Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 febbraio 2021, n. 4075
Reato di lesioni personali, Colpa consistita in imprudenza,
negligenza, imperizia e violazione della normativa sulla prevenzione degli
infortuni sul lavoro, Estinzione per prescrizione, Accertamento tecnico
peritale al fine del corretto accertamento delle cause dell’evento
infortunistico, Regola cautelare (generica o specifica), prevedibilità ed
evitabilità dell’evento dannoso e sussistenza del nesso causale tra la condotta
ascrivibile al garante e l’evento dannoso
Ritenuto in fatto
1. La Corte di Appello di Roma, pronunciando nei
confronti dell’odierno ricorrente, G.P., con sentenza del 21/5/2019, in riforma
della sentenza del Tribunale di Roma, emessa in data 23/3/2018, appellata
dall’imputato, ha dichiarato non doversi procedere per il reato di cui al capo
2) dell’imputazione perché estinto per prescrizione, rideterminando la pena per
il reato di cui al capi 1) in mesi 2 di reclusione, confermando nel resto, con
condanna alla rifusione delle spese di parte civile.
Il tribunale capitolino aveva condannato il P.,
previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ritenute
equivalenti sull’aggravante relativa alla prevenzione degli infortuni sul
lavoro, alla pena di mesi 2 e giorni 20 di reclusione, con condanna al
risarcimento dei danni subiti dalla parte civile, C.A., da liquidarsi in
separata sede civile, con assegnazione di una provvisionale di € 10.000,00,
oltre alla rifusione delle spese, con i benefici della sospensione condizionale
della pena e della non menzione, dichiarandolo responsabile, dei seguenti
reati, riuniti per continuazione:
1) art.
590 cod. pen.commi 2 e
3 perché cagionava, a C.A. lesioni, consistite in varie fratture scomposte,
guaribili in almeno 30 giorni, per colpa consistita in imprudenza, negligenza,
imperizia e violazione della normativa di cui al capo seguente, con la condotta
in esso descritta, agendo quale titolare dell’impresa “T.S. 3000 srl”
ed esecutore effettivo dei lavori di riparazione dell’ascensore del fabbricato
Pai.C-41, isola 19, L.go Olgiata 19, insieme al dipendente suddetto che aveva
la qualifica di apprendista;
2) art.
71, co. 4, lett. a, D.L.vo 81/08, perché, mentre effettuava i lavori di cui
al capo 1) e trovandosi sulla copertura della cabina dell’ascensore che fungeva
da piano di lavoro, insieme al dipendente C.A., ometteva di predisporre idonei
dispositivi di sicurezza, in particolare non provvedeva ad ancorare l’impianto
di sollevamento alla guida dello steso ed a verificare l’efficienza del freno
paracadute, talché l’ascensore cadeva al suolo da un’altezza di circa 5 metri.
In Roma l’8/10/2012.
2. Avverso la sopra menzionata sentenza di secondo
grado ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di
fiducia, P.G., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente
necessari per la motivazione, come disposto dall’art.
173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Con un primo motivo deduce violazione di legge e
vizio di motivazione in relazione all’applicazione della norma sul nesso di
causalità, di cui all’art. 40 cod. pen., tra la
mancata condotta addebitata e il verificarsi dell’evento.
Si lamenta in ricorso che il giudizio di
colpevolezza sarebbe fondato unicamente sulle dichiarazioni del C., parte lesa,
e dei testimoni P. e P., sia per quanto riguarda la ricostruzione dei fatti che
per l’accertamento del nesso di causalità: in particolare, trattandosi di reato
omissivo, per l’accertamento della condotta che il P. avrebbe dovuto tenere per
evitare il verificarsi dell’evento.
Rilevato, quindi, che sarebbe pacifica, anche se non
accertata tecnicamente con una perizia, l’identificazione del cedimento delle
guide di sicurezza, predisposte dall’imputato, come causa della caduta
dell’ascensore, ci si duole del mancato accertamento delle cause di detto
cedimento, necessario ai fini dell’individuazione del titolare della posizione
di garanzia alla base della responsabilità penale dell’accaduto.
