Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 febbraio 2021, n. 3659
Personale non dirigente del comparto regioni ed autonomie
locali, Licenziamento senza preavviso, Denaro incassato indebitamente
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza n.
4562/2018, decidendo sul reclamo proposto da F.S. nei confronti di Roma
Capitale, confermava la pronuncia del Tribunale che aveva respinto la domanda
dell’opponente S. intesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità del
licenziamento senza preavviso intimatogli da Roma Capitale in data 11/5/2016 ai
sensi dell’art. 3, comma 1, lett.
a), b), c), d) e comma 8, lett. f) del c.c.n.I. 2006/2009 per il personale
non dirigente del comparto regioni ed autonomie locali.
La vicenda aveva preso le mosse da una
video-registrazione effettuata presso l’Ufficio comunale denunce di morte in
Roma, via del V. n. 80, da un giornalista della trasmissione televisiva “S.N.”
da cui si evinceva che il funzionario amministrativo F.S. aveva ricevuto, in
diverse occasioni, 5,00 euro dai cittadini che presentavano allo sportello
denuncia di morte per ottenere il relativo certificato che invece era gratuito.
Appresa tale notizia, il Direttore dell’Ufficio
anagrafe aveva comunicato quanto accaduto al Dipartimento delle risorse umane
ai fini delle pertinenti iniziative disciplinari e trasmesso gli atti alla
Procura della Repubblica.
Era stata, quindi, formulata contestazione
disciplinare e, svolte ulteriori indagini al fine di accertare quanti
certificati fossero stati rilasciati dal S. nel periodo 1/9/2015 – 30/1/2016,
era stato adottato il provvedimento di licenziamento senza preavviso.
Tale provvedimento era ritenuto legittimo dai
giudici di prime cure e dalla Corte territoriale in sede di reclamo.
2. Escludeva la Corte capitolina ogni violazione
dell’art. 55 bis, comma 4, del
d.lgs. n. 165/2001 per essere stato il procedimento disciplinare definito
da un organo monocratico (direttore dell’UPD) laddove l’istruttoria era stata
condotta da componenti dell’ufficio ma non dal direttore, ritenendo che la
configurazione dei collegi di disciplina come collegi perfetti non fosse
coessenziale alla funzione di valutazione e di giudizio propria di tali organi.
Riteneva che non vi fosse stata alcuna erronea
ovvero omessa ricostruzione del fatto che doveva considerarsi sussistente e
condivideva anche il giudizio espresso dal Tribunale circa la genericità delle
contestazioni mosse dal S. al contenuto del DVD relativo alla registrazione
effettuata dal giornalista televisivo, dal quale si evinceva chiaramente che il
S. (insieme con altri due dipendenti dei quali uno, l’istruttore amministrativo
V.M., aveva riconosciuto, vedendo il video, non solo se stesso ma anche il S. e
il terzo dipendente).
Evidenziava, poi, che, al di là del contenuto del
video e delle dichiarazioni rese da una persona che in tale video era
incappucciata, la prassi denunciata della dazione di 5,00 euro per ogni
certificato di morte rilasciato fosse emersa dalle dichiarazioni rese nel
procedimento penale dal teste M. e non fosse mai stata contestata dal S.
Sottolineava che la dazione di denaro, irrilevante
essendo la circostanza che con ordine di servizio era stato limitato il rilascio
di certificati per estratto nella misura massima di uno per volta, consentisse
di ottenere detti certificati già all’atto della richiesta, senza dover
attendere altro tempo.
Riteneva che la massima sanzione irrogata fosse
proporzionata alla gravità dei fatti contestati ed evidenziava che il numero
delle volte in cui il S. aveva rilasciato più di un certificato di morte
escludesse altresì che fossero state incassate indebitamente somme di modico
valore.
Richiamava il contenuto del codice di comportamento
di cui alla deliberazione della Giunta capitolina n. 429/2013 e riteneva che la
richiesta o accettazione di regali o di altre utilità anche di modico valore
qualora come nella specie non “d’uso” (in quanto correlata alla definizione,
nell’interesse di chi aveva erogato l’utilità, di una pratica amministrativa)
integrasse un comportamento contrario ai doveri d’ufficio.
Da ultimo respingeva la tesi che potesse avere
rilevanza l’esito assolutorio del Tribunale penale in relazione al reato di
corruzione e rimarcava l’autonomia della valutazione in sede disciplinare sotto
il profilo dell’inadempimento dei doveri ed obblighi che il dipendente è tenuto
ad osservare.
3. Per la cassazione della sentenza F.S. ha proposto
ricorso con quattro motivi.
