Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 gennaio 2021, n. 1756

Domanda concernente il compenso provvigionale, Eccezione di
prescrizione, Rapporto di lavoro non dotato della stabilità reale, Termine
prescrizionale non decorrente in costanza di rapporto, Determinazione della
retribuzione variabile, Criterio di proporzionalità tra l’obiettivo e
l’incentivo, Provvigioni aggiuntive per l’attività ulteriore

 

Rilevato che

 

1. Il Tribunale di Roma respingeva le domande
proposte da E.D., agente della C.I. s.p.a., tra le quali, per quel che ancora
qui rileva, quella intesa ad ottenere il compenso aggiuntivo pari all’1,5% del
fatturato di vendita;

2. la pronuncia del primo giudice era confermata in
sede di gravame con due sentenze non definitive ed una definitiva ed avverso le
stesse veniva proposto ricorso per Cassazione; quest’ultima, con sentenza
n.  2125/2015, accoglieva tre dei motivi
di impugnazione statuendo l’erroneità della decisione della Corte d’appello che
aveva accolto l’eccezione di prescrizione sollevata dalla società in relazione
alla domanda concernente il compenso provvigionale ed il compenso aggiuntivo
richiesti; osservava che la decisione era in contraddizione con precedente
pronuncia che aveva dichiarato inammissibile l’eccezione di prescrizione per
non essere stata la stessa tempestivamente riprodotta in appello e che il
rapporto di lavoro non era dotato della cosiddetta stabilità reale, sicchè il
termine prescrizionale non poteva decorrere in costanza di rapporto; doveva
pertanto essere riesaminata dal giudice del rinvio la domanda concernente il
diritto ritenuto erroneamente prescritto;

3. la Corte d’appello di Roma, con sentenza del
17.10.2016, rigettava le domande indicate nelle conclusioni del ricorso in
riassunzione, rilevando che il doc. 5, posto a fondamento della pretesa di
compenso aggiuntivo sul fatturato di vendita di prodotti al cliente SIP
risultava non firmato e privo di data, conteneva conteggi da cui non emergevano
in modo intellegibile l’incarico dedotto ed, in particolare, l’impegno a
corrispondere provvigioni aggiuntive per l’attività ulteriore asseritamente
pattuita;

4. non solo le prove orali espletate, secondo la
Corte, non avevano confermato l’esistenza a monte di un tale impegno, ma la
società aveva documentalmente dimostrato che il N., il quale avrebbe
autorizzato tali ulteriori attività, non era presidente, né aveva la
rappresentanza legale della società, essendone direttore commerciale e membro
del c.d.a. senza alcun potere di impegnare la C. in materia di compensi ai
dipendenti, potendo solo il presidente ed il direttore amministrativo assumere
determinazioni per la società vincolanti nei confronti dei dipendenti;

5. non poteva ritenersi che il preteso accordo fosse
stato confermato dal Presidente, essendo risultate le dichiarazioni rese dal
teste M. affatto generiche al riguardo e non essendo configurabile l’apparenza
giuridica in ordine ai poteri del N., anche perché il D. era, per il livello di
sua appartenenza, al corrente dei poteri degli altri dirigenti della società;

6. con riferimento all’altra domanda, avanzata in
subordine per il riconoscimento di competenze discendenti dall’aggravio di
lavoro conseguente allo svolgimento delle mansioni aggiuntive, ne veniva
rilevata l’infondatezza per difetto della relativa prova e, quanto all’accordo
relativo alla quota aggiuntiva sull’incentivo, per dedotto superamento del 100%
dell’obiettivo indicato, veniva evidenziato come lo stesso non prevedesse
alcunchè in caso di superamento del 100% dell’obiettivo, stabilendo unicamente
che, in caso di raggiungimento pieno dell’obiettivo, il dirigente avesse
diritto alla somma ivi indicata;

7. di tale decisione domanda la cassazione il D.,
affidando l’impugnazione a due motivi di ricorso, illustrati nella memoria
depositata ai sensi dell’art. 380 bis. 1 c.p.c.,
cui resiste, con controricorso, la società C. Italia.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo, il D. denunzia violazione
degli artt. 1362, 1366
e 1370 c.c., nonché erronea e/o insufficiente
interpretazione delle norme contrattuali relative al diritto al pagamento di
una quota ulteriore dell’incentivo per obiettivi sul secondo semestre dell’anno
2000 e difetto di motivazione, sostenendo il ricorrente che, a fronte del
raggiungimento di un fatturato pari a lire 6.935.948.200, con conseguimento
anche di tutti gli obiettivi qualitativi, in luogo dei 15 milioni di lire
riconosciutigli, egli avrebbe avuto diritto ad almeno 48.661.500 lire; adduce
che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte distrettuale, il piano per
la determinazione della retribuzione variabile individuava espressamente un
criterio di proporzionalità tra l’obiettivo e l’incentivo, laddove stabiliva
che “il calcolo delle relative commissioni sarà effettuato in base al
raggiungimento percentuale dell’obiettivo (funzione lineare)” (doc. 17);

1.1 sostiene che la Corte abbia del tutto ignorato
sia le risultanze istruttorie dei precedenti gradi di merito, sia il criterio
di proporzionalità pattuito e l’assenza nel detto Accordo di una espressa
previsione di un tetto massimo per l’incentivo: l’errore del giudice del rinvio
veniva individuato nell’avere ritenuto operante solo un unico scaglione di
risultato “minimo” da raggiungere per potere conseguire il relativo
“incentivo”, laddove era, invece, previsto che il calcolo delle
commissioni avvenisse in base al raggiungimento percentuale dell’obiettivo;

