Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 gennaio 2021, n. 433
Accertamento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo
pieno ed indeterminato, Formali assunzioni a termine, Prova sufficientemente
certa in ordine ad un inserimento stabile nell’organizzazione aziendale,
Censure caratterizzate da irrimediabile eterogeneità
Rilevato
Che la Corte di Appello di Roma, con sentenza
pubblicata il 20.4.2015, ha accolto il gravame interposto da V.B., nei
confronti di P.C., avverso la pronunzia del Tribunale di Latina n. 2006/2010,
resa in data 8.6.2010, con la quale era stato integralmente accolto il ricorso
della C. diretto ad ottenere – previo accertamento di un rapporto di lavoro
subordinato a tempo pieno ed indeterminato tra le parti, con decorrenza dal
gennaio 1996 al dicembre 2000 (nonostante formali assunzioni a termine), con
assegnazione alla lavoratrice di mansioni di bracciante addetta alla
preparazione dei fondi, alla cura dei vigneti e degli oliveti per l’azienda
agricola familiare di V.B., nonché di lavoratrice domestica alle dipendenze di
quest’ultima, con orario 7.30/12.30-13.00/16.00 per sette giorni alla settimana
– la condanna della datrice di lavoro al pagamento della somma di euro
68.100,15 a titolo di differenze retributive per ferie non godute,
straordinari, mensilità supplementari e TFR, oltre accessori, come per legge,
conformemente ai conteggi analitici allegati al ricorso; che la Corte di
merito, pertanto, ha respinto l’originaria domanda della lavoratrice, essendo
emerso <<un quadro probatorio complessivo totalmente contraddittorio e
non altrimenti componibile in una prova sufficientemente certa in ordine ad un
inserimento stabile nell’organizzazione aziendale tale da rendere il prestatore
di lavoro continuativamente obbligato a porre le proprie prestazioni lavorative
secondo le esigenze del datore di lavoro (analogamente per quanto concerne il
lavoro domestico)>>;
che per la cassazione della sentenza ricorre P.C.
sulla base di un motivo contenente più censure, cui resistono con controricorso
M.B. e R.B., in qualità di eredi di V.B., deceduta medio tempore; che il P.G.
non ha formulato richieste.
Considerato
Che, con il ricorso, si censura, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la <<violazione
e falsa applicazione degli artt. 112 e 345 c.p.c.>>; in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la
<<nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 132 c.p.c. in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., per omessa,
insufficiente e/o contraddittoria motivazione sul punto decisivo della controversia>>,
perché la Corte territoriale ha ritenuto, sul presupposto che l’acquisizione
documentale fosse legittima, perché indispensabile per la decisione, che
<<la produzione documentale effettuata dall’appellante comportasse
l’inattendibilità dei testi escussi nel processo di primo grado ed invalidasse
le argomentazioni poste a base dell’accoglimento del ricorso da parte del
Tribunale>>, senza avere riguardo al disposto dell’art. 345 c.p.c., ai sensi del quale <<Non
sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi
documenti, salvo che la parte dimostri di non avere potuto proporli o produrli
nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile…>>; ed
inoltre, perché, nel caso di specie, l’interpretazione della domanda, da parte
dei giudici di seconda istanza, ha <<determinato un vizio riconducibile
alla violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato
(art. 112 c.p.c.) o a quello del tantum
devolutum quantum appellatum (art. 345 c.p.c.)>>;
che il motivo è inammissibile sotto diversi e
concorrenti profili: innanzitutto perché solleva un coacervo di censure senza
il rispetto del canone della specificità del motivo, che determina, nella parte
argomentativa dello stesso, la difficoltà di scindere le ragioni poste a
sostegno dell’uno o dell’altro vizio e, dunque, di effettuare puntualmente
l’operazione di interpretazione e di sussunzione delle censure (al riguardo,
tra le molte, Cass. nn. 21239/2015, 7394/2010, 20355/2008, 9470/2008); al
riguardo, va sottolineato che le Sezioni Unite di questa Corte, dinanzi ad un
motivo di ricorso che conteneva censure astrattamente riconducibili ad una
pluralità di vizi tra quelli indicati nell’art. 360
c.p.c., hanno ribadito la stigmatizzazione di tale tecnica di redazione del
ricorso per cassazione, evidenziando “la impossibilità di convivenza in
seno al medesimo motivo di ricorso, di censure caratterizzate da irrimediabile
eterogeneità” (Cass., S.U., nn. 17931/2013, 26242/2014); ed inoltre, in
quanto, relativamente alla censura che attiene alla <<violazione di
legge>>, la parte ricorrente non ha indicato sotto quale profilo le norme
menzionate sarebbero state incise, in spregio alla prescrizione di specificità
dell’art. 366, primo comma, n. 4, c.p.c., che
esige che il vizio della sentenza previsto dall’art.
360, primo comma, n. 3, del codice di rito, debba essere dedotto, a pena di
inammissibilità, mediante la puntuale indicazione delle disposizioni
asseritamente violate ed altresì con specifiche argomentazioni intese
motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto,
contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le
disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse
fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte,
Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009);
pertanto, le doglianze mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici
di seconda istanza si risolvono in considerazioni di fatto del tutto
inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria (cfr., ex
plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011); che, infine, nella fattispecie, si
dibatte della prova di un fatto già ritualmente allegato in primo grado ed in
quella sede ritenuto dimostrato sulla base di elementi delibatori che i giudici
di seconda istanza hanno reputato di non sicura valenza – ed altresì oggetto di
contestazione da parte della datrice di lavoro -, tanto da accogliere la
richiesta di una nuova prova idonea a dissipare ogni possibile incertezza
(nella specie, si tratta dell’acquisizione di <<due prospetti del Centro
per l’Impiego di Latina relativi ai periodi lavorativi dei due testi escussi in
primo grado>>, dai quali risulta che gli stessi <<per svariati mesi
all’anno, lavorando altrove, non potevano aver lavorato insieme alla C. ovvero
non potevano averla vista lavorare nel fondo della B.>>, come, invece,
dai medesimi dichiarato dinanzi al primo giudice; che, peraltro, il compito di
valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza spetta in
via esclusiva al giudice di merito; per la qual cosa, <<la deduzione con
il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata,
per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove non conferisce al
giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda
processuale sottoposta al suo vaglio, bensì solo la facoltà di controllo, sotto
il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle
argomentazioni svolte dal giudice di merito>> (cfr., ex multis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. nn. 14541/2014;
2056/2011); e, nella fattispecie, la Corte
distrettuale è pervenuta alla decisione impugnata attraverso un percorso
motivazionale condivisibile e scevro da vizi logico-giuridici circa la
valutazione degli elementi delibatori posti a base della stessa, mentre le
censure sollevate, al riguardo, dalla lavoratrice appaiono, all’evidenza,
finalizzate ad una nuova valutazione degli elementi di fatto, attraverso la
mera contestazione dei predetti elementi;
che per tutto quanto in precedenza esposto, il
ricorso va respinto;
che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono
la soccombenza;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R.
n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso; condanna la
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in
Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella
misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.