Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 gennaio 2021, n. 2848

Omessa fornitura degli opportuni presidi antinfortunistici,
Responsabilità del legale rappresentante, Giudizio di prevedibilità
dell’evento, Carattere esorbitante della condotta della persona offesa,
Evento comunque da ricondurre alla insufficienza di quelle cautele che, se
adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio

 

Ritenuto in fatto

 

1. La Corte di appello di Bologna ha confermato la
sentenza pronunciata dal Tribunale di Modena nei confronti di P.P. e S.E.
ritenuti responsabili di avere, nelle rispettive qualità di legale
rappresentante di A. srl e di direttore dello stabilimento di Finale Emilia,
omesso di munire degli opportuni presidi antinfortunistici, atti ad ostacolarne
l’accesso all’interno con gli organi in movimento, una macchina pellettatrice,
non impedendo così che il lavoratore E.H.H., intento ad operazioni di pulitura,
dopo aver aperto il coperchio della macchina, vi infilasse una mano mentre la
pala rotante era ancora in moto per inerzia, riportandone un trauma da
schiacciamento con subamputazione di quattro dita della mano destra ed
indebolimento permanente dell’organo della prensione. La società A. è stata
ritenuta responsabile dell’illecito amministrativo ascrittole (art. 25-septies, comma 3, d. Igs. 231/01).

2. Il convincimento dei giudici di merito traeva
origine dalle testimonianze della persona offesa, costituitasi parte civile, la
quale aveva affermato di essere intenta ad un’operazione di pulizia
dell’interno della macchina, perché il prodotto stava uscendo “polveroso e
non ben compresso” e di aver inserito la mano dopo avere spento al
macchina, confidando che gli organi interni si fossero fermati; del collega
della persona offesa, E.H.M.; del tecnico della Ausl A. che aveva riscontrato
come tra lo spegnimento della macchina e l’arresto dei meccanismi interni
intercorresse un tempo compreso tra 1 e 3 minuti, nel difetto di strumenti che
impedissero l’apertura dell’impianto mentre i meccanismi interni erano ancora
in movimento.

4. Avverso la prefata sentenza di appello gli
imputati e A. srl, a mezzo dei rispettivi difensori, propongono, con un unico
atto, ricorso per cassazione, fondandolo su sei motivi con cui deducono:

4.1. Violazione degli artt.
76, 82 e 620
cod. proc. pen., in relazione alla revoca della costituzione della parte
civile, avvenuta successivamente alla sentenza di primo grado, con atto del
09/05/2019, sulla quale la Corte territoriale nulla ha  osservato, risultandone in conseguenza
erroneamente confermate le statuizioni civili.

4.2. Violazione degli artt.
40, 41 e 42
cod. pen. e dell’art. 70,
comma 2 alinea V, parte 1, punto 6, d.lgs. 81/08, nonché vizio di
motivazione per avere, la sentenza impugnata, formulato un giudizio di
prevedibilità del tutto astratto, omettendo altresì di verificare l’evitabilità
dell’evento. Così come non avrebbe verificato il carattere esorbitante della
condotta della persona offesa, essendosi limitata ad un’analisi meramente
obiettiva della dinamica fattuale senza riferirsi a quanto in proposito
prescritto dal DVR. L’evento, così come peraltro accertato dalla Corte  di appello, sarebbe riconducibile ad una
condotta di volontaria esposizione al pericolo da parte di un lavoratore
fornito di tutte le conoscenze necessarie per percepirlo in quanto tale. La
decisione ricorsa avrebbe dovuto spiegare perché l’assenza nel passato di
eventi analoghi debba considerarsi irrilevante ai fini di escludere la
prevedibilità in concreto dell’evento e perché possa dirsi ex ante prevedibile
la decisione volontaria e consapevole di un lavoratore esperto e formato, qual
è l’infortunato, di inserire la mano in una macchina che non aveva ancora
esaurito la forza di rotazione per mera inerzia. La Corte del merito non
avrebbe risposto alla specifica doglianza in ordine al rilievo che, al fine del
giudizio di prevedibilità, rivestono gli esiti della valutazione del rischio
avente proprio ad oggetto l’impiego della macchina pellettatrice ed i conseguenti
dettami prevenzionistici formalizzati nel relativo documento. Risulterebbe,
infatti, documentalmente provato che il Paci, nella sua veste di datore di
lavoro, abbia predisposto un analitico documento di valutazione del rischio e
un dettagliato piano di sicurezza. Le cautele ivi previste sarebbero poi
completate nel protocollo di prevenzione specificamente dettato per la
minimizzazione dei rischi lavorativi connessi agli “impianti per la
produzione di foraggi disidratati”. Quanto al giudizio di evitabilità
dell’evento, risulterebbe omesso l’accertamento in merito all’effettività
salvifica del comportamento alternativo lecito. Il giudice di appello si
sarebbe limitato ad accertare che la macchina in questione era priva di un
temporizzatore atto a consentirne l’apertura solo dopo un tempo compreso tra 1
e 3 minuti successivo allo spegnimento (tempo reputato necessario alla
cessazione del moto inerziale degli organi lavoratori interni). Nulla però
sarebbe detto in merito all’effettiva idoneità cautelare di tale temporizzatore
qualora installato. Sul punto, la sentenza impugnata non avrebbe tenuto in
adeguato conto la consulenza tecnica della difesa.

