In caso di denuncia, il datore di lavoro deve provare il corretto adempimento dei propri obblighi.
Nota a Cass. (ord.) 26 novembre 2020, n. 27078
Fabrizio Girolami
Qualora il lavoratore assuma di aver subìto un demansionamento o una dequalificazione da parte del datore di lavoro in violazione degli obblighi di cui all’art. 2103 c.c. spetta al datore di lavoro provare l’esatto adempimento dei suoi obblighi o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi demansionamento o dequalificazione o attraverso la prova che l’una o l’altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall’art. 1218 c.c., da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con l’ordinanza 26 novembre 2020, n. 27078, in relazione alla vicenda di un dipendente della RAI S.p.A., che, ancorché destinatario di un incarico di vice-dirigente, aveva lamentato la lesione della propria professionalità sotto il profilo quantitativo, “per l’assenza totale di incarichi direttivi ovvero per l’attribuzione del tutto sporadica degli stessi”, e sotto il profilo qualitativo, per mancato esercizio di poteri effettivi direttivi delegati. Il lavoratore, dopo aver perso il primo grado di giudizio dinanzi al Tribunale, era risultato vittorioso nel giudizio di impugnazione (App. Roma 20 aprile 2015, poi impugnata per cassazione da RAI S.p.A.).
Il principio affermato con l’ordinanza in commento – che conferma l’orientamento già consolidato della giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le altre, Cass. 3 marzo 2016, n. 4211, richiamata nelle motivazioni) – offre l’occasione per fare chiarezza in materia di distribuzione dell’onere della prova nell’ambito dei giudizi instaurati dal lavoratore per il risarcimento del danno (patrimoniale e/o non patrimoniale) derivante dall’illegittima dequalificazione o demansionamento.
Come noto, l’art. 2103 c.c. (nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 3, D.LGS. 15 giugno 2015, n. 81) impone al datore di adibire il lavoratore “alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.
La violazione del diritto del dipendente allo svolgimento delle mansioni di ultima assegnazione può determinare l’insorgenza di differenti profili di danno risarcibili: da un lato, il danno patrimoniale (derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di maggiori capacità, dalla perdita di chance, cioè di avanzamenti in carriera e ulteriori possibilità di guadagno), dall’altro il danno non patrimoniale (consistente nella lesione del diritto all’immagine, del diritto alla salute e, comunque, del diritto fondamentale alla libera esplicazione della sua personalità nei luoghi di lavoro).
Proprio in conseguenza della potenziale pluralità di conseguenze lesive, il lavoratore, ai sensi dell’art. 2697 c.c., è tenuto a una specifica allegazione dei fatti sui cui si fonda la domanda di risarcimento. In particolare, il lavoratore ha l’onere di precisare quali tipi di danno ritenga di aver subito e fornire tutti gli elementi concreti dai quali possa emergere la prova del danno.
Il danno (patrimoniale e non patrimoniale) risarcibile ed il nesso causale deve essere provato dal lavoratore con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo rilievo anche la prova per presunzioni.
Dal canto suo, il datore di lavoro – come rileva l’ordinanza in commento – laddove il dipendente dichiari di non essere adibito ad alcuna attività confacente al proprio inquadramento, ha l’onere di dimostrare l’effettiva assegnazione del dipendente a mansioni corrispondenti al profilo professionale. E, a tal fine, può dimostrare sia l’inesistenza di qualsiasi condotta dequalificante o demansionante, sia che il demansionamento o dequalificazione (ancorché materialmente esistente) sia in realtà il risultato di un legittimo esercizio di un potere imprenditoriale (come nel caso di attuazione di demansionamento consentito dalla legge: ad esempio, per inidoneità fisica sopravvenuta del dipendente o di lavoratrice in gravidanza nel caso in cui le mansioni precedentemente assegnate siano pericolose per la salute del nascituro) o disciplinare o, ancora, per impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile (ex art. 1218 c.c.) che non consente il mantenimento del dipendente nelle mansioni precedentemente assegnate.
Non avendo la società convenuta adempiuto a tale onere probatorio nel giudizio di merito, la Cassazione ha confermato la correttezza dell’iter motivazionale della sentenza della Corte d’Appello di Roma e ha respinto il ricorso della RAI, condannandola altresì al pagamento delle spese di lite.