Sostanzialmente si contesta l’assenza di una
corretta analisi, da valutarsi ex ante e non ex post, della sussistenza del
nesso di causalità ai sensi dell’art. 40 cod. pen.
Il giudice di merito, precisa il ricorrente, avrebbe dovuto verificare se
effettivamente il P. fosse obbligato ad installare, nel tipo di intervento
specifico effettuato sull’ascensore, un ulteriore strumento di sicurezza e,
eventualmente, quale specifico strumento ed, inoltre, se effettivamente lo
stesso P. avesse potuto prevedere i rischi connessi che richiedevano ulteriori
cautele.
Nessun elemento sarebbe emerso a riguardo,
nell’istruttoria dibattimentale di primo grado e, pertanto, in assenza di
rinnovazione istruttoria risulta viziata anche la decisione di appello sul
punto.
Si rileva che le dichiarazioni testimoniali
utilizzate ai fini della decisione, rimarrebbero alla stregua di mere
valutazioni personali e, soprattutto, si porrebbero ex post e non ex ante
rispetto all’evento, risultando, pertanto, inefficaci al fine di superare il
limite dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
Sarebbe rimasto del tutto indimostrato che
l’ulteriore misura di sicurezza ipotizzata, richiamata dai testi, avrebbe
effettivamente, oltre ogni ragionevole dubbio, impedito l’evento delle lesioni
al dipendente.
Così come sarebbe rimasto indimostrata l’esistenza,
a carico dell’imputato, del l’obbligo giuridico di impedire l’evento, quanto
meno in relazione alla prevedibilità dello stesso evento.
Si sottolinea che nessun accertamento è stato svolto
sulla corretta manutenzione ordinaria, affidata alla ditta committente del
lavoro, nonché sullo stato dell’impianto e delle guide paracadute che non hanno
funzionato come dovuto.
Il ricorrente contesta, quindi, l’errata ed illogica
interpretazione della legge, operata senza disporre il necessario accertamento
tecnico peritale al fine del corretto accertamento delle cause dell’evento.
Con un secondo motivo si deduce violazione di legge
e vizio di motivazione in relazione all’art. 43
cod. pen., per l’ipotesi di reato contestata in correlazione con il D.L.vo 81/2008.
Ci si duole dell’avvenuta dichiarazione di
responsabilità dell’imputato senza alcuna prova dell’esistenza di una norma che
preveda un ulteriore obbligo di sicurezza, la cui elusione possa essere
attribuita al P., nonché senza la necessaria individuazione del tipo di colpa,
generica o specifica, attribuita allo stesso.
Si evidenzia che in assenza di specifiche
indicazioni di legge, su eventuali ulteriori sistemi di sicurezza, fa fede il
Documento di valutazione dei rischi dell’azienda. In base a tale documento,
certificato dall’apposito ente certificatore, la condotta tenuta dall’imputato
appare corretta e rispettosa delle regole di buona tecnica ed esperienza, senza
elusione di alcun obbligo.
Non sussisteva, nel caso che ci occupa, secondo la
tesi propugnata in ricorso, alcun obbligo giuridico di installare un ulteriore
sistema di sicurezza.
Si contesta, inoltre, il mancato accertamento
dell’effettiva e concreta prevedibilità dell’evento, sottolineando che il P.
interveniva, su chiamata della ditta manutentrice dell’impianto, per riparare
un guasto per nulla attinente con i sistemi di sicurezza, che risultavano
documentalmente efficienti.
Si evidenzia, infine, che l’intervento veniva posto
in essere in prima persona dall’imputato, ponendo eventualmente in pericolo in
primo luogo la propria incolumità.
Con un terzo motivo si deduce violazione di legge e
vizio di motivazione in relazione al valore del documento di valutazione del
rischio redatto dall’azienda T.S. 3000 ai sensi del D.L.vo
81/2008.
Ci si duole dell’esclusione della valenza del
documento indicato, necessario al fine di ricostruire il grado di prevedibilità
dell’evento dannoso.
Il documento è stato definito, dai giudici di
appello, carente ed incompleto, omettendo di considerare il disposto normativo
previsto dal D.L.vo 81/2008 in tema di
validazione e certificazione del documento dei rischi redatto dal datore di
lavoro.
