Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 gennaio 2021, n. 15
Licenziamento individuale, Risarcimento del danno, Danni
ulteriori rispetto a quelli risarciti ex art. 18 della legge n. 300 del
1970, Danno alla professionalità da forzata inattività, Risarcibilità,
Prova del lavoratore
Fatti di causa
1. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 26.5.2011,
in accoglimento delle domande avanzate da S.M., riconosciuta la natura
subordinata del rapporto intercorso con la società E. p.a. e la decorrenza
dello stesso a far data dall’1.11.1999, con inquadramento del M. nel IV livello
retributivo del CCNL delle aziende radiotelevisive private, condannava la
società al pagamento, in favore del predetto, della somma di € 5000,0 mensili a
titolo di risarcimento del danno per la forzosa inattività subita dal 10.9.2010
e di ulteriori € 5000,00 mensili a titolo di retribuzione maturata
dall’11.5.2010, detratto quanto già percepito a tale titolo.
2. La Corte di appello capitolina, con sentenza del
13.10.2015, in parziale riforma della decisione impugnata dalla società,
quantificava in complessivi € 10.000,00, oltre accessori di legge dalla data
della sentenza di appello al saldo, l’importo dovuto a S.M. per i titoli indicati
al punto 2) delle conclusioni del ricorso di primo grado (risarcimento del
danno dal I luglio 2007 alla effettiva reintegra) e respingeva ogni altra
domanda ivi avanzata, compensando per 2/3 le spese di lite del doppio grado,
per il residuo 1/3 poste a carico della società.
2.1. La Corte distrettuale rilevava che il Tribunale
di Roma, con sentenza resa in data 11.5.2010, aveva già riconosciuto la natura
subordinata del rapporto con il M. con decorrenza dall’1.11.1999, con
inquadramento nel IV livello e con ordine alla società di ripristinare la
funzionalità del rapporto, condannando la stessa al pagamento, in favore del
ricorrente ed a titolo risarcitorio, di una somma pari all’ammontare delle
retribuzioni che lo stesso avrebbe percepito con il predetto inquadramento
professionale dal 3.7.2007 ed al pagamento della somma lorda di euro 10.000,00
a titolo di una tantum riconosciuta dalla società con lettera del 30.6.2007.
Aveva, invece, rigettato la domanda di condanna al pagamento delle differenze
retributive, atteso che le somme percepite dal ricorrente in esecuzione dei
contratti di collaborazione sottoscritti erano di gran lunga superiori alle
somme dovute in base al ccnl di categoria. Tale prima pronuncia, impugnata da
entrambe le parti, era stata integralmente confermata dalla Corte d’appello di
Roma con sentenza 7.5.2013 n. 3386. Il ricorso per cassazione avverso detta
sentenza è stato dichiarato inammissibile.
2.1. La Corte distrettuale, relativamente al secondo
giudizio oggetto della sua cognizione, premesso che il rapporto di
collaborazione coordinata e continuativa svolto, con una serie di contratti,
dal M. quale conduttore radiofonico per l’emittente Radio Capital, si era
interrotto in quanto il nuovo direttore artistico aveva deciso di eliminare dal
palinsesto della radio la trasmissione condotta dal predetto e che la società
non aveva più rinnovato il contratto in corso con scadenza il 30.6.2007,
riteneva fondata la censura della società, in quanto la retribuzione che il
ricorrente avrebbe percepito in base al c.c.n.I. delle emittenti radiofoniche e
televisive private quale impiegato di IV liv. non era affatto pari all’importo
di euro 5000,00 mensili concordato tra le parti nel contratto di collaborazione
stipulato in data 27.12.2006, bensì era pari al minore importo di euro 1375,95,
riconosciuto come dovuto dalla E.
