La sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per un like su Facebook è legittima.
Nota a T.A.R. Lombardia, sez. III, 2 dicembre 2020, n. 2365
Flavia Durval e Giuseppe Rossini
La sanzione disciplinare della sospensione dal servizio (ex art. 5, D.LGS. n. 449/1992), comminata ad un Vice Commissario ordinario appartenente al Corpo di Polizia penitenziaria, per aver posto un commento “mi piace” (like), pubblicato in un sito Facebook, ad una notizia relativa al suicidio di un detenuto avvenuto in una casa di correzione, è legittima.
Lo afferma il T.A.R. Lombardia (sez. III, 2 dicembre 2020, n. 2365) che ha ritenuto illecita l’apposizione del like (“mi piace”) quale “inequivoca manifestazione di approvazione o compiacimento per l’evento infausto accaduto, non potendosi ragionevolmente assumere che l’inserimento del commento “mi piace” costituisca soltanto una manifestazione di interesse per la notizia e non necessariamente di approvazione o compiacimento” (nel senso che l’opzione “mi piace” ha una portata amplificatrice e di condivisione del contenuto veicolato sui social network, v. Cass. pen., sez. V, n. 55418/2017).
Il Tribunale ha precisato altresì che il commento era da riferire all’evento infausto verificatosi e teso ad esprimere approvazione per quanto avvenuto, anche se il vice commissario aveva tentato di sostenere che la sua approvazione non era indirizzata al suicidio del detenuto bensì al pronto intervento della Polizia penitenziaria.
Nello specifico, la condotta del ricorrente è stata ritenuta:
– contrastante con il giuramento ed i doveri degli appartenenti al predetto Corpo, i quali, anche “fuori dal servizio sono tenuti ad osservare una condotta conforme alla dignità delle proprie funzioni, come richiesto anche dall’art. 54 della Costituzione a tutti coloro che esercitano funzioni pubbliche”;
– contraria al rispetto della dignità della persona umana e di quella dei detenuti;
– una manifestazione di disprezzo della vita, dell’incolumità e della salute delle persone detenute, in violazione dei doveri degli appartenenti alla Polizia penitenziaria;
– una negazione del ruolo attivo nel percorso di rieducazione proprio di un funzionario del Corpo di Polizia penitenziaria;
– un comportamento particolarmente disdicevole, poiché il ricorrente, che rivestiva un ruolo apicale all’interno dell’ordinamento gerarchico del Corpo di Polizia penitenziaria (sul rilievo della qualifica rivestita, cfr. art. 11, D.LGS. n. 449/1992), con la sua condotta “ha disatteso fortemente i doveri connessi al proprio status nonché quelli attinenti al giuramento prestato, al senso di responsabilità e al contegno che ogni appartenente al Corpo di Polizia penitenziaria deve tenere in qualsiasi circostanza”.
Il Collegio ha inoltre chiarito che le conclusioni raggiunte dall’Amministrazione sono ragionevoli e “coerenti con la circostanza che la valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati al pubblico dipendente, in relazione all’applicazione di una sanzione disciplinare, costituisce espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità, salvo che per violazione delle norme procedurali o in alcune ipotesi limite di eccesso di potere, sotto il profilo della abnormità e del travisamento dei fatti, nella specie non sussistenti” (v. Cons. Stato, sez. IV, n. 1580/2020; n 5473/2018 e n. 381/2020).