Ebbene, si sostiene in ricorso che il documento in
questione recava l’attestazione dell’ente certificatore, pertanto, sulla base
della scheda relativa al tipo di intervento eseguito, la condotta tenuta
dall’imputato appare assolutamente rispettosa degli obblighi di sicurezza
imposti dalla normativa antinfortunistica.
La Corte capitolina sarebbe, secondo la tesi del
ricorrente, incorsa nel vizio di travisamento della prova che non può
escludersi, trattandosi di cosiddetta doppia conforme, in quanto nella
motivazione sullo specifico motivo di appello avrebbe richiamato dati probatori
(DVR e scheda tecnica), non esaminati dal primo giudice.
Infatti, nonostante l’avvenuta produzione in primo
grado del DVR, lo stesso documento non sarebbe stato assolutamente valutato dal
tribunale. Perciò il documento di valutazione dei rischi avrebbe dovuto essere
valutato, in sede di appello, esclusivamente in chiave difensiva, unitamente al
parere tecnico dell’Arpa.
Tale parere precisava che il sopralluogo svolto era
avvenuto in maniera puramente visiva, non potendosi compiere prove di
funzionamento, di conseguenza non sarebbe possibile escludere altre cause
determinanti l’evento.
Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza
impugnata, con ogni conseguente statuizione.
3. Nei termini di legge, il 17.11.2020, ha
rassegnato le proprie conclusioni scritte per l’udienza pubblica senza
discussione orale (art. 23 co. 8
d.l. 137/2020), il P.G. presso questa Suprema Corte, chiedendo dichiararsi
l’inammissibilità del ricorso, con ogni ulteriore conseguenza.
4. In data 3.12.2020 sono state presentate repliche
e conclusioni nell’interesse del P., a firma del proprio difensore avv. F.O.,
il quale ha insistito per l’annullamento della sentenza impugnata o, in
subordine, perché venga dichiarata la prescrizione del reato.
In particolare, quanto al primo motivo di ricorso,
si sostiene, contrariamente a quanto sostenuto dal PG in sede di conclusioni,
che quanto dedotto dalla difesa nell’atto di ricorso mira esattamente ad
evidenziare l’erronea applicazione della legge penale sostanziale al caso
concreto e, dunque, l’erronea qualificazione giuridica del fatto e la
conseguente errata sussunzione del caso concreto nella fattispecie astratta. La
titolarità di una posizione di garanzia riconosciuta, come nel caso di specie,
in capo al datore di lavoro non comporterebbe, in presenza del verificarsi di
un evento infortunistico, un automatico addebito di responsabilità colposa a
carico del garante imponendo invece il principio di colpevolezza la verifica in
concreto sia della sussistenza della violazione da parte del garante di una
regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità
dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (la
cosiddetta concretizzazione del rischio) – di cui ai successivi motivi di
ricorso – e sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile
al garante e l’evento dannoso. Nello specifico, il ricorrente fa riferimento a
quanto affermato e ribadito da numerosi arresti giurisprudenziali di questa
Suprema Corte alla stregua dei quali il nesso di causalità non può essere
affermato sulla base di un coefficiente di mera probabilità statistica (Sez. 4,
n. 35115/2007; Sez. IV, n. 12894/2006), essendo piuttosto necessario un
giudizio di probabilità logica (Sez. 4, n. 39594/2007) operato in concreto,
tenendo conto di tutte le circostanze che connotano il caso (Sez. 4, n.
3003/2007)
L’individuazione del nesso causale effettuata dalla
Corte territoriale sarebbe frutto di una valutazione non conforme alla legge.
Un primo dato si rinverrebbe nel verbale di
ispezione e prescrizione redatto ai sensi dell’art. 19 D. L. 758/94,
dall’Autorità Ispettiva (AUSL Roma E, Dipartimento per la Prevenzione. Servizio
per la prevenzione e la Sicurezza nei luoghi di lavoro) e trasmesso alla
Procura della Repubblica ai fini dell’esercizio dell’azione penale. Orbene le
prescrizioni riportate nel documento, che si riportano nelle note difensive,
sono assolutamente generiche e non corrispondono a quanto dedotto dalla Corte
territoriale al fine di ricostruire il nesso causale tra la condotta omessa e
l’evento.