2.2. Osservava che l’importo concordato non
costituiva invero un trattamento di miglior favore che il ricorrente avesse
diritto di conservare – come invece dedotto dall’appellato sia sul rilievo che,
ai sensi dell’art. 2077 c.c., gli accordi delle
parti, ove più favorevoli, prevalevano sulle clausole del c.c.n.I., sia in
virtù del principio di irriducibilità della retribuzione – atteso che il
contratto del 27.12.2006 non era un contratto di lavoro subordinato, bensì un
contratto di collaborazione autonoma il cui compenso pattuito non era
qualificabile come retribuzione, non potendo i principi validi in tema di
retribuzione invocati dall’appellato essere estesi a ciò che retribuzione non
era.
2.3. Osservava che era stato lo stesso ricorrente,
nell’atto introduttivo del giudizio presupposto, a chiedere il riconoscimento
“del diritto ad essere inquadrato dal novembre 1999 nel IV livello
retributivo del ccnl delle aziende radiotelevisive private ed a percepire il
trattamento economico e normativo previsto dal relativo ccnl”, per cui il
Tribunale non avrebbe potuto quantificare la retribuzione dovuta nel maggiore
importo previsto dal contratto di collaborazione autonoma del 27.12.2006, senza
incorrere nel vizio di ultrapetizione.
2.4. Aggiungeva che, in ogni caso, ogni
contestazione in ordine alla quantificazione della retribuzione dovuta al
ricorrente doveva essere sollevata nel giudizio presupposto e non nell’odierno
giudizio, nel quale si controverteva solo degli effetti determinati
dall’inottemperanza alla sentenza del Tribunale capitolino, laddove la sentenza
stessa era stata confermata dalla Corte d’appello, che aveva fatto riferimento
ai minimi contrattuali del IV livello rivendicato.
Nulla pertanto era dovuto a tale titolo al M.
2.5. Quanto al secondo motivo formulato della
società, premesso che nulla era dovuto al M. per il periodo dalla data della
formale riammissione in servizio sino alla data 26.5.2011 della sentenza, in
quanto la statuizione non era stata impugnata, osservava che, in caso di
inottemperanza all’ordine giudiziale di reintegrazione nel posto di lavoro o di
riammissione in servizio, il danno non poteva considerarsi integralmente ristorato
dal pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate, ben potendo residuare
danni ulteriori non patrimoniali da forzata inattività ed al riguardo poteva
ricorrersi alla prova presuntiva quanto meno per il periodo successivo alla
data del 10.9.2010 di riammissione al lavoro, ciò che comportava una
quantificazione al detto titolo di ulteriori euro 10.000,000, in tal senso
meritando accoglimento la domanda inizialmente formulata.
3. Di tale decisione domanda la cassazione il M.,
affidando l’impugnazione a quattro motivi, cui resiste l’E., che propone
ricorso incidentale, cui resiste con controricorso il M.
4. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai
sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
Ricorso principale
1. Con il primo motivo, il M. denunzia violazione e
falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., nonché
degli artt. 116 e 474
c.p.c., sostenendo che, pur vero che nella prima sentenza del Tribunale di
Roma dell’11.5.2010 il risarcimento del danno per il periodo non lavorato dal
3.7.2007 al 10.5.2010 era stato parametrato all’ammontare delle retribuzioni
che lo stesso avrebbe percepito con il riconosciuto inquadramento
professionale, tuttavia l’ordine giudiziale di ripristino non poteva che
alludere alla conservazione della retribuzione pattuita ed erogata prima
dell’interruzione del rapporto e non certo ad una diversa e nuova
quantificazione in pretesa applicazione dei minimi tabellari del ccnl. Rilevava
che in alcuna parte della pronuncia del’11.5.2010 era stato affrontato il
problema delle misura della retribuzione dovuta dall’11.5.2010 in poi e che
l’applicazione del principio dell’assorbimento in relazione a voci contrattuali
ulteriormente richieste rendeva evidente che era stata riconosciuta la
preminenza alle pattuizioni a suo tempo intervenute tra le parti nella misura
in cui le stesse si presentavano ampiamente superiori alle previsioni di cui al
c.c.n.I.
