La mancata prova della condotta dolosamente preordinata alla vessazione ed emarginazione, nonché della molteplicità di comportamenti a carattere persecutorio non legittima il risarcimento del danno per mobbing.
Nota a Cass. (ord.) 29 dicembre 2020, n. 29767
Silvia Rossi
La Corte di Cassazione (ord. 29 dicembre 2020, n. 29767, che dichiara inammissibile il ricorso avverso App. Firenze n. 126/2015) torna a definire il fenomeno del mobbing in relazione al ricorso di una impiegata comunale che sosteneva di essere stata demansionata e mobbizzata sul luogo di lavoro. Nel dettaglio, la lavoratrice aveva denunciato di aver subito una dequalificazione oltre ad una serie di difficoltà nei rapporti lavorativi che la Corte di Appello aveva considerato non sussistenti o non emarginanti, quali la circostanza che il segretario comunale omettesse di salutarla o correggesse taluni atti da lei redatti; il mancato invito alle riunioni di Giunta unitamente alla mera divergenza di opinioni tra quest’ultima e altri responsabili del Comune, inidonei, secondo i giudici, a configurare vessazione.
La Corte ribadisce che il mobbing è riconducibile ad una situazione potenzialmente dannosa e non normativamente tipizzata “consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo” (v. Corte Cost. n. 359/2003; Cass. n. 17698/2014 e n. 18927/2012).
In particolare, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rileva una serie di elementi e cioè: a) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; b) la molteplicità delle condotte a carattere persecutorio o illecite o anche lecite se considerate singolarmente, poste in essere “in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio”; c) il nesso eziologico tra il comportamento del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio e sistematico. Tale prova grava sul lavoratore in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c. (Cass. n. 26684/2017).
Nello specifico, la prova di chi assume di avere subito la condotta vessatoria “va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica”. Non è dunque condizione sufficiente “l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione” (Cass. n. 10992/2020). Non sempre, infatti, la conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ufficio comporta l’adozione di provvedimenti al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore (Cass. n. 26684/2017, cit.).
Nella fattispecie, dal momento che la ricorrente non ha censurato specificamente la decisione della Corte di Appello, limitandosi a dedurre la sussistenza di demansionamento peraltro non provato, quale fattore di per sé stesso integrante mobbing, la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso.