Il licenziamento del lavoratore per inidoneità psicofisica rientra nel blocco emergenziale.

Nota a Trib. Ravenna 7 gennaio 2021, R.G. n. 578/20.

Gennaro Ilias Vigliotti

All’interno della strategia governativa di lotta alle conseguenze pregiudizievoli della pandemia da coronavirus in corso su tutto il territorio nazionale è stato prevista, già con il D.L. 17 marzo 2020, n. 18, una moratoria per tutti i licenziamenti intimati per ragioni oggettive ai sensi dell’art. 3, L. n. 604/1966. In particolare, l’art. 46 del predetto Decreto ha stabilito che, a decorrere dalla data di entrata in vigore del provvedimento e fino alla scadenza del termine di 5 mesi (da ultimo prorogato sino al 31 marzo 2021), «il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604». Tra i licenziamenti oggettivi bloccati sino al termine della moratoria rientra anche quello intimato a causa della sopravvenuta inidoneità psico-fisica del lavoratore alla mansione: tale licenziamento, infatti, è sistematicamente delineato in giurisprudenza come un’extrema ratio, evitabile con l’adozione di misure organizzative tali da consentire al lavoratore di continuare a lavorare presso la medesima azienda, anche eventualmente passando a svolgere mansioni inferiori. Si tratta, dunque, di un recesso intimato sul fondamento delle ragioni individuate proprio dall’art. 3, L. n. 604/1966, che le qualifica come quelle «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare svolgimento di essa».

Ad affermare tale principio è stato il Tribunale di Ravenna, Sez. Lavoro, nella recente sentenza del 7 gennaio 2021, a firma del Dott. Dario Bernardi, il quale ha conosciuto il caso di un lavoratore licenziato durante il periodo di vigenza della moratoria su recessi oggettivi a seguito del giudizio di inidoneità assoluta alla mansione pronunciato dal medico competente. Il lavoratore aveva impugnato il provvedimento, chiedendo che fosse dichiarato nullo per violazione del divieto imperativo di licenziamento oggettivo durante il periodo emergenziale. L’Azienda, dal suo canto, aveva invece domandato il rigetto del ricorso, in quanto il recesso in questione nulla avrebbe avuto a che fare con le conseguenze dell’emergenza epidemiologica sull’organizzazione aziendale, dunque doveva intendersi escluso dal blocco temporaneamente stabilito dal legislatore.

Il Giudice, accogliendo la domanda del dipendente, ha affermato che per il licenziamento per sopravvenuta inidoneità psico-fisica «valgono le stesse ragioni di tutela economica e sociale che stanno alla base di tutte le altre ipotesi di licenziamento per g.m.o. che la normativa emergenziale ha inteso espressamente impedire. […] Ragionevolmente, in una situazione di contrazione economica (con blocco di una buona parte della domanda: la popolazione era chiusa in casa, c.d. lockdown) con blocchi più o meno totali alle attività di impresa e comunque rallentamenti della stessa in una pluralità di settori produttivi (nulla rileva che nello specifico caso l’impreso abbia continuato a funzionare a pieno regime), la scelta del congelamento dei licenziamenti dei dipendenti […] andava a rimandare alla fase successiva all’emergenza ogni valutazione aziendale circa l’esistenza (a quella data) di giustificati motivi di licenziamento».

Secondo il Tribunale di Ravenna, dunque, anche per il recesso intimato per inidoneità psico-fisica vale la strategia legislativa di posticipare ad un momento successivo al picco emergenziale le valutazioni e le scelte circa la attuale e concreta consistenza organizzativa della società, incluse le opportunità di ricollocare in mansioni diverse un dipendente che, come nel caso di specie, ha perduto l’idoneità a svolgere quelle di assunzione.

Il licenziamento intimato al dipendente divenuto inabile alle mansioni durante il periodo di moratoria è dunque nullo per contrarietà a norma imperativa (argomento ex artt. 1324 e 1418 c.c.), cioè all’art. 46 del D.L. n. 18/2020, come successivamente prorogato. Trattandosi di lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015, il Giudice ha applicato il disposto dell’art. 2, D.LGS. n. 23/2015, il quale sanziona l’atto datoriale affetto da nullità con la reintegra nel posto di lavoro e con una indennità risarcitoria pari alla retribuzione utile per il calcolo del TFR spettante dal giorno del licenziamento fino alla effettiva riammissione in servizio. Sul “blocco” dei licenziamenti, cfr. AA.VV, in G. PROIA (a cura di), Divieto di licenziamenti e libertà d’impresa nell’emergenza Covid. Principi costituzionali, Giappichelli, 2020.

Inidoneità psicofisica e licenziamento
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