2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta
violazione e falsa applicazione degli artt. 2077,
2099, 2103 e 2909 c.c., evidenziando che il rapporto di lavoro
era stato ritenuto di natura subordinata sin dall’origine, sicché doveva
ritenersi che la misura del compenso pattuita con il contratto del 21.12.2006,
nella misura di 5000,00 euro mensili, rappresentasse una legittima pattuizione
individuale di miglior favore, non riducibile.
3. Con il terzo motivo, si duole della violazione e
falsa applicazione degli artt. 1322, 1372 e 2099 c.c.,
nonché dell’art. 36 Cost., sul rilievo della
possibilità per il giudice di determinare la retribuzione solo in mancanza di
accordo tra le parti, che può essere disatteso solo quando non sia rispettato
il parametro costituzionale di cui all’art. 36
Cost., rispetto al quale è consentito uri incremento di quanto pattuito
dalle parti contrattuali.
4. Il quarto motivo ascrive alla decisione impugnata
violazione e falsa applicazione degli art. 1223,
1226, 2056, 2059 e 2909 c.c.,
nonché dell’art. 324 c.p.c., dolendosi il M.
dell’interpretazione fornita dalla Corte distrettuale con riguardo alla
parametrazione dell’importo del risarcimento del danno dovuto per la forzosa
inattività al minore importo di euro 1375,95 anziché a quello di 5000,0 euro
mensili, nonché alla limitazione del danno alla data in cui era stata emessa la
pronuncia di primo grado, essendo stata ritenuta non impugnata la statuizione
in ordine al periodo di debenza del risarcimento per la forzosa inattività.
5. Devono preliminarmente disattendersi i rilievi di
inammissibilità dell’intero ricorso per mancato rispetto del principio di
autosufficienza.
5.1. In conformità alla giurisprudenza di questa
Corte regolatrice, è onere del ricorrente operare una sintesi funzionale alla
piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata in
base alla sola lettura del ricorso; la Corte deve tuttavia poter verificare che
quanto il ricorrente afferma trovi effettivo riscontro, anche sulla base degli
atti o documenti prodotti sui quali il ricorso si fonda, la cui testuale
riproduzione, in tutto o in parte, è invece richiesta quando la sentenza è
censurata per non averne la Corte del merito tenuto conto (cfr., da ultimo, tra
le altre, Cass. 18.4.2018 n. 24340).
5.2. Quanto all’interpretazione del giudicato
esterno, la stessa può essere effettuata anche direttamente dalla Corte di
cassazione con cognizione piena, nei limiti, però, in cui il giudicato sia
riprodotto nel ricorso per cassazione, in forza del principio di autosufficienza
di questo mezzo di impugnazione, con la conseguenza che, qualora
l’interpretazione che abbia dato il giudice di merito sia ritenuta scorretta,
il ricorso deve riportare il testo del giudicato che si assume erroneamente
interpretato, con richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo,
atteso che il solo dispositivo non può essere sufficiente alla comprensione del
comando giudiziale (cfr. Cass. 8.3.2018 n. 5508).
5.3. Nella specie, nel ricorso del M., oltre al
comando giudiziale, ossia al dispositivo della sentenza del Tribunale di Roma
del n. 8329 del 11.5.2010, vengono riportate le parti ed i passaggi salienti
della motivazione ritenute funzionali alla comprensione della questione
prospettata, sicché non possono riavvisarsi le carenze di specificità dedotte
rispetto allenterò impianto dell’impugnazione, osservandosi che della stesa
pronuncia richiamata si indica la sede di deposito negli atti processuali di
parte delle fasi di merito (doc. n. 7 nel fascicolo di primo grado).