4.3. Violazione dell’art.
43 cod. pen. e dell’art. 70,
comma 2 alinea V, parte 1, punto 6, d.lgs. 81/08, nonché mancanza,
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Travisamento della
prova e travisamento del fatto con 
riguardo all’avvenuta segregazione degli organi in movimento della
macchina, laddove, in particolare, la Corte territoriale ha affermato che la
pellettatrice non era segregata. È la stessa sentenza impugnata a ricordare che
il sistema di chiusura del portellone, che racchiudeva gli organi lavoratori, doveva
essere in taluni casi aperto; che la macchina era dotata « di un sistema di
chiusura che aveva sia un microinterruttore che nel momento in cui fosse stato
aperto staccava la corrente» e «di un sistema di chiusura del portellone, che
era un sistema con una vite che si svitava a mano, nel giro di pochi secondi».
Quanto basta per ritenere contraddittorio, se non infondato, l’assunto secondo
cui il datore di lavoro avrebbe consentito che il lavoratore svolgesse la sua
mansione con una macchina insicura. Con riferimento agli obblighi cautelari
“elastici” – quale quello contemplato dall’art. 70, comma 2 alinea V, parte 1,
punto 6, d.lgs. 81/08 – gli obblighi, i protocolli ed ogni altro strumento
di “auto-organizzazione” della minimizzazione dei rischi concorrono,
a pieno titolo, ad integrare l’obbligo cautelare di fronte a pericoli non
neutralizzabili per il tramite di sole misure tecniche. La mancata
considerazione di questo profilo si convertirebbe, secondo la difesa, in
un’erronea interpretazione della legge penale.

4.4. Erronea interpretazione della norma penale in
relazione all’efficacia esimente del comportamento tenuto dalla persona offesa.
Come chiarito dalla stessa e confermato dal collega, l’infortunato intendeva
effettuare una “regolazione dei rulli”: in relazione a questa
operazione dovrà essere giudicata l’abnormità o l’esuberanza della condotta
tenuta, non potendosi prescindere da un preliminare accertamento volto a
stabilire se l’operazione di pulizia della trafila fosse o meno un intervento
necessario allo svolgimento dell’operazione richiamata: verifica che, nel caso
di specie, è del tutto mancata.

4.5. Erronea interpretazione dell’art. 5 d. Igs. 231/01 con
riguardo al requisito dell’interesse in capo alla società. Il solo parametro
per valutare la sussistenza dell’interesse richiesto dalla norma citata è dato
dal risibile costo (euro 66,85), resosi necessario per adeguare il macchinario
alle prescrizioni formulate dagli UPG: fondandosi, quindi, la responsabilità
dell’ente su un risparmio bagatellare la sentenza impugnata fornisce
un’interpretazione dell’art. 5
d.lgs. 231/01 del tutto scollegata dalle esigenze di garanzia sottese
all’anzidetto decreto.

