Nella procedura di riduzione di personale, l’accordo sindacale “gestionale” di demansionamento configura, con efficacia generalizzata, un diritto potestativo dei lavoratori di essere assegnati a mansioni inferiori con novazione del rapporto di lavoro.
Nota a Cass. 18 gennaio 2021, n. 701
Maria Novella Bettini e Paolo Pizzuti
L’accordo sindacale, nel quale è prevista la facoltà dei dipendenti in esubero (in seguito a procedura di mobilità) di richiedere l’adibizione a mansioni inferiori con novazione del rapporto di lavoro in base all’art. 4, co. 11, L. n. 223/1991, costituisce un diritto potestativo in capo al lavoratore e comporta l’assunzione di una correlativa obbligazione a carico del datore di lavoro alla quale egli non può sottrarsi invocando il preteso carattere facoltativo della previsione contrattuale.
L’accordo, inoltre, ha funzione obbligatoria e gestionale ed è efficace nei confronti di tutta la comunità aziendale.
Questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione (18 gennaio 2021, n. 701, difforme da App. Venezia n. 183/2018) relativamente al caso di un lavoratore che, in seguito all’avvio, da parte dell’azienda, della procedura di mobilità, aveva manifestato la propria disponibilità a svolgere mansioni di livello inferiore, anche con diminuzione della retribuzione percepita; mentre il datore di lavoro aveva respinto l’istanza per asserita indisponibilità all’utilizzo, anche con diverso inquadramento, ed aveva proceduto al licenziamento con efficacia differita al termine del periodo di cassa integrazione guadagni.
La Corte di Appello di Venezia aveva argomentato che dall’accordo sindacale siglato in occasione della riduzione di personale non era evincibile alcun obbligo per il datore di lavoro di accogliere l’istanza, ma solo la possibilità di giungere ad un accordo, poiché, “alla luce dell’interpretazione letterale dell’accordo, la previsione della facoltà dei lavoratori in esubero di chiedere di essere adibiti a mansioni inferiori richiede la novazione del rapporto mediante la stipulazione di un verbale ex art. 411 c.p.c., a definizione e transazione generale di ogni pretesa del lavoratore ex art. 2113 c.c.”.
La Cassazione rileva invece che la questione vada risolta alla luce della finalità di tutela dell’interesse generale e di salvaguardia dei livelli occupazionali perseguita dalla L. n. 223/1991, art. 4, co. 11, nonché alla stregua della natura e funzione obbligatoria e gestionale della particolare tipologia di accordi sindacali stipulati in applicazione di tale disposizione legale.
Nello specifico, i giudici precisano che:
– la L. n. 223/1991, art. 4, co. 11, dispone che “Gli accordi stipulati nel corso delle procedure di cui al presente articolo, che prevedano il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, possono stabilire, anche in deroga dell’art. 2103 c.c., comma 2, la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte”;
– quanto all’art. 2103 c.c., tale disposizione va “interpretata alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, in coerenza con la “ratio” di numerosi interventi normativi, quale il D.LGS. n. 223 del 1991, art. 4, co. 11”. Pertanto, qualora “il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale, non è necessario un patto di demansionamento o una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, ma è onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale” (v. anche Cass. n. 23698/2015);
– una diversa utilizzazione del lavoratore non contrasta con l’esigenza di dignità e libertà della persona, ma configura “una soluzione più favorevole di quella ispirata al mero rispetto formale dell’art. 2103 c.c.” (v. Cass. n. 6441/1988 e n. 266/1984), in quanto, in tal caso, prevale “l’interesse del lavoratore a mantenere il posto di lavoro su quello tutelato dall’art. 2103 c.c. e ciò non solo ove il demansionamento sia promosso dalla richiesta del lavoratore – il quale deve manifestare il suo consenso non affetto da vizi della volontà – ma anche allorché l’iniziativa sia stata presa dal datore di lavoro, sempreché vi sia il consenso del lavoratore e sussistano le condizioni che avrebbero legittimato il licenziamento in mancanza dell’accordo”;
– la clausola dell’accordo sindacale oggetto della fattispecie in esame contempla, al fine di evitare il licenziamento, la possibilità per i dipendenti in esubero di chiedere di essere adibiti a mansioni e qualifiche inferiori, “con novazione del rapporto di lavoro L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 11, mediante sottoscrizione di Verbale di Accordo ex art. 411 c.p.c., omologo al fac-simile allegato” (si afferma altresì che: “Ai predetti dipendenti verrà attribuita la retribuzione propria della nuova categoria e livello; tuttavia la differenza tra la retribuzione della categoria originaria e la nuova retribuzione verrà mantenuta con la voce specifica di indennità di novazione che non avrà incidenza sulle ore straordinarie e sul calcolo delle maggiorazioni e verrà riassorbita, fino ad esaurimento, dal 60% degli aumenti retributivi che interverranno a qualsiasi titolo dai rinnovi del CCNL o da norme interconfederali o di legge”);
– la possibilità di essere adibiti a mansioni inferiori, prevista dall’accorso, costituisce, per un verso, un rimedio per evitare il licenziamento e, per l’altro, una deroga che “non vincola i lavoratori, i quali ben potrebbero rifiutare la dequalificazione, andando però incontro al rischio del licenziamento” (Cass. n. 11806/2000 e, tra le più recenti, Cass. n. 6289/2020, in q. sito con nota di S. GIOIA, e n. 14944/2014). È peraltro possibile anche l’inquadramento in una diversa categoria senza che si violi il disposto dell’art. 2103 c.c., le cui disposizioni non operano con riguardo a situazioni nelle quali la loro applicazione comporterebbe compromissione dei livelli di occupazione (così, già Cass. n. 9386/1993);
– gli accordi sindacali che stabiliscono i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità non si inquadrano nella categoria dei contratti collettivi normativi, ma svolgono una funzione gestionale ed obbligatoria, finalizzata alla tutela dell’interesse generale e della salvaguardia dei livelli occupazionali. Tale funzione sfocia, “nella instaurazione di rapporti obbligatori che vincolano le parti collettive e gli imprenditori che li stipulano, anche eventualmente in funzione transattiva di conflitti di diritti o di interessi”. Ne consegue che tali accordi incidono direttamente non sulla posizione del lavoratore, ma su quella del datore di lavoro, il quale nella scelta dei dipendenti da porre in mobilità è tenuto ad applicare i criteri concordati (v. Cass. n. 3271/2000);
– per applicare tali accordi alla generalità dei lavoratori occupati in azienda (superando il vincolo costituito dall’art. 39 Cost.), la giurisprudenza costituzionale ha configurato gli accordi sindacali stipulati nel contesto della procedura di riduzione di personale come contratti c.d. di gestione, non appartenenti alla specie dei contratti collettivi c.d. normativi. Essi, perciò, incidono sul singolo lavoratore solo indirettamente, attraverso l’atto del datore di lavoro vincolato dalla legge al rispetto dei criteri di scelta concordati in sede sindacale (v. Corte Cost. 30 giugno 1994, n. 268 e Cass. n. 4666/1999).