse limitato a fornire la prova
della dequalificazione, ma avesse fornito adeguati elementi delibatori a
sostegno del lamentato pregiudizio professionale che, da quella
dequalificazione, era causalmente derivato (v., in particolare, le pagg. 9-14
della sentenza impugnata);

che il sesto motivo non è fondato, in quanto i
giudici di seconda istanza, con un iter motivazionale del tutto corretto dal
punto di vista logico-giuridico, fondato sull’esito dell’istruttoria espletata,
non hanno ravvisato alcuna violazione degli obblighi sanciti dagli artt. 2104 e 2105 c.c.
a carico del prestatore d’opera, in considerazione del fatto che la condotta
dell’I., non può considerarsi violativa del prescritto obbligo di fedeltà,
poiché non è stata posta in essere con modalità tali da mettere in dubbio la
correttezza dell’adempimento da parte del dipendente (cfr., tra le molte, Cass. n. 25044/2015), il quale, <<non
avendo nella fase transitoria della ristrutturazione elementi necessari, non
poteva attendere all’attività richiestagli>>. E, pertanto, correttamente,
i giudici di secondo grado hanno reputato che <<la connotazione
plurioffensiva della condotta del datore di lavoro>> fosse <<idonea
ad incidere sulla posizione individuale del ricorrente e che, dunque, nella
fattispecie, dovesse essere applicato il principio <<inadimplenti non est
adimplendum>>, ai sensi dell’art. 1460 c.c.(v., ex plurimis, Cass. nn.
4502/2016; 2800/2008);

che per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso
va rigettato;

che le spese del giudizio di legittimità – liquidate
come in dispositivo e da distrarre, ai sensi dell’art.
93 c.p.c., in favore del difensore di C.A. I., avv. F.F., dichiaratosi
antistatario – seguono la soccombenza; che, avuto riguardo all’esito del
giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di
cui all’art. 13, comma 1 – quater,
del d.P.R. n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.200,00,
di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed
accessori di legge, da distrarsi.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13,
ove dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 dicembre 2020, n. 29114
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