4.6. Erronea interpretazione della legge penale in
relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche per
non aver tenuto in considerazione l’avvenuto risarcimento integrale del danno,
nonché erronea interpretazione dell’art. 133 cod. pen. Quanto al precedente
specifico di cui sarebbe gravato il P., esso risale al 1997; il relativo reato,
peraltro, è stato dichiarato estinto con provvedimento del Tribunale di Pesaro
del 30/08/2011.

 

Considerato in diritto

 

1. In via preliminare, il Collegio rileva la
prescrizione del reatoi intervenuta il 24/7/2019, successivamente alla
pronuncia della sentenza di appello. Invero, il fatto è stato commesso in data
24/01/2012, con la conseguenza che, trattandosi di delitto, il termine massimo
di prescrizione deve ritenersi stabilito in sette anni e sei mesi, in forza del
combinato disposto degli artt. 157, 160, comma 3, e 161,
comma 2, cod. pen.

Non ricorrono le condizioni per una pronuncia
assolutoria di merito, ai sensi dell’art. 129,
comma 2, cod. proc. pen., in considerazione delle congrue, corrette in
diritto e non illogiche valutazioni rese dalla Corte di appello nella sentenza
impugnata: non emergendo, dunque, all’evidenza circostanze tali da imporre,
quale mera “constatazione” cioè presa d’atto, la necessità di
assoluzione (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv.244274), discende
la pronunzia di annullamento senza rinvio per intervenuta prescrizione.

2. Occorre, tuttavia, procedere ugualmente alla
disamina dei motivi prospettati nei ricorsi, giacché e la dichiarazione di
prescrizione del reato presupposto non incide sulla perseguibilità
dell’illecito amministrativo già contestato alla società A.. L’art. 60 d.Igs. 8 giugno 2001, n.231
è, infatti, chiaro nel suo contenuto normativo e comporta che l’estinzione per
prescrizione del reato presupposto impedisca unicamente all’accusa di procedere
alla contestazione dell’illecito amministrativo ma non impedisca di portare
avanti il procedimento già incardinato. Trovano, peraltro, applicazione
all’illecito amministrativo le cause interruttive della prescrizione previste
dal codice civile e, pertanto, la prescrizione non corre fino al passaggio in
giudicato della sentenza che definisce il procedimento (artt. 2943- 2945 cod.
civ.). Peraltro, la condanna per la responsabilità amministrativa, ancorché
autonoma processualmente dalla condanna per la responsabilità penale,
presuppone la commissione di un reato, perfetto in tutti i suoi elementi. Le
ipotesi previste dall’art.8
d.lgs. n.231/2001, che esprimono il principio di autonomia delle condanne,
consentono, infatti, di affermare la responsabilità dell’ente nei casi nei
quali l’autore del reato non sia stato identificato o non sia imputabile,
ovvero il reato si sia estinto per una causa diversa dall’amnistia; dal tenore
della previsione si desume, pertanto, che il giudizio di responsabilità
amministrativa non possa prescindere dall’accertamento di tutti gli elementi
costitutivi del reato (Sez. 4, n. 31641 del 04/05/2018, Società T.Group S.r.l.
e altro, Rv. 273085; Sez. 4, n. 22468 del 18/04/2018, Eurocos S.n.c., Rv.
273399).

3. Ciò detto, in accoglimento del primo motivo dei
ricorsi, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio con
riferimento alle statuizioni civili che vanno revocate, in ragione
dell’intervenuta revoca della costituzione di parte civile in epoca successiva
alla sentenza di primo grado e della quale, in data 07/05/2019, la stessa Corte
territoriale dava atto a verbale.

Prima di procedere alla valutazione dei restanti
motivi, occorre ricordare che la struttura motivazionale della sentenza di
appello si salda con quella di primo grado per formare un unico complessivo
corpo argomentativo, quando le due decisioni di merito, come nel caso in esame,
concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a
fondamento delle rispettive decisioni, (ex multis, Sez. 2 , n. 37295 del
12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv.
257595). Tale integrazione tra le due motivazioni si verifica allorché i
giudici di secondo grado abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante
con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti
riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della
decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano
riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già
esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado (Sez. 3, n.
10163 del 12/3/2002, Lombardozzi, in motivazione).