Gli ispettori dell’AUSL non indicano, infatti, quali
dispositivi di sicurezza dovranno essere adottati e si concentrano invece
sull’efficienza del freno paracadute, dispositivo di cui si è accertato il
cedimento. Quanto prescritto dall’Autorità Ispettiva, dunque, non farebbe che
confermare che l’individuazione della condotta cautelativa omessa così come
ricostruita dai giudici di merito sarebbe frutto di una valutazione postuma
effettuata sulla scorta della dinamica dell’incidente (in altre parole: dato
che la cabina e precipitata, si va a cercare uno strumento idoneo a reggere e
si costruisce una regola specifica cautelare da attribuire al soggetto titolare
di posizione di garanzia).
Nella stessa direzione condurrebbe il parere
dell’ARPA Lazio, il quale attesta che il P. aveva accuratamente predisposto il
sistema di sicurezza del freno paracadute, ovvero un sistema di sicurezza
idoneo ad evitare la caduta della cabina, non dipendendo da lui l’inefficienza
del freno paracadute, che avrebbe potuto determinare la caduta della cabina in
qualunque momento, in maniera assolutamente imprevedibile ed indipendentemente
dall’intervento effettuato dalla T.S. 3000.
Il difensore dell’imputato insiste sul fatto che, in
assenza di un accertamento peritale, non vi è alcun elemento da cui possa
assumersi in capo al P. l’esistenza di un obbligo di porre in essere ulteriori
cautele e ciò a prescindere dal documento di valutazione del rischio previsto
dall’art. 28 D.lgs 81/2008.
Richiamata la giurisprudenza di questa Corte di
legittimità in materia di posizione di garanzia rispetto ai possibili infortuni
del lavoratore il difensore del P. insiste per l’accoglimento del ricorso ed il
conseguente annullamento della sentenza impugnata oppure, in via subordinata,
chiede che a tale annullamento si pervenga a seguito dell’estinzione del reato
per intervenuta prescrizione.
Considerato in diritto
1. I motivi sopra illustrati appaiono manifestamente
infondati e, pertanto, il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
2. Il ricorrente non si confronta criticamente in
termini adeguati con le sentenze impugnate, non tenendo nel dovuto conto che
siamo di fronte ad una doppia conforme affermazione di responsabilità, e che,
quando, come nel caso che ci occupa, le censure formulate contro la decisione
di primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già
esaminati e disattesi, il giudice di secondo grado, nell’effettuare il
controllo in ordine alla fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza
impugnata, non è chiamato ad un puntuale riesame di quelle questioni riportate
nei motivi di gravame, sulle quali si sia già soffermato il prima giudice, con
argomentazioni che vengano ritenute esatte e prive di vizi logici, non
specificamente e criticamente censurate.
In una simile evenienza, infatti, le motivazioni
della pronuncia di primo grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano
a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre
in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione,
tanto più ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri
omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti
alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione,
di guisa che le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano
una sola entità (confronta l’univoca giurisprudenza di legittimità di questa
Corte: per tutte Sez. 2 n. 34891 del 16/5/2013, Vecchia, Rv. 256096; conf. Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep.2012,
Valerio, Rv. 252615: Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Albergamo ed
altri, Rv. 197250).
Nella motivazione della sentenza il giudice del
gravame di merito non è tenuto, inoltre, a compiere un’analisi approfondita di
tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le
risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una
loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del
suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne
consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le
deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano
logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Sez. 6, n. 49970 del
19/10/2012, Muià ed altri, Rv.254107).
La motivazione della sentenza di appello è del tutto
congrua, in altri termini, se il giudice d’appello abbia confutato gli
argomenti che costituiscono l'”ossatura” dello schema difensivo
dell’imputato, e non una per una tutte le deduzioni difensive della parte, ben
potendo, in tale opera, richiamare alcuni passaggi dell’iter argomentativo
della decisione di primo grado, quando appaia evidente che tali motivazioni
corrispondano anche alla propria soluzione alle questioni prospettate dalla
parte (così si era espressa sul punto sez. 6, n. 1307 del 26/9/2002, dep. il
2003, Deivai, Rv. 223061).