4. Roma Capitale ha resistito con controricorso.
5. Il ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia
violazione e falsa applicazione dell’art.
55 bis, comma 4, d.lgs. n. 165/2001 (art. 360,
n. 3, cod. proc. civ.).
Censura la sentenza impugnata per aver escluso
l’illegittimità del procedimento disciplinare che era stato condotto e definito
da organo monocratico e non collegiale e sostiene che l’UPD è per legge una
struttura plurisoggettiva a valenza collegiale.
2. Il motivo è infondato.
2.1. Va innanzitutto evidenziato che, nella specie,
come precisato nella sentenza impugnata (v. pag. 8) sulla base di un
accertamento in fatto non rivedibile in questa sede di legittimità (v. anche
infra), l’Ufficio competente per i procedimenti disciplinari non aveva affatto
natura plurisoggettiva ed il titolare dello stesso solo si avvaleva, per gli
atti istruttori necessari (che evidentemente non poteva condurre
personalmente), di una apposita struttura amministrativa.
Né invero la disposizione di cui all’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001
impone la costituzione dell’UPD nelle forme e con le regole dell’organo
collegiale.
Ed allora, in una fattispecie quale quella per cui è
causa, il titolare dell’ufficio dei procedimenti disciplinari può delegare il
compimento di singoli atti ai dipendenti assegnati all’ufficio stesso, purché
ne faccia propri i risultati provvedendo all’esame della istruttoria, alla
contestazione dell’addebito ed alla irrogazione della sanzione (v. in tal senso
Cass. 9 maggio 2018, n. 11160).
2.2. Si aggiunga, in ogni caso, che, come da questa
Corte già affermato, occorre distinguere le regole legali sulla competenza da
quelle regolamentari che disciplinano la costituzione e il funzionamento
dell’organo collegiale secondo l’ordinamento interno di ciascuna Pubblica
Amministrazione, perché il d.lgs. n. 165 del 2001
«non attribuisce natura imperativa “riflessa” al complesso delle
regole procedimentali interne che regolano la costituzione e il funzionamento
dell’UPD». Ciò perché l’interpretazione dell’art. 55 bis, comma 4, non può
essere ispirata ad un eccessivo formalismo ma deve essere coerente con la sua
ratio, che è quella di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti pubblici,
senza alcuna eccezione, anche per i casi più gravi di condotte penalmente
rilevanti, tenendo, però, in considerazione i principi di cui agli artt. 54, 97 e 98 Cost.. Si è conseguentemente ritenuto che, ai
fini della legittimità della sanzione, rileva che sia stato garantito il
principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione
dell’ufficio dei procedimenti, il che «postula solo la distinzione sul piano
organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente»
(v. Cass. 2 marzo 2017, n. 5317; Cass. 25 ottobre 2017, n. 25379; Cass. 6 febbraio
2019, n. 3467).
3. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia
omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti (art. 360, n. 5, cod.
proc. civ.).
Sostiene che la Corte territoriale avrebbe, da un
lato, argomentato ed affermato la natura collegiale dell’UPD e, dall’altro, in
modo del tutto contraddittorio negato tale natura.
Evidenzia, al fine di sgombrare il campo da
possibili dubbi che potrebbero essere indotti dalla presenza di un doppio
rigetto in primo grado ed in appello e dunque al fine di evitare
l’inammissibilità del motivo per la presenza di una “doppia conforme” ai sensi
e per gli effetti dell’art. 348 ter cod. proc.
civ., che il giudice di primo grado aveva affermato la natura collegiale
dell’UPD mentre il giudice del reclamo la aveva contraddittoriamente sia
affermata sia negata.
4. Il motivo è inammissibile.
Si evince dalla stessa sentenza impugnata che già il
giudice di primo grado (contrariamente all’assunto del ricorrente) aveva evidenziato
come non risultasse la natura collegiale dell’UPD (si veda il passaggio della
sentenza del Tribunale testualmente riportato alle pagg. 4 e 5 della pronuncia
resa dalla Corte territoriale in sede di reclamo).
Eguale natura è stata riconosciuta dalla Corte
capitolina che, senza incorrere in alcuna insanabile contraddizione, ha preso
motivata posizione sulle contrapposte deduzioni delle parti ed ha affermato in
modo inequivoco che l’UPD di Roma Capitale non ha natura collegiale e che il
soggetto titolare dello stesso ha una propria struttura amministrativa della
quale può legittimamente avvalersi.
Ed allora non vi è motivo per non applicare la
disposizione di cui all’art. 348 ter cod. proc.
civ. secondo cui quando la sentenza d’appello che conferma la decisione di
primo grado è basata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto,
poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione può essere
proposto esclusivamente per i motivi di cui ai numeri 1), 2), 3) e 4) del primo
comma dell’art. 360 cod. proc. civ.