Va altresì ribadito che compito del giudice di
legittimità, nel sindacato sui vizi della motivazione, non è quello di
sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ma
quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a
loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi,
dando completa e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano
esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle
argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a
preferenza di altre.

4. Nel caso di specie, entrambe le sentenze di
merito hanno fornito motivazioni corrette in diritto, esaustive ed immuni dalle
sollevate censure. Esse hanno, in primo luogo, motivatamente disatteso
l’assunto difensivo secondo il quale l’operazione per la cui esecuzione la
persona offesa aveva inserito la mano destra nella macchina riguardava la mera
regolazione dei rulli per la quale non era necessario aprire la macchina. Dalle
dichiarazioni dell’infortunato era, infatti, risultato che l’intervento sulla
macchina pellettatrice trovava ragione nella necessità di pulirla, perché il
prodotto era polveroso e non ben compresso e si rendeva necessario liberare la
trafila dal prodotto residuo, per poi avvicinarvi i rulli. Il giudice di
appello ha affermato che la ricostruzione della dinamica del sinistro
effettuata dalla persona offesa, oltre ad essere stata riscontrata dal collega
di lavoro, E.H.M., «appare intrinsecamente logica e lineare, non essendo
altrimenti logicamente giustificabile l’inserimento della mano all’interno del
meccanismo, oltretutto da parte di un lavoratore esperto, da anni deputato a
tale mansione».

Sul punto, il primo giudice evidenzia che,
diversamente dall’operazione di regolazione dei rulli, quella di pulitura,
operazione necessaria allorché si verifichino imperfezioni nella produzione,
richiedeva inevitabilmente l’introduzione delle mani del lavoratore all’interno
della macchina la quale è risultata priva dei presidi di sicurezza che
avrebbero consentito di procedere 
all’operazione con gli organi lavoratori fermi. In particolare,
difettava, a detta dei giudici di merito, l’installazione di un temporizzatore.
Sull’effettiva idoneità cautelare di tale temporizzatore, la pronuncia di primo
grado ricorda che, in adempimento alla prescrizione, rivolta dalla Ausl alla
società, di munire la macchina di un temporizzatore, A. srl ebbe ad installarlo
su altre due macchine identiche, essendo stata dismessa quella di cui
all’odierno procedimento perché vetusta.

Si è inoltre evidenziato che la mancanza, da circa
un mese, di uno dei due dadi (quello più lontano dal microinterruttore) che
chiudevano il portellone, non ripristinato in quanto non necessario per il
funzionamento della macchina, rendeva agevole l’introduzione delle mani prima
che la macchina fosse ferma, atteso che dallo spegnimento della macchina
passava un tempo variabile (a seconda del tipo di prodotto) da uno a tre minuti
prima che gli organi lavoratori cessassero di ruotare. È stata, pertanto,
mantenuta in azienda, affermano le sentenze di merito, una macchina, che
consentiva ai lavoratori di introdurre le mani mentre gli organi lavoratori
erano ancora in moto.

Il caso di specie, peraltro, sostengono i giudici di
merito, non ha rappresentato l’unica occasione in cui è stata effettuata
l’anzidetta operazione di pulizia, in carenza di sicurezza, come si desume dall’affermazione
della persona offesa secondo cui poteva accadere, anche in presenza dei due
dadi che, all’apertura del portellone, la macchina fosse ancora in movimento.

4.1. Del tutto infondata appare anche la questione
del preteso comportamento abnorme del lavoratore. Va ricordato come, secondo il
dictum di questa Corte di legittimità, il datore di lavoro, e, in generale, il
destinatario dell’obbligo di adottare  le
misure di prevenzione, è esonerato da responsabilità solo quando il
comportamento del dipendente sia abnorme, dovendo definirsi tale il
comportamento imprudente del lavoratore che sia stato posto in essere da
quest’ultimo del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni
affidategli – e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di
lavoro – o rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in
qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e,
quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nell’esecuzione del
lavoro.

