Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 febbraio 2021, n. 2968

Licenziamento per violazione degli obblighi contrattuali,
Inadempimento dei versamenti fiscali e previdenziali per conto del datore di
lavoro, Risarcimento dei danni patrimoniali e non arrecati all’attività e
all’immagine professionale, Compensazione

 

Rilevato che

 

A.T. adiva il Tribunale di Salerno esponendo di aver
svolto attività di impiegato di concetto alle dipendenze di F.A., notaio in
Cava dei Tirreni, dal 1/6/1994 al giorno 11/1/2020 e di esser stato licenziato
per violazione degli obblighi contrattuali ed il venir meno del rapporto di
fiducia; chiedeva quindi dichiararsi l’illegittimità del recesso di parte
datoriale con applicazione della tutela risarcitoria e condannarsi il convenuto
al pagamento della somma di euro 32.571,29 a titolo di differenze retributive,
mensilità aggiuntive, indennità di preavviso, ferie.

F.A. resisteva alle domande attoree e proponeva
domanda riconvenzionale volta a conseguire il risarcimento del danno
all’immagine risentito per effetto della condotta del ricorrente – addetto alla
contabilità – il quale, come da lui stesso ammesso, non aveva adempiuto ai
versamenti fiscali e previdenziali per conto dello studio notarile, pur avendo
annotato sul libro cassa i pagamenti come avvenuti e consegnato al
commercialista e al consulente del lavoro del notaio, false deleghe di
pagamento quietanziate.

Per effetto di tale inadempimento, aveva ricevuto
notifica di decreto penale di condanna per omesso versamento all’Inps delle
ritenute mensili per i dipendenti in relazione all’anno 2007 per complessivi
euro 90.000,00. Sulla scorta di tali premesse, spiegava domanda riconvenzionale
instando per la condanna del ricorrente al risarcimento dei danni patrimoniali
e non patrimoniali arrecati all’attività e all’immagine professionale.

Il giudice adito accoglieva solo in parte la domanda
principale inerente al pagamento delle differenze retributive, che rigettava
nel resto, ed in parziale accoglimento della domanda riconvenzionale,
condannava il convenuto al pagamento della somma di euro 14.268,74 (all’esito
della parziale compensazione fra le differenze spettanti al T. pari ad euro
25.866,38 ed il risarcimento dovuto alla parte datoriale liquidato nella misura
di euro 11.597,64).

Detta pronuncia veniva parzialmente riformata dalla
Corte distrettuale, adita da entrambe le parti; con sentenza resa pubblica il
14/10/2016 il giudice del gravame accoglieva l’appello principale proposto da
F.A., ed, assorbito quello incidentale, condannava A.T. al pagamento della
somma di euro 90.629,55 a titolo di risarcimento del danno patrimoniale e di
euro 30.000,00 quale ristoro per il danno all’immagine risentito dal
professionista.

Avverso tale decisione A.T. interpone ricorso per
cassazione affidato ad undici motivi ai quali resiste con controricorso
l’intimato.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi
dell’art. 380 bis c.p.c.

 

Considerato che

 

1. Con i primi tre motivi si denuncia violazione e
falsa applicazione degli artt. 111 Cost. e 132 c. 1 c.p.c.in relazione all’art. 360 comma primo n.4 c.p.c. (primo motivo)
nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto
di discussione fra le parti ex art. 360 comma primo
n. 5 c.p.c. (secondo e terzo motivo).

Si critica il percorso argomentativo seguito dal
giudice del gravame per mancata consequenzialità fra le premesse
logico-giuridiche e le conclusioni alle quali è pervenuto. Si deduce che la
responsabilità per la perdita patrimoniale risentita dalla parte datoriale, si
sarebbe fondata su di un unico argomento di prova, integrato dalla annotazione
sul cd.”brogliaccio di cassa” di prelievi per somme relative a
pagamenti mai disposti; La circostanza che il ricorrente avesse dichiarato –
contrariamente al vero – di avere proceduto al pagamento di una somma, non
sarebbe indicativa del compimento di un effettivo prelievo, né del fatto che il
datore di lavoro abbia subito un danno patrimoniale, potendosi più propriamente
ipotizzare una fattispecie di falsa scritturazione, non equivalente di per sé,
ad un ammanco o a una perdita subita, ex art. 1223
c.c.