Come questa Corte ha già affermato (v. Cass. 29 ottobre 2014, n. 23021; Cass. 29 ottobre 2015, n. 22142; Cass. 27 luglio
2017, n. 18659; Cass. 6 marzo 2019, n. 6544), con indirizzo cui si intende dare
in questa sede continuità, la suddetta disposizione è applicabile anche alla
sentenza che definisce il procedimento di reclamo ex art. 1 legge Fornero. Sul punto
ha evidenziato come la normativa di riferimento non disciplini il contenuto
dell’atto di reclamo, introduttivo del giudizio di secondo grado e che vi è
dunque integrazione della disciplina – pur speciale – dettata dalla I. n. 92/2012, art. 1, co. 58 e
61 con quella dell’appello nel rito del lavoro; dalla integrazione deriva la
applicazione anche dell’art. 348 ter cod. proc
civ., ed in particolare – per quanto in questa sede rileva – della modifica
che riguarda il vizio di motivazione per la pronuncia cd. “doppia conforme”.
La disposizione è applicabile ratione temporis (ex art. 54, comma 2, d.l. n. 83/2012)
nel presente giudizio giacché il reclamo è stato depositato nel 2015.
Resta, dunque, preclusa la possibilità di sindacato
da parte di questa Corte sull’accertamento in fatto svolto dalla Corte
territoriale.
5. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia
violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 1, lett. a), b), c),
d) e comma 8 lett. f) del c.c.n.I. per il personale del comparto delle
regioni e delle autonomie locali 2006-2009, violazione e falsa applicazione
dell’art. 2106 cod. civ.
Censura la sentenza impugnata per vizio di erronea
sussunzione dei fatti accertati nell’ambito della indicata previsione
contrattuale e richiama il contenuto della sentenza penale di assoluzione con
riguardo alla inidoneità di piccole regalie d’uso a configurare il reato di
corruzione.
6. Il motivo è infondato.
6.1. Occorre premettere che la giurisprudenza di
questa Corte ha da tempo precisato che il vizio di violazione di norme di
diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del
provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi,
implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa,
l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo
delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed
inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è
possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione
(ora nei limiti di cui al nuovo art. 360, n. 5,
cod. proc. civ.). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal
fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla
contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le più recenti Cass. 21 novembre 2016, n. 24029; Cass. 17 maggio
2016, n. 10057; Cass. 10 luglio 2015, n. 14468).
Da detto principio generale è stata tratta la
conseguenza, in tema di licenziamento per giusta causa, della possibilità di
configurare un vizio di sussunzione solo qualora “la combinazione e il
peso dei dati fattuali, così come definito dal giudice del merito, non consente
comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento.
Altrimenti occorrerà dedurre che è stato omesso l’esame di un parametro tra
quelli individuati dalla giurisprudenza ai fini dell’integrazione della giusta
causa avente valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe
condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di
mera probabilità; ma in tal caso il vizio è attratto nella sfera di
applicabilità dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod.
proc. civ..” (v. Cass. 23 settembre 2016,
n. 18715) e, quindi, per le sentenze pronunciate decorsi trenta giorni
dall’entrata in vigore della legge 7 agosto 2012
n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, sarà denunciabile
unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato
oggetto di discussione fra le parti.
Il medesimo ragionamento è da svolgere allorché il
licenziamento sia stato irrogato, come nella specie, per violazioni
intenzionali di obblighi di gravità tale, in relazione ai criteri di cui al
codice disciplinare previsto dalla contrattazione collettiva, da non consentire
la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro (art. 3, comma 1, lett. a), b), c),
d) e comma 8 lett. d) del c.c.n.I. per il personale non dirigente del comparto
regioni ed autonomie locali 2006/2009) atteso che la scala valoriale
formulata dalle parti sociali costituisce uno dei parametri cui occorre fare
riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 cod. civ. (si ricorda che l’art. 55 quater del d.lgs. n. 165 del
2001 già nella versione esistente al momento dell’inserimento di tale norma
ad opera dell’art. 69, comma 1,
del d.lgs. n. 150 del 2009 ha tenuto ferma la disciplina in tema di
licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e fatto salve le
ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, tipizzando comunque
specifiche ipotesi di licenziamento disciplinare).