Ora, le sentenze di merito hanno ben evidenziato
come la condotta posta in essere dall’infortunato non possedesse affatto queste
caratteristiche, collocandosi, invece, nell’ambito dell’attività che l’operaio
doveva esplicare, e, dunque, costituendo un comportamento pienamente
prevedibile, attesa la tendenza dei lavoratori ad accelerare i tempi del loro
lavoro nonché la sottovalutazione dei rischi e delle difficoltà di quelle
operazioni che si è soliti compiere in modo ripetitivo.

La Corte di cassazione, peraltro, ha da tempo
chiarito che nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del
datore di lavoro e di coloro che rivestono una posizione di garanzia rispetto
alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, può essere attribuita al
comportamento negligente o imprudente del medesimo lavoratore infortunato,
quando l’evento sia da ricondurre comunque alla insufficienza di quelle cautele
che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio derivante dal
richiamato comportamento imprudente. Sul punto, si è pure precisato che le
norme antinfortunistiche sono destinate a garantire la sicurezza delle
condizioni di lavoro, anche in considerazione della disattenzione con la quale
gli stessi lavoratori effettuano le prestazioni.

Deve perciò rilevarsi che le considerazioni svolte
in sede di merito si collocano appieno nell’alveo dell’orientamento espresso
ripetutamente dalla Corte di legittimità, in riferimento alla valenza esimente
da assegnare alla condotta colposa posta in essere dal lavoratore, rispetto al
soggetto che versa in posizione di garanzia. Questa Suprema Corte, infatti, ha
affermato che, nel campo della sicurezza del lavoro, gli obblighi di vigilanza
che gravano sui garanti risultano funzionali anche rispetto alla possibilità
che il lavoratore si dimostri imprudente o negligente verso la propria
incolumità; e che può escludersi l’esistenza del rapporto di causalità
unicamente nei casi in cui sia provata l’abnormità del comportamento del
lavoratore infortunato e sia provato che proprio questa abnormità abbia dato
causa all’evento. La giurisprudenza di legittimità ha così, più volte,
sottolineato che l’eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare
alcuna efficacia esimente per i soggetti aventi l’obbligo di sicurezza che si
siano comunque resi responsabili della violazione di prescrizioni in materia
antinfortunistica; e ciò con specifico riferimento alle ipotesi in cui il
comportamento del lavoratore – come è avvenuto nel caso di specie – rientri
pienamente nelle attribuzioni specificamente attribuitegli (Sez. 4, n. 10121
del 23/01/2007, Masi e altro, Rv. 236109).

4.2. Parimenti infondata la doglianza in ordine al
fatto che i giudici della cognizione avrebbero appuntato la propria attenzione
sulla dinamica meramente fattuale dell’infortunio senza tener conto di quanto
in proposito prescritto dal DVR. Evidenzia il primo giudice sul punto che «non
era sufficiente l’individuazione del rischio di schiacciamento e di
trascinamento nei macchinari», individuato nell’anzidetto documento, se poi ad
esso non aveva fatto seguito l’adozione delle misure necessarie per
neutralizzare il ravvisato rischio, consistenti nell’installazione di semplici
dispositivi di sicurezza sulla macchina e nella rigorosa vigilanza da parte
degli addetti.

Deve pertanto conclusivamente rilevarsi sul punto
che le conformi valutazioni effettuate dai giudici di merito, in ordine alla
riferibilità causale dell’evento lesivo agli imputati, sono del tutto immuni
dalle sollevate censure.

4.3. Va, altresì, disatteso il motivo secondo cui
non si sarebbe tenuta in adeguato conto la consulenza tecnica della difesa,
atteso che, sullo specifico punto, la pronuncia di primo grado ha reputato
destituite di fondamento le argomentazioni del consulente della difesa, ing.
A.S., per non avere questi esaminato la macchina su cui si è verificato
l’infortunio, né alcuna delle altre, identiche, macchine presenti nello
stabilimento; né mai egli si è recato nello stabilimento di Finale Emilia.
Sostiene il Tribunale che la mancata corrispondenza tra la macchina visionata
dal consulente e quella oggetto del processo non ha consentito di ritenere
pertinenti le sue osservazioni. Evidenzia, in secondo luogo, che le
argomentazioni del consulente muovevano dal presupposto che  l’operazione che il lavoratore doveva
svolgere fosse quella di regolazione dei rulli, la quale non richiedeva
l’introduzione della mano, trascurando, invece, di considerare che il sinistro
si era verificato nell’operazione prodromica di pulizia della trafila.