6. Con riguardo al primo motivo, il problema
interpretativo del comando giudiziale è stato risolto in modo conforme a
diritto, posto in primo luogo che è stata conferita corretta rilevanza a quanto
richiesto nel relativo ricorso dal M., con la conseguenza che la ratio
decidendi autonoma, che rileva come il Tribunale non potesse quantificare
diversamente la retribuzione nel maggiore importo previsto dal contratto di
collaborazione autonoma del 27.12.2006, pena un’ultrapetizione, doveva essere
censurata. Ciò comporta che divengano inammissibili, per difetto di interesse,
le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo
impugnato (cfr., in tal senso, Cass. 24.5.2006 n. 12372, Cass. sez. lav., 18.5.2006 n. 11660; Cass.
8.8.2005 n. 16602; Cass. 8.2.2006 n. 2811; Cass. 22.2.2006 n. 3881; Cass.
20.4.2006 n. 9233; Cass. 8.5.2007 n. 10374; Cass. sez. I 14.6.2007 n. 13906,
conf. a Cass., sez. un. 16602/2005).
6.1. Rimane dunque ferma l’altra ratio decidendi che
si fonda sulla definitività dell’accertamento in ordine alla quantificazione
della retribuzione contenuta nella indicata sentenza presupposto.
6.2. La censura, peraltro, mira a contestare
l’interpretazione del giudicato, sul rilievo di un’intrinseca contraddittorietà
della decisione quanto al ritenuto assorbimento di alcune voci retributive, non
considerando che una cosa è l’assorbimento per il periodo relativo alla vigenza
dei contratti di lavoro autonomo, altro è quanto accertato in relazione alla
retribuzione in ipotesi dovuta per il periodo successivo, che costituiva la
base per il risarcimento richiesto a far data dal 3.7.2007 alla data della
sentenza. D’altronde, rispetto al rilievo della Corte distrettuale che il
Tribunale, con la sentenza n. 8329/2010, aveva rigettato la domanda di condanna
al pagamento delle differenze retributive per essere risultate le somme
percepite dal ricorrente in esecuzione degli intercorsi contratti di
collaborazione di gran lunga superiori alle somme dovute in base al ccnl di
categoria, sarebbe stato onere del ricorrente trascrivere i passi di quella
decisione che avrebbero condotto ad un’interpretazione diversa, ciò che non
risulta essere stato effettuato nel presente giudizio. Né viene trascritto per
la parte di rilievo, in ossequio al necessario principio di specificità – in
questo caso da assolvere con puntualità – il ricorso originario che aveva dato
avvio al giudizio presupposto, per supportare l’assunto del M. secondo cui non
era mai stato richiesto in quel giudizio la condanna all’erogazione del
trattamento economico minimo, quanto piuttosto voci retributive di natura
contrattuale o legale calcolate sulla base della retribuzione pattuita con la
società datrice di lavoro.
6.3. Ogni altro profilo deve ritenersi superato in
relazione al rilievo assorbente che il giudicato esplicito sulla domanda di
risarcimento da mancata retribuzione preclude ogni decisione che non sia in
linea con esso sulla questione relativa all’ammontare della retribuzione anche
per il periodo successivo, dovendo ritenersi formato il giudicato implicito su
tale domanda per essere palese il rapporto di dipendenza indissolubile tra la
questione decisa in modo espresso e quella che si vuole implicitamente risolta,
fondandosi entrambe sugli stessi fatti costitutivi (cfr. Cass. 5581/12, Cass.
7115/2020).
6.4. In conclusione, è corretta la decisione che ha
escluso la ricorrenza di pattuizioni individuali prevedenti compensi ampiamente
superiori a quelli previsti dal c.c.n.I., essendo quelli pattuiti tra le parti
relativi ad una prestazione di collaborazione autonoma, rispetto alla quale non
trovano spazio i riferimenti, contenuti nel motivo, al principio di
irriducibilità della retribuzione.
6.5. Peraltro, come sopra precisato, la
irretrattabilità di una decisione del Tribunale che aveva specificato in modo
chiaro la parametrazione delle differenze ai minimi del trattamento economico
del IV liv contrattuale non può porsi in discussione se non violando i principi
in materia di giudicato.
