Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 febbraio 2021, n. 2472
Risarcimento del danno alla professionalità, Liquidazione
dell’importo determinato in sede giudiziaria al lordo delle spettanze
creditorie del lavoratore, Danno non patrimoniale, Grave violazione dei
diritti del lavoratore, che costituiscono oggetto di tutela costituzionale,
Persistenza del comportamento lesivo, durata e reiterazione delle situazioni di
disagio, inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore,
Appartenenza alla fattispecie del danno emergente e non di lucro cessante
Rilevato che
1. Con ricorso depositato presso il Tribunale di
Roma C.S., premesso che con sentenza del medesimo ufficio la R. spa, datrice di
lavoro, era stata condannata a pagarle, a titolo di risarcimento del danno alla
professionalità, una somma pari al 50% della retribuzione mensile per il
periodo dal maggio 2006 al gennaio 2009, oltre accessori, e che la società
aveva adempiuto al dictum giudiziale solo in parte, chiedeva la condanna al
pagamento della corrispondente somma di euro 30.958,17.
2. Nel contraddittorio delle parti, l’adito
Tribunale accoglieva la domanda ritenendo che la liquidazione dell’importo
determinato in sede giudiziaria doveva avvenire al lordo delle spettanze creditorie
del lavoratore.
3. La Corte di appello di Roma, con la sentenza n.
8031 del 2015, per quello che interessa in questa sede, confermava la pronuncia
di primo grado rilevando che la non definitività della decisione sull’an non
determinava la sospensione, né necessaria né facoltativa, del giudizio al suo
esame e che la natura del credito (a titolo di danno non patrimoniale alla
professionalità) ovvero comunque la sua natura risarcitoria (quale danno
emergente) non determinava che gli importi dovuti fossero qualificabili come
reddito ai sensi dell’art. 49 co. 1
TUIR DPR n. 917/86.
4. Avverso la sentenza di secondo grado proponeva
ricorso per cassazione la R. spa affidato a due motivi, cui ha resistito C.S. con
controricorso, illustrato con memoria.
5. Il PG rassegnava conclusioni scritte chiedendo il
rigetto del ricorso.
Considerato che
1. I motivi possono essere così sintetizzati.
2. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la
violazione e falsa applicazione degli artt.
6 co. 2 e 49 co. 1 TUIR (DPR n.
917 del 1986), in relazione all’art. 2697 cc,
ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., per avere
erroneamente ritenuto la Corte territoriale che il danno liquidato, avvenuto
espressamente a titolo di “danno non patrimoniale alla
professionalità”, non avesse carattere retributivo a fronte, invece, del
disposto di cui agli artt. 51 del
TUIR e 6 co. 2 TUIR secondo
cui tutte le indennità conseguite dal lavoratore a titolo di risarcimento danni
consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli da invalidità permanente o
da morte, costituiscono redditi da lavoro dipendente, salva la possibilità del
lavoratore di dimostrare che l’indennità si riferisca a voci di risarcimento
puro; prova che, nel caso in esame, il lavoratore non aveva fornito.
3. Con il secondo motivo si censura la violazione
e/o falsa applicazione degli artt.
48 co. 1 e art. 6 co. 2 del TUIR
(DPR n. 917 del 1986), ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., per non avere considerato la
Corte di merito che il danno da dequalificazione professionale era da
ricondurre nell’alveo del “lucro cessante” e, in quanto tale,
soggetto a tassazione, e non in quello del “danno emergente”, per cui
la somma liquidata era fiscalmente rilevante ex art. 6 co. 2 TUIR perché
riconducibile al ristoro del mancato conseguimento di redditi ovvero perché ne
costituiva sostituzione o surrogazione nella misura in cui era configurabile
nella medesima categoria del reddito perduto o sostituito.
4. I due motivi, che interferiscono tra loro e
quindi possono essere trattati congiuntamente, sono infondati.
5. Il dato intangibile processuale, da cui partire,
è quello relativo alla circostanza che la somma di cui è processo attiene ad
una liquidazione di “danno non patrimoniale alla professionalità”
(sentenza del Tribunale di Roma n. 5519 del 2011).
6. La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto
possibile tale tipologia di danno specificando che, in tema di dequalificazione
professionale, è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si
verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che costituiscono
oggetto di tutela costituzionale, da accertarsi in base alla persistenza del
comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di
disagio professionale e personale, all’inerzia del datore di lavoro rispetto
alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico
intento di declassarlo o di svilirne i compiti (Cass. n. 24585 del 2019).
7. Ne consegue che tale tipologia del pregiudizio,
come riconosciuto, determina la sua appartenenza alla fattispecie del danno
emergente, e non di lucro cessante ravvisabile nelle ipotesi di perdita
derivante dalla mancata percezione di redditi di cui siano maturati tutti i
presupposti, per cui non è considerata reddito soggetto a tassazione (Cass. n. 2549 del 2011; Cass. n. 29579 del 2011; Cass. n. 5108 del 2019).
8. La Corte di merito ha correttamente applicato i
suddetti principi per cui le asserite violazioni di legge, formulate nei motivi
del ricorso, non sussistono.
9. Per completezza deve osservarsi che non risulta
essere stata specificamente impugnata l’altra ratio decidendi, su cui è fondata
la impugnata decisione, svolta in relazione anche ad una eventuale consistenza
patrimoniale della indennità liquidata, in quanto avente natura di
“perdita di chance” e non di “lucro cessante”, per cui non
sarebbero assoggettati gli importi né a ritenuta fiscale né a quella
previdenziale ex art. 19 co. 2
legge n. 218 del 1952.
10. Ciò connoterebbe anche di profili di
inammissibilità le censure mosse con i motivi, perché sarebbe rilevabile una
carenza di interesse in quanto l’accoglimento delle suddette doglianze non
potrebbe determinare in nessun caso la cassazione della gravata pronuncia
(Cass. n. 22753 del 2011).
11. Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve
essere rigettato.
12. Al rigetto segue la condanna della ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano
come da dispositivo.
13. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.
115/02, nel testo risultante dalla legge
24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti
processuali, sempre come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della
controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida
in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15
per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai
sensi dell’art. 13, comma 1 quater,
del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1 bis dello stesso art. 13, se
dovuto.