5. Manifestamente infondato è poi il terzo motivo.
Non sussiste alcun vizio di motivazione né alcun travisamento della prova. Il
funzionario della Ausl di Modena, A., aveva sì riferito, come si legge in
motivazione, che la macchina pellettatrice era dotata di un sistema di chiusura
dotato di un microinterruttore che, nel momento in cui si fosse aperta,
staccava la corrente, ma aveva più volte precisato che il problema stava
notevole inerzia della massa che continuava a ruotare per un tempo che variava
da uno a tre minuti, mentre il sistema di chiusura del portellone , con una
vite e un dado svitabile a mano, si poteva aprire nel giro di venti secondi.

6. Il motivo sulle attenuanti generiche (sesto
motivo) resta assorbito dalla decisione di prescrizione del reato.

7. Il quinto motivo è infondato.

Con riguardo all’imputazione oggettiva della
responsabilità all’ente, l’art. 5
d.lgs. n. 231/2001 ne individua i criteri nel fatto che i reati presupposti
(in questo caso, un reato colposo di evento) siano commessi nell’interesse o
nel vantaggio, anche non esclusivi, dell’ente, da persone che rivestano
funzioni di rappresentanza, amministrazione, direzione o gestione (anche di
fatto) oppure da dipendenti sottoposti alla direzione o vigilanza di uno di
tali soggetti, non rispondendo l’ente qualora le persone predette abbiano agito
nell’interesse esclusivo proprio o di terzi. Le Sezioni Unite (sentenza n.
38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv 261112-261113-261114-261115),
soffermatesi sulla natura del nuovo sistema sanzionatorio e sui profili di
legittimità costituzionale dello stesso, hanno affermato, richiamandosi anche
alla Relazione governativa al decreto legislativo, che i due criteri
d’imputazione dell’interesse e del vantaggio si pongono in rapporto di
alternatività, come confermato dalla congiunzione disgiuntiva “o”
presente nel testo della disposizione, dovendosi, tali concetti di interesse e
vantaggio, nei reati colposi d’evento, intendersi riferiti alla condotta e non
all’esito antigiuridico, essendo questa l’unica interpretazione che non svuoti
di contenuto la previsione normativa e che risponda alla ratio dell’inserimento
dei delitti di omicidio colposo e lesioni colpose nell’elenco dei reati
fondanti la responsabilità dell’ente, in ottemperanza ai principi contenuti
nella legge delega: così è indubbio che la morte o le lesioni riportate da un
suo dipendente in conseguenza di violazioni di normative antinfortunistiche non
rispondano all’interesse della società o non procurino alla stessa un
vantaggio, palesandosi invece indubbio che un vantaggio per l’ente possa essere
ravvisato, ad esempio, nel risparmio di costi o di tempo che lo stesso avrebbe
dovuto sostenere per adeguarsi alla normativa prevenzionistica, la cui
violazione ha determinato l’infortunio sul lavoro. I termini
“interesse” e “vantaggio”, dunque, esprimono concetti
giuridicamente diversi e possono essere alternativi. Questa alternatività
emerge – oltre che, come si è detto sopra, dall’uso della congiunzione
“o” da parte del legislatore nella formulazione della norma in
questione – da un punto di vista sistematico, dalla norma di cui all’art. 12,
comma 1 lett. a), che prevede una riduzione della sanzione pecuniaria nel caso
in cui l’autore abbia commesso il reato nell’interesse proprio o di terzi e
l’ente non ne abbia ricavato vantaggio o ne abbia ricavato un vantaggio minimo,
il che implica astrattamente che il reato possa essere commesso nell’interesse
dell’ente, ma non procurargli in concreto 
alcun vantaggio. Ne consegue che (Sez. 2, sent. n. 3615 del 20/12/2005,
dep. 2006, Rv. 232957) il concetto di “interesse” attiene ad una
valutazione antecedente la commissione del reato presupposto, mentre il
concetto di “vantaggio” implica l’effettivo conseguimento dello
stesso a seguito della consumazione del reato (afferendo, pertanto, ad una
valutazione ex post).