7. Quanto al secondo motivo, è corretta l’individuata
diversità del titolo del compenso originariamente pattuito per una
collaborazione autonoma, sicché non è prospettabile in termini giuridicamente
sostenibili l’esistenza di una pattuizione individuale incidente sulla misura
della retribuzione in senso difforme rispetto ai minimi contrattuali del lavoro
subordinato.
8. I principi richiamati nel terzo motivo, ossia
quelli di autonomia contrattuale ed efficacia del contratto, con l’ulteriore
corollario che l’intervento del giudice è consentito solo in assenza di
pattuizione tra le parti, ovvero nell’ipotesi di retribuzione insufficiente, si
riferiscono ad ipotesi diversa in cui il datore di lavoro deve corrispondere un
emolumento equivalente alla retribuzione minima prevista nei contratti
collettivi di categoria o del settore produttivo di appartenenza del
lavoratore, integrando i medesimi il requisito della sufficienza voluto dall’art. 36 Cost. La norma, ispirata al principio del
minimo costituzionale, non si attaglia a quello che è l’oggetto della presente
controversia, in relazione alla quale deve ribadirsi quanto già registrato in
relazione alla mancanza di ogni impugnazione della ratio deciderteli che
evidenziava un vizio di ultrapetizione ove la retribuzione fosse stata fissata
nel maggior importo previsto dal contratto di collaborazione autonoma del
27.12.2006.
9. La prima censura del quarto motivo è assorbita
dalle considerazioni già svolte. Quanto alla limitazione temporale del
risarcimento del danno alla data della sentenza di primo grado, il riferimento
a Cass. 8643/2010 è improprio, in quanto tale
precedente si riferisce all’ ipotesi del risarcimento del danno conseguente
alla reintegra e non ai danni maggiori prospettati nella specie, di natura non
patrimoniale e connessi alla forzosa inoperatività. La motivazione della Corte
distrettuale, secondo cui la condanna è stata limitata fino alla data della
sentenza di primo grado, trova giuridico fondamento nel principio secondo cui
un risarcimento per il periodo successivo presuppone la prospettazione di
comportamenti successivi posti in essere dal datore dopo il deposito del
ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, che siano anche provati dalla
parte che li allega. Questa affermazione che costituisce autonoma ratio
decidendi, non è stata adeguatamente censurata e quindi si rivela inammissibile
la censura formulata sulla erroneità della interpretazione della decisione di
primo grado quanto al limite temporale della sentenza.
RICORSO INCIDENTALE
10. Con il primo motivo del ricorso incidentale,
denunziandosi la violazione dell’art. 112 e/o
dell’art. 2033 c.c., si sostiene che il tenore
della sentenza di secondo grado, di riforma della sentenza appellata, rendeva
doverosa una pronuncia da parte della Corte distrettuale che disponesse, così
come richiesto dalla società, la restituzione delle somme maggiori aventi
titolo in capi della sentenza modificati per effetto di una ritenuta minore
quantificazione del risarcimento dovuto.
11. Con il secondo motivo, si denunzia violazione
falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. e dell’art. 18 I. 300/70 anche in
relazione all’art. 2099 c.c., sull’assunto che
il pregiudizio derivante dalla inattività ulteriore rispetto a quello afferente
alla impossibilità di rendere la prestazione doveva essere supportato da
allegazioni suscettibili di riscontro probatorio, nella specie non sussistenti.