In tal senso la motivazione che innerva la sentenza
impugnata sarebbe affetta dal vizio della mera apparenza per non avere la Corte
distrettuale enunciato il procedimento inferenziale in base al quale alla falsa
scritturazione sarebbe stato collegato un ammanco di cassa. Si osserva per
contro che dal libero interrogatorio del dott. A. e dalle testimonianze
raccolte, si evinceva che il ricorrente non si era appropriato di alcuna somma
proveniente dal conto corrente bancario né di contante, di cui poteva
senz’altro disporre.

2. Il quarto motivo prospetta violazione dell’art. 2730 c.c. ed il quinto, violazione dell’art.2967 c.c. in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.

Si deduce l’erroneità degli approdi ai quali è
pervenuto il giudice del gravame laddove ha ritenuto che l’annotazione sul
brogliaccio relativa ad un pagamento, rivestisse valore confessorio, ponendo a
carico del lavoratore l’onere probatorio relativo alla mancata appropriazione
delle somme stesse.

3. Con il sesto motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione degli artt.1223, 1713, 2043 c.c.
nonché dell’art.345 c.c. in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.

Si critica la pronuncia impugnata per aver
qualificato in termini di danno patrimoniale, il mancato versamento di un
importo prelevato dal dipendente.

4. Con i motivi dal settimo al nono, sotto il
profilo della violazione degli artt.1223, 1226, e 2059 c.c.
(settimo motivo); dell’art. 111 Cost. e 132 c.p.c. (ottavo e nono motivo) in relazione
all’art.360 comma 1 n.4 c.p.c., si censura la
statuizione concernente la disposta condanna al risarcimento del danno
all’immagine.

Ci si duole che non siano state indicate le fonti di
prova del danno accertato, siano state trascurate le acquisizioni probatorie
che escludevano il verificarsi dello stesso, con motivazione meramente
apparente, priva della enunciazione dei criteri utilizzati per pervenire alla
definizione del quantum debeatur.

5. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi
per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, non sono meritevoli
di accoglimento.

In via di premessa, è bene rammentare che il
giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure
alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo
di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in
senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della
decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito
della causa (ex plurimis, vedi Cass. 6/3/2019 n.6519).

Va inoltre rimarcato che in tema di ricorso per
cassazione, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta
a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della
norma di legge ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la
cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di
omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti (ex
aliis, vedi Cass. 11/1/2016 n.195).

Il discrimine tra le distinte ipotesi di violazione
di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta
fattispecie normativa,ovvero erronea applicazione della legge in ragione della
carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato
dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla
contestata valutazione delle risultanze di causa.

Sotto tale profilo, non può tralasciarsi di
considerare che la giurisprudenza di questa Corte è infatti ormai consolidata (Cass., Sez. Un., 7/4/2014, n. 8053; Cass., Sez. Un., 18/4/2018, n. 9558; Cass., Sez.
Un., 31/12/2018, n. 33679) nell’affermare che: il novellato testo dell’art.360 n. 5, cod. proc. civ. ha introdotto
nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto
storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della
sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione
tra le parti, oltre ad avere carattere decisivo; l’omesso esame di elementi
istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se
il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso *in considerazione
dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze
probatorie; neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle
prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante
ai sensi della predetta norma.

Nel giudizio di legittimità è denunciabile solo
l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge
costituzionalmente rilevante, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, in quanto attiene all’esistenza
della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza
impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali: tale
anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto
materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile
tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di
sufficienza della motivazione.