Parimenti, costituisce principio ormai consolidato
quello secondo cui, in materia di responsabilità amministrativa con riguardo
all’art. 25-septies d.lgs. n.
231/2001, l’interesse e/o il vantaggio vanno letti, nella prospettiva
patrimoniale dell’ente, come risparmio di risorse economiche conseguente alla
mancata predisposizione dello strumentario di sicurezza ovvero come incremento
economico conseguente all’aumento della produttività non ostacolata dal
pedissequo rispetto della  normativa
prevenzionale (sempre sul punto, Sezioni Unite, 24 aprile 2014, Espenhahn ed
altri). In altri termini, nei reati colposi, l’interesse e/o vantaggio si
ricollegano al risparmio nelle spese che l’ente dovrebbe sostenere per
l’adozione delle misure precauzionali ovvero nell’agevolazione dell’aumento di
produttività che può derivare, per l’ente, dallo sveltimento dell’attività
lavorativa, “favorita” dalla mancata osservanza della normativa
cautelare, il cui rispetto, invece, ne avrebbe “rallentato” i tempi.

7.1. Inquadrata in questi termini la questione, la
motivazione della condanna della società A. regge al vaglio di legittimità, ove
si consideri quanto sopra ricordato in merito all’utilizzo e al mantenimento in
azienda di una macchina pellettatrice che, anche per la sua vetustà, è
risultata priva di dispositivi di sicurezza i quali, se presenti, avrebbero
evitato l’infortunio occorso a E.H.H.. Al riguardo, la sentenza di primo grado
esplicita compiutamente le ragioni dell’addebito all’ente consistenti proprio
nel ‘mantenimento, nel ciclo produttivo, di un macchinario vecchio e non
aggiornato in conformità alla normativa di prevenzione e neppure ripristinato
nelle sue originarie condizioni di efficienza (si pensi al secondo dado non
funzionante al momento del sinistro). Il delitto di lesioni colpose può,
pertanto, ben dirsi commesso nell’interesse dell’ente «in quanto la condotta
omissiva del legale rappresentante, da cui deriva causalmente l’evento lesivo,
ha consentito alla società un risparmio di spesa (non è stato acquistato un
macchinario nuovo; quello vetusto non è stato modificato così da consentire ai
lavoratori di operarvi in sicurezza…». Infine, occorre ricordare che la
responsabilità dell’ente per i reati di omicidio colposo o lesioni colpose,
commesse da suoi organi apicali con violazione della normativa in materia di
sicurezza o igiene del lavoro, può essere esclusa soltanto dimostrando
l’adozione e l’efficace attuazione di modelli organizzativi (art. 30 del d.lgs. n. 81/2008) e
l’attribuzione ad un organismo autonomo del potere di vigilanza sul
funzionamento, l’aggiornamento e l’osservanza dei modelli adottati. Sennonché,
nel caso di specie, non risulta che l’ente abbia provato la sussistenza delle
circostanze che avrebbero potuto escluderne la responsabilità ai sensi dell’art. 6 d. Igs. n. 231/2001.

8. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere
annullata senza rinvio con riferimento alle statuizioni civili, che vanno
revocate; deve essere annullata senza rinvio per essere il reato estinto per
prescrizione. Il ricorso va, invece, rigettato con riferimento alla statuizione
sulla responsabilità dell’ente.

 

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata con
riferimento alle statuizioni civili, che revoca. Annulla senza rinvio la
sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione. Rigetta il
ricorso con riferimento alla statuizione sulla responsabilità dell’ente.

Si dà atto che il presente provvedimento è
sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore,
ai sensi dell’art. 1, comma 1,
lett. a), del d.p.c.m. 8 marzo 2020.

 

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 gennaio 2021, n. 2848
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