La Cassazione ripercorre i tratti caratterizzanti della prestazione di lavoro giornalistico.
Nota a Cass. (ord.) 23 novembre 2020, n. 26596
Francesca Albiniano
Il rapporto di lavoro dei giornalisti non è definito né dalla legge professionale 3 febbraio 1963, n. 69, né in sede di contrattazione collettiva. Con la conseguenza che, nel corso degli anni, la giurisprudenza di legittimità ha elaborato i fondamenti dell’attività giornalistica sul presupposto che “il legislatore si sarebbe consapevolmente astenuto dal definire l’attività giornalistica, non già per cristallizzare la sua concezione tradizionale ma proprio per consentire di applicare il sistema di tutela normativa a qualsiasi forma qualificata del pensiero svolgentesi non solo attraverso lo scritto (stampa) o la parola (servizi giornalistici della radio o della televisione) ma anche attraverso immagini idonee ad assolvere, in via di completamento e di sostituzione degli altri mezzi espressivi, la medesima funzione informativa” (v. Cass. n. 29411/2018 e n. 13814/2018).
Per tale ragione, i giudici, privilegiando una nozione elastica di giornalista adattabile alla rapida evoluzione della professione e dell’ordinaria concezione del giornalismo come del modo di intendere, realizzare e leggere un giornale, hanno elaborato una serie di criteri di comune esperienza stabilendo che: a) l’attività giornalistica è caratterizzata dalla creatività del lavoratore che raccogliendo, commentando ed elaborando notizie finalizzate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, presta un’opera tipicamente (anche se non esclusivamente) intellettuale; b) il giornalista rappresenta dunque un “mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso attraverso un messaggio (scritto, verbale, grafico o visivo), con il compito di acquisire la conoscenza dell’evento, valutarne la rilevanza in relazione ai destinatari e confezionare il messaggio con apporto soggettivo e creativo” (v. Cass. n. 17723/2011 e Cass. n. 23625/2010). In particolare, le Sezioni Unite della Cassazione (n. 1867/2020, annotata in q. sito con nota di S. GIOIA) hanno delineato la professione di giornalista chiarendo che essa si estrinseca in un “lavoro intellettuale diretto alla raccolta, commento ed elaborazione di notizie attraverso gli organi di informazione, in cui il giornalista si pone quale mediatore intellettuale tra il fatto e la sua diffusione”.
Questi, i principi ribaditi dalla Corte di Cassazione (ord. 23 novembre 2020, n. 26596, conforme ad App. Roma n. 1694/2017), la quale, relativamente ai criteri per la concreta individuazione dell’attività giornalistica, precisa che:
– tale attività deve consistere. 1) nella raccolta, selezione, elaborazione, presentazione e commento delle notizie, con le caratteristiche qualitative dell’autonomia e della creatività; 2) nonché nella informazione e critica su specifici avvenimenti, “destinata alla generalità dei cittadini ovvero ad un numero indeterminato di essi, attraverso giornali, agenzie di stampa, emittenti radiotelevisive e, più in generale, ogni strumento idoneo ad assicurare la diffusione dell’informazione”;
– per quanto concerne il mezzo espressivo utilizzato, esso può concretizzarsi in uno scritto, ovvero nella parola, nella grafica, e nell’immagine;
– con riguardo al profilo temporale l’attività giornalistica è caratterizzata: a) dalla continuità o periodicità del servizio nel cui ambito il lavoro è utilizzato; b) dall’attualità delle notizie e la tempestività dell’informazione (v. Cass. n. 1853/2016 e Cass. n. 17723/2011).
Nella fattispecie, la Corte territoriale aveva escluso che il ricorrente avesse svolto una attività “di ricerca e di elaborazione delle notizie” caratterizzata da un reale “apporto creativo” ed aveva ritenuto che la stessa fosse compatibile con quella (pur connotata da contenuti di “ideazione e proposta”, secondo la declaratoria contrattuale) di “programmista-regista”.