3. Nei proposti motivi non si comprende per quale
ragione non dovrebbero avere valenza di piena prova le dichiarazioni
testimoniali, non essendo peraltro emerso nel corso del giudizio alcun elemento
che ne abbia posto in dubbio l’attendibilità.
C’era un primo dato di fatto acclarato, che il
ricorrente pare trascurare, su cui si era soffermato il giudice di primo grado,
ovvero quello che è emerso dalle dichiarazioni della persona offesa, che non
sono state smentite dall’imputato con argomentazioni concludenti, che in
occasione di altri interventi analoghi c’era stata l’adozione dell’ulteriore
sistema di sicurezza costituito dall’ancoraggio dell’ascensore alle relative guide
mediante l’apposito paranco di sicurezza (cfr. pag. 3 della sentenza di primo
grado). E che quel giorno ciò non fu fatto perché tale strumento non era
disponibile e si cominciò l’intervento, nonostante le perplessità del C., per
l’insistenza del P., che si posizionò lui stesso ad operare sulla cabina
ascensore, mentre l’apprendista in una prima fase si limitava a passargli gli
attrezzi rimanendo sul pianerottolo. Fu in un secondo momento, quando il P.
chiese a C. di aiutarlo perché non ce la faceva a compiere da solo l’operazione
cui era intento, e il lavoratore salì anche lui sul tetto della cabina, che la
stessa precipitò per l’inadeguato funzionamento del freno.
Va evidenziato che per il dettato della normativa
prevenzionistica e per la costante giurisprudenza di questa Corte di
legittimità la circostanza che il datore di lavoro operi anche in prima persona
e sottoponga anche se stesso al rischio derivante dall’omessa predisposizione
di misure prevenzionali, non muta i suoi doveri nei confronti della sicurezza
dei lavoratori da lui dipendenti,
Con il primo motivo di ricorso il ricorrente si
limita a ripercorrere, in senso critico, la motivazione della Corte
territoriale sul punto della dedotta erronea applicazione della legge, ed in
specie della erronea individuazione del nesso di causalità ex art. 40 cod. pen. tra la mancata condotta
addebitata al ricorrente e il verificarsi dell’evento, e a criticare
genericamente le risultanze dell’istruttoria espletata, che a suo dire avrebbe
avuto bisogno del conforto di un accertamento tecnico peritale, al fine di
stabilire con certezza quale comportamento lecito avrebbe dovuto essere nel
concreto adottato. Tali censure, reiterate in questa sede di legittimità, non
colgono nel segno, in quanto la Corte capitolina le ha analiticamente prese in
considerazione per disattenderle compiutamente.
Accertate nei fatti le circostanze del reato
contestato, gli apporti dei testi esperti e le relazioni acquisite avevano
permesso di stabilire, con certezza, che nella lavorazione effettuata dal P.
nel giorno del sinistro (sostituzione della guarnizione del pistone, previo
smontaggio della puleggia e rimontaggio a fine lavoro) è necessario azionare un
incatenamento dell’ascensore alle guide mediante un paranco, essendo
insufficiente il solo freno paracadute – posto in essere dal ricorrente – ad
evitare il rischio caduta, a maggior ragione nella specie, dovendo, la cabina
sopportare il peso di ben due persone.
Come ricordava già il giudice di primo grado, sul
luogo dei fatti, subito dopo l’incidente, interveniva l’ing. P., del Servizio
di Prevenzione e Sicurezza Luoghi di Lavoro della USL Roma E, che ha confermato
in dibattimento che alla ditta dell’odierno ricorrente venne contestata, tra
l’altro, la norma dell’art. 71
co. 4 lett. a) del D.lvo 81/08 per il mancato rispetto sul luogo di lavoro
delle norme relative all’utilizzo degli impianti e alle modalità di
manutenzione degli ascensori. E la valutazione circa la necessità di un
ulteriore sistema di sicurezza, indicato nel paranco atto ad assicurare la
stabilità dell’ascensore in caso di cedimento del freno paracadute (la cui
efficienza, peraltro, non era stata preventivamente valutata dal P.) è stata confermata
e trasfusa nella propria relazione anche dall’ing. L.P. dell’ARPA.