6. Orbene, nello specifico, non può sottacersi che
le critiche articolate dalla difesa del ricorrente non hanno il tono proprio di
una censura di legittimità giacché, sotto l’apparente deduzione del vizio di
violazione e falsa applicazione di legge, di omesso esame circa un fatto decisivo
per il giudizio, di motivazione apparente, degradano in realtà verso
l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici
da cui è originata l’azione con rivisitazione dell’articolato compendio
probatorio, non consentite in sede di legittimità (vedi per tutte Cass., Sez. Un., 27/12/2019, n. 34476).

In breve, la complessiva censura traligna dal
modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 cod. proc. civ., perché pone a suo
presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti, non
censurando puntualmente quella definita in sentenza, ma proponendo una diversa
valorizzazione degli elementi probatori raccolti inidonea ad inficiarne la
fondatezza.

La Corte di merito, all’esito di una approfondita
ricognizione delle acquisizioni probatorie devolute alla sua cognizione, ha
ricostruito la fattispecie sottoposta al suo scrutinio con argomentazioni
congrue e conformi a diritto.

Come fatto cenno nello storico di lite, il giudice
del gravame ha fatto teva sulle testimonianze acquisite per accertare che il
ricorrente maneggiava il contante e deteneva le chiavi della cassaforte di
studio, si occupava dei versamenti in banca e della gestione cassa; ha poi
rimarcato che “il controllo delle entrate e delle uscite dello studio
notarile avveniva periodicamente tra il T. e l’A. sulla scorta del brogliaccio,
la cui compilazione e redazione veniva effettuata unicamente dal dipendente, il
quale poi lo esibiva al notaio per il rendiconto”; ha valorizzato la
medesima affermazione del dipendente di non aver effettuato pagamenti per
l’anno 2007 apponendo sui modelli F24 un timbro della Banca custodito presso lo
studio in modo da far figurare il pagamento come avvenuto; ha fatto richiamo
agli esiti della espletata CTU alla cui stregua era stata acclarata, sulla
scorta della documentazione acquisita, “l’effettiva omissione dei
pagamenti che rientravano nelle specifiche mansioni del T. e che erano apparentemente
attestati dalle deleghe falsificate”; le evidenze documentali ed i
riscontri peritali collimavano, poi, con le dichiarazioni rese dal
commercialista del notaio, il quale aveva riferito che proprio a causa delle
comunicazioni di irregolarità che lo studio aveva ricevuto, era stato
verificato che non vi era corrispondenza fra le deleghe, recanti firma e timbro
della banca, e le comunicazioni di irregolarità provenienti dalla Agenzia delle
Entrate e dall’Inps.

Nell’ottica descritta è, quindi, pervenuto alla
conclusione che l’articolato compendio probatorio aveva imposto l’evidenza
della sussistenza di un ammanco di cassa nella misura complessiva di euro
90.735,55, ascrivibile al comportamento infedele dell’impiegato che alla
gestione della cassa era addetto.

In tal senso è da ritenere priva di pregio la
doglianza sollevata con il quinto motivo, in relazione alla contestata
violazione dei principi in tema di ripartizione dell’onus probandi, in cui
sarebbero incorsi i giudici del merito per aver ritenuto non dimostrata da
parte ricorrente, la circostanza che il denaro fosse rimasto in cassa o
prelevato da terzi.

Questa Corte ha reiteratamente affermato che la
violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c.
si configura se il giudice del merito abbia applicato la regola di giudizio
fondata sull’onere della prova in modo erroneo (cioè attribuendo l’onus
probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di
scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi
ed eccezioni), non anche quando abbia valutato le prove proposte dalle parti
attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre
(Cass. 5/9/2006, n. 19064; Cass. 17/6/2013, n. 15107; Cass. 21/2/2018, n.
4241). Ed è proprio questa la fattispecie considerata, in cui il giudice del
merito è pervenuto alla definizione della quaestio facti in base al corretto
scrutinio delle acquisizioni probatorie, elaborando un giudizio che, per quanto
sinora detto, si sottrae al vaglio di legittimità.