6.2. Ed allora il vizio di sussunzione non ricorre
nella fattispecie perché la Corte territoriale, dopo avere ritenuto provata la
materialità della condotta, esaminando e ritenendo infondati gli argomenti
difensivi dedotti a sostegno della asserita illegittimità del recesso, ha
escluso la allegata buon fede e considerato, sulla base dell’istruttoria
svolta, l’intenzionalità della condotta, la rilevanza della violazione
dell’obbligo nei confronti del datore di lavoro di non ricevere regali/denaro
in ragione dell’assolvimento di compiti d’ufficio nonché di obblighi nei
confronti di terzi, il tutto in rapporto alle specifiche responsabilità
connesse alla particolare posizione del dipendente, funzionario preposto
all’ufficio. Ha così ritenuto che la condotta del S. fosse stata adottata con
grave violazione dei principi di imparzialità, indipendenza e buon andamento
della cosa pubblica, andando a ledere gravemente l’immagine
dell’amministrazione di appartenenza, determinando una irreparabile lesione del
rapporto di fiducia con il datore di lavoro pubblico in modo tale da non
consentire la prosecuzione del rapporto.
6.3. E’ stato, poi, da questa Corte precisato che
l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare norme
elastiche, come quella di cui all’art. 2106 cod.
civ. fatta propria dall’art.
55, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo applicabile “ratione
temporis” alla fattispecie dedotta in giudizio, non sfugge alla verifica in
sede di legittimità, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo
deve rispettare criteri e principi (anche costituzionali) desumibili
dall’ordinamento (v. ex multis Cass. 7 maggio 2019, n. 11949; Cass. 9 maggio
2018, n. 11160; Cass. 30 novembre 2017, n. 28796).
Al riguardo, è stato affermato che la relativa
valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti
alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al
grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al
nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi,
ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità
dell’elemento intenzionale o di quello colposo (Cass.
n. 28796/2017 cit.).
6.4. Nella specie, la Corte territoriale ha fatto
corretta applicazione dei principi innanzi richiamati nella formulazione del giudizio
valoriale di gravità della condotta e di proporzionalità della sanzione
espulsiva.
Essa, infatti, ha formulato tale giudizio valutando
gli aspetti oggettivi e soggettivi del comportamento addebitato ed i parametri
applicati risultano coerenti con le disposizioni contenute nel c.c.n.I.
6.5. Né rileva l’intervenuta assoluzione in sede
penale che ha riguardato il fatto corruttivo oggetto dell’imputazione (v.
infra).
7. Con il quarto il ricorrente denuncia violazione
dell’art. 653 cod. proc. pen., violazione e
falsa applicazione dell’art. 7 del codice di comportamento di cui alla DGC n.
429/2013 e dell’art. 4 del d.P.R.
n. 62/2013 – Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti
pubblici.
Censura la sentenza impugnata per non aver
attribuito la giusta rilevanza alla sentenza penale di assoluzione e per non
aver ritenuto che tale assoluzione facesse stato circa l’insussistenza del
fatto.
8. Il motivo è infondato.
8.1. L’assoluzione ha riguardato il fatto reato e
cioè il fatto corruttivo ma non ha certo escluso il fatto materiale costituito
dalla ricezione da privati, nell’esercizio delle funzioni, di somme di denaro.
In particolare il giudice penale non ha affatto ritenuto
che tale condotta non fosse riferibile al S. o che la video-registrazione posta
a base anche del procedimento penale non avesse ripreso l’odierno ricorrente
all’atto di ricevere le somme non dovute ma ha posto a base della decisione la
circostanza che l’accertamento delle condotte abituali contestate avrebbe reso
necessaria ulteriore istruttoria e che fosse insufficiente la prova che le
regalie accettate avessero superato quei 150 euro per anno solare che i codici
di comportamento per i pubblici dipendenti pongono alla soglia-limite ammessa.
E’ del tutto evidente, allora, che tale fatto
materiale era suscettibile di valutazione in sede disciplinare.
8.2. Va infatti ritenuto applicabile il principio
affermato da questa Corte a Sezioni unite, in materia di responsabilità
disciplinare dei magistrati, secondo il quale, in tema di rapporti tra
procedimento penale e procedimento disciplinare, il giudicato penale non
preclude, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti accertati
dal giudice penale attesa la diversità dei presupposti delle rispettive
responsabilità, fermo solo il limite dell’immutabilità dell’accertamento dei
fatti nella loro materialità – e dunque, della ricostruzione dell’episodio
posto a fondamento dell’incolpazione – operato nel giudizio penale (v. Cass., Sez. Un., 9 luglio 2015, n. 14344; Cass.,
Sez. Un., 24 novembre 2010, n. 23778; Cass., Sez. Un., 18 ottobre 2000, n.
1120).