Davvero non colgono dunque nel segno le critiche del
ricorrente, secondo cui, pur in presenza di soggetti estranei ai fatti, per
mestiere deputati ai controlli ed esperti di sicurezza sul lavoro, ci sarebbe
stato bisogno di una perizia per stabilire che il freno ascensore non potesse
garantire in toto la sicurezza degli addetti alla manutenzione.
Né la circostanza che il freno ascensore non abbia
funzionato elide la responsabilità per non averne controllato l’efficienza e,
soprattutto, per non avere adoperato, come avvenuto in tutte le altre
occasioni, il paranco, solo perché quel giorno non disponibile.
Esente da critiche nella sua logicità è ad avviso
del Collegio anche la conclusione cui perviene la Corte territoriale che
ritiene, con valutazione non sindacabile nella presente sede in quanto sorretta
da argomentazioni logiche e esaustive, che se tale cautela fosse stata posta in
essere con ogni probabilità l’evento non si sarebbe verificato.
4. Anche il secondo motivo di ricorso è
manifestamente infondato.
Ed invero, non, può essere infatti posto in dubbio,
come fa il ricorrente, che nella specie fosse doveroso il porre in essere
ulteriori cautele per evitare il rischio di evento infausto a prescindere dal
contenuto del documento di valutazione del rischio previsto dall’art. 28 D.Lgs 81/2008.
Come infatti ha messo correttamente in luce la Corte
territoriale nei casi in cui, come nella specie, tale documento non preveda
specificamente un rischio, è obbligo del datore di lavoro, in concreto,
adottare le idonee misure di sicurezza relative ad un rischio non contemplato,
così sopperendo all’omessa previsione anticipata. In altri termini, nel
documento di valutazione del rischio depositato dalla difesa, non era affatto
contemplato il rischio specifico connesso alla riparazione di ascensori in cui
vi fosse la necessità di lavorare sul tetto della cabina come piano di lavoro e
derivante dal pericolo di precipitazione della cabina, presidi che comunque il
P., quale titolare della T. 3.000 s.r.l. e datore di lavoro della parte offesa,
aveva l’obbligo di porre in essere.
Le argomentazioni sul punto della Corte appaiono
coerenti, esaustive e non manifestamente illogiche, per cui sono esenti dai
denunciati vizi di legittimità.
Medesime considerazioni valgono per il terzo motivo,
nel quale si insiste nel ritenere e la completezza del documento dei rischi
redatto dal datore di lavoro, e la sua omessa o travisata considerazione, in
quanto la Corte palesa di avere esaminato il documento in questione, in uno con
le ulteriori evidenze probatorie, per ritenerlo non decisivo ai fini difensivi,
con valutazioni persuasive.
5. Va rilevato, infine, che, ad oggi il reato per il
quale si procede non è prescritto.
Ciò in quanto occorre tenere conto di 262 giorni di
sospensione della prescrizione in ragione dei rinvii per la partecipazione del
difensore alle astensioni di categoria alle udienze del 24/5/2016 e del 21/3/2017,
nonché di 64 giorni di ulteriore sospensione trattandosi di procedimento
pendente e rinviato, nel periodo tra il 12 maggio ed il 30 giugno, a data
successiva con provvedimento del capo dell’ufficio secondo quanto stabilito
dalla normativa emergenziale e in particolare dall’art. 83 del c.d. D.l. 18/2020
(c.d. Decreto Cura Italia).
Peraltro, in ogni caso, nemmeno potrebbe porsi in
questa sede la questione di un’eventuale declaratoria della prescrizione
maturata dopo la sentenza d’appello, in considerazione della manifesta
infondatezza del ricorso. La giurisprudenza di questa Corte Suprema ha,
infatti, più volte ribadito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione
dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un
valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di
rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen (così Sez. Un. n. 32 del
22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 relativamente ad un caso in cui la prescrizione
del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso;
conformi, Sez. Un., n. 23428 del 2/3/2005, Bracale, Rv. 231164, e Sez. Un. n.
19601 del 28/2/2008, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del
8/5/2013, Ciaffoni, rv. 256463).
6. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza
di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla
condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue
quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in
dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila
in favore della cassa delle ammende.