Il lavoratore extracomunitario, che svolge la sua prestazione in Italia, ha diritto agli assegni familiari anche per i figli minori residenti nel Paese di origine.

Nota a CGUE 25 novembre 2020, C-302/19

Francesco Belmonte

La normativa italiana, che nega al lavoratore extracomunitario il diritto agli assegni familiari per i figli che risiedono nel Paese d’origine, non risulta conforme al diritto dell’Unione, in quanto in contrasto con la Direttiva 2011/98/UE del 13 dicembre 2011, concernente il rilascio di permessi che consentono ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro  dell’Unione, unitamente ad un insieme comune di diritti riservati a tali lavoratori extracomunitari.

In tale linea si è pronunciata la Corte di Giustizia UE (25 novembre 2020, C-302/19) in relazione ad una domanda di pronuncia pregiudiziale sollevata dalla Corte di Cassazione (ord. 5 febbraio 2019), circa la conformità della regolamentazione italiana in materia di assegni familiari con l’art. 12, par. 1, lett. e), Dir. 2011/98/UE.

Tale domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra l’Inps ed un cittadino dello Sri Lanka – titolare di un permesso unico ai sensi dell’art. 2, lett. c), Dir. cit. -, che lavora in Italia (dal 9 dicembre 2011), in merito al rigetto di una domanda di assegno familiare per i periodi durante i quali la moglie e i figli hanno risieduto nel loro Paese di origine (da gennaio a giugno 2014 e da luglio 2014 a giugno 2016).

L’Ente previdenziale ha negato la corresponsione del trattamento previdenziale in parola, in ragione di quanto sancito dall’art. 2, co. 6-bis, L. 13 maggio 1988, n. 153, di conversione del D.L. 13 marzo 1988, n. 69, che ha istituito l’assegno per il nucleo familiare, di importo commisurato al numero di figli minori di 18 anni e al reddito del medesimo nucleo familiare.

In particolare, l’art. 2, co. 6, L. cit., sancisce che: “Il nucleo familiare è composto dai coniugi, con esclusione del coniuge legalmente ed effettivamente separato, e dai figli ed equiparati, … di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero, senza limite di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro…”. Per il successivo comma 6-bis, non fanno parte del nucleo familiare “il coniuge ed i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica (n.d.r. Italiana), salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia.

In merito, la Cassazione ritiene che la soluzione della controversia principale dipende dall’interpretazione dell’art. 12, par. 1, lett. e), Dir. cit. (recepita nell’ordinamento italiano con il D.LGS. 4 marzo 2014, n. 40) e dalla questione se tale disposizione implichi che i familiari del cittadino di Paese terzo – titolare di un permesso unico e del diritto all’erogazione dell’assegno per il nucleo familiare, ex art. 2 L. n. 153/88 – siano inclusi nel novero dei familiari beneficiari di tale prestazione, pur risiedendo al di fuori dal territorio italiano.

I Giudici di Lussemburgo, investiti della questione, affermano la difformità della regolamentazione italiana alla citata Direttiva, in ragione delle seguenti argomentazioni.

“Il diritto dell’Unione non limita la facoltà degli Stati membri di organizzare i loro regimi di sicurezza sociale. In mancanza di armonizzazione a livello di Unione, spetta a ciascuno Stato membro stabilire le condizioni per la concessione delle prestazioni di sicurezza sociale nonché l’importo di tali prestazioni e il periodo per il quale sono concesse” (considerando 26, Dir. cit.).

L’art.12, par. 1, lett. e), in combinato disposto con l’art. 3, par.1, lett. c) della medesima Dir., impone agli Stati membri di far beneficiare della parità di trattamento, per quanto concerne i settori della sicurezza sociale (definiti nel Regolamento n. 883/2004), “i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale.”

“Ebbene, è questo il caso di un cittadino di paese terzo, titolare di un permesso unico, ai sensi dell’art. 2, lett. c), della Direttiva 2001/98, dato che, in forza di detta disposizione, il permesso unico consente a un tale cittadino di soggiornare regolarmente a fini lavorativi nel territorio dello Stato membro che l’ha rilasciato” (V., in tal senso, CGUE 21 giugno 2017, C-449/16, punto 27).

Tuttavia, ai sensi dell’art. 12, par. 2, lett. b), co. 1, Dir. cit., gli Stati membri possono limitare i diritti concernenti la sicurezza sociale per quei lavoratori di Paesi terzi, che “svolgono o hanno svolto un’attività lavorativa per un periodo minimo di sei mesi e sono registrati come disoccupati”. Inoltre, gli Stati membri possono decidere che l’art. 12, par. 1, lett. e), in relazione ai sussidi familiari, non si applichi ai cittadini extracomunitari “che sono stati autorizzati a lavorare nel territorio di uno Stato membro per un periodo non superiore a sei mesi, ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi a soggiornarvi a scopo di studio o ai cittadini di paesi terzi cui è consentito lavorare in forza di un visto” (art. 12, par. 2, lett. b), co. 2, Dir. cit.).

Come si vede, la Direttiva dispone: “in favore di taluni cittadini di paesi terzi, un diritto alla parità di trattamento, che costituisce la regola generale, ed elenca le deroghe a tale diritto che gli Stati membri hanno la facoltà di istituire, da interpretare invece restrittivamente.”

Simili eccezioni possono dunque essere invocate solo nell’evenienza in cui “gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi delle stesse” (CGUE 21 giugno 2017, cit., punto 29).

In merito, non risulta da alcuna delle deroghe citate “una possibilità per gli Stati membri di escludere dal diritto alla parità di trattamento il lavoratore titolare di un permesso unico i cui familiari risiedono non già nel territorio dello Stato membro interessato, bensì in un paese terzo.”  Al contrario, dalla chiara formulazione della norma, consegue che “un tale lavoratore deve beneficiare del diritto alla parità di trattamento.”

“Risulta quindi che il legislatore dell’Unione non ha inteso escludere il titolare di un permesso unico i cui familiari non risiedono nel territorio dello Stato membro interessato dal diritto alla parità di trattamento previsto dalla direttiva 2011/98 e che ha precisato i casi in cui tale diritto può essere limitato” dagli Stati membri.

Ne deriva che, contrariamente a quanto sostenuto dall’Inps e dalla normativa nazionale, “escludere dal diritto alla parità di trattamento il titolare di un permesso unico, qualora i suoi familiari non risiedano, durante un periodo che può essere temporaneo, come dimostrano i fatti della controversia principale, nel territorio dello Stato membro interessato, non può essere considerato conforme” al diritto dell’Unione.

Per tali ragioni, la Corte dichiara che: l’art. 12, par. 1, lett. e), Dir. cit., “deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa di uno Stato membro in forza della quale, ai fini della determinazione dei diritti a una prestazione di sicurezza sociale, non vengono presi in considerazione i familiari del titolare di un permesso unico, ai sensi dell’art. 2, lett. c), della medesima direttiva, che risiedano non già nel territorio di tale Stato membro, bensì in un paese terzo, mentre vengono presi in considerazione i familiari del cittadino di detto Stato membro residenti in un paese terzo.”

Diritto agli assegni familiari per i lavoratori extracomunitari
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