12. Il primo motivo – rispetto al quale per costante
insegnamento giurisprudenziale può prescindersi dall’intitolazione del vizio
dedotto, in relazione a quanto specificato nel corpo del motivo (cfr., da
ultimo, ex aliis, Cass. 23.05.2018 n. 12690) –
è fondato nei limiti di quanto riconosciuto in sentenza, dovendo essere
restituito quanto percepito in eccesso (ove accertata l’avvenuta percezione
della totalità delle somme indicate nella sentenza di primo grado): ed invero,
la domanda di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza
di primo grado, essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione
impugnata, non costituisce domanda nuova ed è perciò ammissibile in appello
anche nel corso del giudizio, quando l’esecuzione della sentenza sia avvenuta
successivamente alla proposizione dell’impugnazione. Qualora il giudice
d’appello non provveda su tale domanda, la parte può alternativamente
denunciare l’omissione con ricorso per cassazione o farla valere riproponendo
la detta domanda restitutoria in autonomo giudizio, posto che la mancata
pronuncia dà luogo ad un giudicato solo processuale e non sostanziale (cfr.
Cass. 24.5.2019 n. 14253, Cass. 21.11.2019 n. 30495)
12.1. Nella specie, la società afferma di avere dato
esecuzione alla sentenza di primo grado, pur evidenziandosi da parte del
controricorrente una parziale dimostrazione di quanto allegato, per cui si
impone la necessità di un preciso accertamento in ordine a quanto
effettivamente erogato dalla società in misura eccedente rispetto alla
quantificazione della Corte d’appello capitolina.
13. Il secondo motivo è, invece, infondato, in
quanto la deduzione vi è stata, come argomentato dalla Corte d’appello e dal
giudice di primo grado, e quindi correttamente è stato liquidato il danno non
patrimoniale sulla base di presunzioni. Ed invero, è pacifico l’insegnamento
giurisprudenziale di legittimità, pur relativo ad ipotesi di demasionamento,
alla cui stregua “è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta
si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che costituiscono
oggetto di tutela costituzionale, da accertarsi in base alla persistenza del
comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di
disagio professionale e personale, all’inerzia del datore di lavoro rispetto
alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico
intento di declassarlo o svilirne i compiti. La relativa prova spetta al
lavoratore, il quale tuttavia non deve necessariamente fornirla per testimoni,
potendo anche allegare elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali,
ad esempio, la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, la natura
e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la
diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata
dequalificazione” (cfr. Cass. 2.10.2019 n. 24585, Cass. 20.4.2018 n. 9901). Il riferimento alla
esaustività del risarcimento ex art.
18 I. 300/70 è contraddetto da questa Corte che ha affermato che anche
“nel regime di tutela reale ex art. 18 della legge 20 maggio
1970, n. 300, avverso i licenziamenti illegittimi (nella formulazione
“ratione temporis” applicabile, anteriore alla modifica apportata con
legge 28 giugno 2012, n. 92), la
predeterminazione legale del danno risarcibile in favore del lavoratore (con
riferimento alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a
quello della reintegrazione) non esclude che il lavoratore possa chiedere il
risarcimento del danno ulteriore (nel caso, alla professionalità) che gli sia
derivato dal ritardo della reintegra, e che il giudice, in presenzia della
relativa prova – il cui onere incombe sul lavoratore ma che, in presenza di
precise allegazioni, può essere soddisfatto mediante il ricorso alla prova
presuntiva – possa liquidarlo equitativamente” (cfr. Cass. 15.4.2013 n. 9073).
14. Conclusivamente, il ricorso principale ed il
secondo motivo del ricorso incidentale vanno respinti, meritando accoglimento
soltanto il primo motivo del ricorso incidentale.
15. La sentenza va cassata in relazione al motivo
accolto e va disposto il rinvio della causa alla Corte d’appello di Roma, in
diversa composizione, che dovrà accertare gli importi asseritamente già
corrisposti dalla società versati in eccedenza in esecuzione della sentenza di
primo grado rispetto alla somma riconosciuta all’esito del giudizio di appello.
16. Al giudice del rinvio va demandata la
determinazione anche delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo del ricorso incidentale,
rigetta il ricorso principale ed il secondo motivo del ricorso incidentale,
cassa la decisione impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte
d’appello di Roma in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche
sulle spese del giudizio di legittimità.