1.2. osserva che, oltre al dato testuale, debba
aversi riguardo ad una serie di altri criteri, quali quello della buona fede,
di cui all’art. 1366 c.c., quello di cui all’art. 1370 c.c., secondo cui le clausole inserite
nelle condizioni generali del contratto o in moduli o formulari predisposti da
uno dei contraenti s’interpretano, nel dubbio, a favore dell’altro”;

2. con il secondo motivo, il ricorrente lamenta
violazione degli artt. 35 e 36 Cost., adducendo erronea interpretazione delle
norme costituzionali relativamente al diritto al pagamento di una quota
ulteriore dell’incentivo per obiettivi sul secondo semestre 2000, sul rilievo
che debba prevalere una prospettiva di equilibrio dell’aspetto contenutistico
del rapporto di lavoro tesa ad evitare che prevalga la condizione del
contraente più forte e ad affermare l’immediata portata precettiva dell’art. 36 Cost., da ritenere non circoscritta
soltanto alla salvaguardia di trattamenti retributivi “minimi”, ma
applicabile in ogni fattispecie anche ove si tratti di corrispettivi collegati
al raggiungimento di obiettivi stabiliti dal datore di lavoro;

2.1. sostiene che occorra avere riguardo ad un
principio di proporzionalità tra risultato economico ottenuto dall’azienda e
conseguente maturazione, da parte del dipendente, di incentivi economici,
peraltro calcolati in percentuale, in quanto, diversamente opinando, si
realizzerebbe un indebito arricchimento dell’azienda;

3. va richiamato, relativamente al primo motivo, il
principio, affermato da questa Corte, secondo cui le regole legali di
ermeneutica contrattuale sono governate da un principio di gerarchia, in forza
del quale i criteri degli artt. 1362 e 1363 cod. civ. prevalgono su quelli integrativi
degli artt. 1365- 1371
cod. civ., posto che la determinazione oggettiva del significato da
attribuire alla dichiarazione non ha ragion d’essere quando la ricerca
soggettiva conduca ad un utile risultato ovvero escluda da sola che le parti
abbiano posto in essere un determinato rapporto giuridico;

3.1. ne consegue che l’adozione dei predetti criteri
integrativi non può portare alla dilatazione del contenuto negoziale mediante
l’individuazione di diritti ed obblighi diversi da quelli contemplati nel
contratto o mediante l’eterointegrazione dell’assetto negoziale previsto dai
contraenti, neppure se tale adeguamento si presenti, in astratto, idoneo a ben
contemperare i loro interessi (Cfr. 24.1.2012 n. 925, Cass. 21.8.2013 n. 19357);

3.2. anche ove si intenda correttamente formulata la
censura con specifica indicazione delle ragioni che sottendono la dedotta
violazione di ciascuna delle norme richiamate – in conformità alla previsione
di un onere di specificare i C. che in concreto si assumano violati, ed in
particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli
stessi discostato, (cfr. Cass. 27.6.2018 n. 16987, Cass. 28.11.2017 n. 28319, Cass. 15.11.2013 n. 25728) -, è da escludersi
l’asserita violazione dei criteri ermeneutici indicati in rubrica, essendo
stato correttamente evidenziato come sia contrario al testo della pattuizione
ed alla lettera del suo contenuto il riconoscimento, da parte della società, di
una quota proporzionale dell’incentivo anche oltre il limiti dell’ obiettivo
indicato ed al di là della sua misura integrale, come preteso dal ricorrente;

4. con riguardo al secondo motivo, è pacifico
orientamento giurisprudenziale di questa Corte quello secondo cui in tema di
adeguamento della retribuzione ai sensi dell’art.
36 Cost., il giudice del merito, anche nell’ipotesi in cui assuma come
criterio orientativo un contratto collettivo non vincolante per le parti, non
può fare riferimento a tutti gli elementi e gli istituti retributivi che concorrono
a formare il complessivo trattamento economico, ma “deve prendere in
considerazione solo quelli che costituiscono il cosiddetto minimo
costituzionale, dal quale sono escluse le voci tipicamente contrattuali quali i
compensi aggiuntivi, gli scatti di anzianità o la quattordicesima
mensilità” (cfr. Cass. 13.5.2002 n. 6878, Cass.
17.1.2004 n. 668);

4.1. la pretesa non è stata, poi, mai azionata ai
sensi dell’art. 2041 c.c. e pertanto neanche
trova spazio il richiamo ad un indebito arricchimento di cui beneficerebbe
l’azienda, dovendo osservarsi che l’azione generale di arricchimento ha natura
complementare e sussidiaria, potendo essere esercitata solo quando manchi un
titolo specifico sul quale possa essere fondato un diritto di credito; la
stessa, invero, si differenzia da ogni altra azione sia per presupposti che per
limiti oggettivi ed integra un’azione autonoma per diversità di causa petendi
rispetto alle azioni fondate su titolo negoziale, ciò che conduce ad escludere
che essa possa ritenersi proposta, per implicito, in una domanda fondata su
altro titolo;

5. alla stregua delle esposte considerazioni, il
ricorso deve essere complessivamente respinto;

6. le spese del presente giudizio seguono la
soccombenza del ricorrente e sono liquidate nella misura indicata in
dispositivo;

7. sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 115
del 2002;

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per
esborsi, euro 3500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e
accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13,
comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.13, comma 1bis, del citato D.P.R.,
ove dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 gennaio 2021, n. 1756
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