8.3. Si ricorda, del resto, che in termini generali
la sanzione disciplinare, è strettamente correlata al potere direttivo del
datore di lavoro, inteso come potere di conformazione della prestazione alle
esigenze organizzative dell’impresa o dell’ente, potere che comprende in sé
quello di reagire alle condotte del lavoratore che integrano inadempimento
contrattuale. La previsione della sanzione disciplinare non è posta a presidio
di interessi primari della collettività, tutelabili erga omnes, né assolve alla
funzione preventiva propria della pena, sicché l’interesse che attraverso la
sanzione disciplinare si persegue, anche qualora i fatti commessi integrino
illecito penale, è sempre quello del datore di lavoro al corretto adempimento
delle obbligazioni che scaturiscono dal rapporto (v. in tal senso Cass. 26 ottobre 2017, n. 25485).
Diversi essendo i presupposti delle relative
responsabilità ed i piani di operatività dei rispettivi giudizi, non è precluso
al giudice civile di esaminare i medesimi accadimenti nell’ottica dell’illecito
disciplinare, non sussistendo alcun vincolo rispetto alle valutazioni nella
sentenza penale laddove le stesse esprimano determinazioni riconducibili a
finalità del tutto distinte rispetto a quelle del giudizio disciplinare (v. in
tal senso anche Cass., Sez. Un., 5 aprile 2012, n. 5448).
8.4. Così, nella specie, del tutto legittimamente la
Corte territoriale ha ritenuto che l’assoluzione intervenuta nel giudizio
penale non precludesse il vaglio dei medesimi fatti sotto il profilo
disciplinare (fatti rimasti non pienamente accertati in sede penale e che ben
potevano essere, come è avvenuto, rivalutati nella loro oggettività e così
considerati oggetto di una vera e propria prassi; si vedano i riferimenti: – al
contenuto delle dichiarazioni rese nel video da persona incappucciata,
risultata poi identificata in un soggetto che in sede di dibattimento penale
aveva confermato le accuse di cui al servizio, salvo poi avvalersi
successivamente della facoltà di non rispondere; – alle ammissioni del
dipendente M.; – alla circostanza che lo stesso S. non avesse mai contestato
tale prassi).
Di conseguenza corretta è stata la rilevanza
attribuita, al fine della lesione irrimediabile del vincolo fiduciario, al
fatto di ricevere denaro in occasione ed a cagione delle proprie funzioni.
8.5. Del resto, l’art. 3 del codice di comportamento
di cui alla DGC n. 429/2013 fa riferimento all’esercizio delle funzioni con
disciplina ed onore, con stili consoni al prestigio di Roma ed alla sua
funzione di Capitale della repubblica e quanto ai “regali, compensi ed altre
utilità” impone al dipendente di non accettarne salvo quelli di modico
valore, effettati occasionalmente nell’ambito delle normali relazioni di
cortesia.
Orbene, nella specie, con valutazione di fatto non
rivedibile in questa sede, i giudici di appello hanno escluso che le dazioni di
denaro in questione potessero essere ricondotte alle “regalie d’uso” in quanto
solo correlate alla definizione, nell’interesse del soggetto erogante
l’utilità, di una pratica amministrativa da parte del ricevente.
8.6. D’altra parte, anche l’art. 4 del d.P.R. n. 62 del 2013
circoscrive l’ammissibilità dell’accettazione di donativi da parte del
dipendente pubblico richiedendo che gli stessi, oltre che ‘d’usò siano anche
effettuati “nell’ambito delle normali relazioni di cortesia e nell’ambito
delle consuetudini internazionali”. La suddetta disposizione prevede
altresì che: “in ogni caso, indipendentemente dalla circostanza che il
fatto costituisca reato, il dipendente non chiede, per sé o per altri, regali o
altre utilità, neanche di modico valore a titolo di corrispettivo per compiere
o per aver compiuto un atto del proprio ufficio da soggetti che possano trarre
benefici da decisioni o attività inerenti all’ufficio, né da soggetti nei cui
confronti è o sta per essere chiamato a svolgere o a esercitare attività o
potestà proprie dell’ufficio ricoperto”.
8.7. Nella specie la Corte territoriale ha posto in
chiara correlazione le dazioni di denaro con l’ottenimento dei certificati
velocizzato (“già all’atto della richiesta”) rispetto ai tempi
ordinari.
E tanto basta ad escludere che si fosse trattato di
“regalie d’uso”.
9. Il ricorso deve, dunque, essere respinto.
10. La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.
11. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello prescritto per il ricorso principale, ove
dovuto a norma del comma 1- bis, dello stesso art. 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento, in favore di Roma Capitale, delle spese del presente giudizio di
legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per
compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura
del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma
del comma 1-bis, dello stesso art.
13, se dovuto.