Solo ad abundantiam la Corte ha argomentato
sull’onere della prova non assolto dal lavoratore, il quale avrebbe dovuto
dimostrare di non aver prelevato il danaro risultato mancante; si tratta,
tuttavia, di un’affermazione che non ha spiegato influenza sul dispositivo
della sentenza, fondata sulla dimostrazione della sussistenza ed entità
dell’ammanco di cassa, evidenziata dal complesso delle prove acquisite e degli
accertamenti peritali espletati, come ascrivibile al comportamento del
lavoratore; in tal senso, essendo improduttiva di effetti giuridici, non può
essere oggetto di ricorso per cassazione, per difetto di interesse (vedi per
tutte, Cass. 10/4/2018 n. 8755).

7. Con i motivi decimo ed undecimo, sotto il profilo
della violazione e falsa applicazione degli artt.1223,
1226, 2056 e 2059 c.c. in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c. (decimo motivo) e
degli artt. 111 Cost. e 132
c.p.c.ex art.360 comma primo n.4 c.p.c., si censura la
statuizione con la quale la Corte di mèrito ha liquidato il risarcimento del
danno all’immagine non dando conto dei parametri di riferimento adottati onde
pervenire alla citata quantificazione.

8. Il motivo è infondato.

Non può sottacersi che, secondo i consolidati dieta
di questa Corte, il danno all’immagine ed alla reputazione, inteso come
“danno conseguenza”, non sussiste “in re ipsa”, dovendo
essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento. Pertanto, la sua
liquidazione deve essere compiuta dal giudice, con accertamento in fatto non
sindacabile in sede di legittimità, sulla base non di valutazioni astratte,
bensì del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come
da questa dedotto e dimostrato, anche attraverso presunzioni gravi, precise e
concordanti, che siano fondate, però, su elementi indiziari diversi dal fatto
in sé (vedi Cass. 18/2/2020 n. 4005 in tema di diffamazione, Cass. 18/7/2019 n.
19434, Cass. 28/3/2018 n.7594).

Una volta applicati correttamente i suddetti
parametri di valutazione, costituisce un accertamento in fatto, non sindacabile
in sede di legittimità, stabilire se una determinata condotta abbia cagionato
un danno non patrimoniale.

Nel caso concreto la decisione impugnata, valutando
il pregiudizio risentito dal datore di lavoro, ha mostrato di avere preso in
considerazione la posizione personale e sociale del soggetto leso, in
riferimento sia al profilo oggettivo della violazione commessa, che a quello
soggettivo, relativo alla personalità del soggetto e all’incidenza che la condotta
illecita posta in essere dal dipendente, aveva presumibilmente avuto in
riferimento al contesto sociale e professionale cui si riferiva, “in
considerazione della importanza e delicatezza del ruolo ricoperto”.

Si tratta, quindi, di un giudizio in cui si è tenuto
conto di tutte le circostanze allegate per valutare il danno all’immagine
derivato dall’illecito, con ragionamento inevitabilmente presuntivo, data la
impalpabilità del danno reputazionale.

L’esercizio, in concreto, del potere discrezionale
di liquidare il danno in via equitativa, essendo stato adeguatamente esplicato
il processo logico e valutativo seguito onde pervenire a tale determinazione,
non è pertanto suscettibile di sindacato in sede di legittimità (vedi sul punto
ex aliis, Cass. 13/10/2017 n.24070).

Conclusivamente, alla stregue delle superiori
argomentazioni, il ricorso è respinto.

La regolazione delle spese inerenti al presente
giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo
liquidata.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma
1 quater all’art. 13 DPR 115/2002
– della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte
del: ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità liquidate in euro
200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese
generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 febbraio 2021, n. 2968
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