La condotta mobbizzante dev’essere esclusa, pur se idonea a palesare elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, quando non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo.
Nota a Cons. Stato, sez. II, 19 gennaio 2021, n. 591
Giuseppe Rossini
Un agente di Polizia Penitenziaria, in forza presso una Casa Circondariale, ha adito il TAR Lombardia al fine di chiedere il risarcimento dei danni causati dalla condotta mobbizzante perpetrata a suo danno dall’Amministrazione datrice di Lavoro (Ministero della Giustizia).
Nel caso di specie, il lavoratore ha lamentato di aver subito mobbing orizzontale e verticale consistente nel:
a) rigetto di domande di congedo straordinario;
b) assegnazione di compiti di impiego incompatibili con l’autorizzata fruizione dei riposi giornalieri per accudire la figlia minore (adibizione a mansioni di sentinella);
c) ingiustificata sottoposizione a procedimento disciplinare per un ritardo nel raggiungimento della sede di servizio;
d) “mancato invio, secondo i dettami di legge, alla Commissione Medico Ospedaliera in ragione di un conclamato stato patologico occorso in servizio”;
e) demansionamento e denigrazione rispetto ai colleghi.
A sostegno delle proprie richieste, il lavoratore ha richiamato le risultanze probatorie di una relazione acquisita in sede istruttoria che ha confermato la sussistenza delle condotte vessatorie.
Il TAR, rilevando la necessità del “carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro” e la mancata prova delle condotte mobbizzanti lamentate dal lavoratore, ha rigettato tutte le istanze del lavoratore.
Nel ricorso al Consiglio di Stato, l’appellante ha lamentato che il TAR non aveva adeguatamente esaminato gli atti di causa, dai quali emergeva una serie di comportamenti e di episodi, sia da parte del Direttore della Casa Circondariale che da parte di colleghi, tali da impedirgli di esercitare i diritti che gli competevano, da integrare, pertanto, il mobbing.
Il Collegio, conformandosi alle numerose pronunce giurisprudenziali penali, civili, amministrative e contabili, ha rigettato tutte le richieste del lavoratore, richiamando l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “l’elemento oggettivo della fattispecie del mobbing è integrato dai ripetuti soprusi legati tra loro dall’intento persecutorio nei confronti della vittima” (cfr. Cons Stato, sez. IV, 7 febbraio 2019, n. 910).
Inoltre, sotto il profilo dell’elemento psicologico è necessario che gli accadimenti siano sussumibili sotto “l’egida unificante del dolo generico o specifico” di danneggiare psicologicamente il lavoratore, emarginandolo sulla base di un’unica strategia.
A parere del Consiglio di Stato, “singoli atti” riconducibili all’ordinaria dinamica del rapporto di lavoro, perfino se conflittuale a cagione di antipatia, sfiducia, scarsa stima professionale, ove non caratterizzati da tale volontà, non assumono rilievo nella necessaria visione d’insieme del fenomeno.
I giudici hanno poi precisato che l’analisi del mobbing impone di non sottovalutare l’ipotesi che l’insorgere di un clima di cattivi rapporti umani e di comportamenti oggettivamente sgraditi derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell’interessato.
Tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l’ambiente di lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni militari o gerarchicamente organizzate, quali i Corpi di Polizia, caratterizzate per definizione da una severa disciplina e in cui “non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate”.