L’unitarietà del danno non patrimoniale va interpretata come comprensiva di qualsiasi rilevante lesione di un bene costituzionalmente protetto di cui tener conto, in ogni suo aspetto, in sede di liquidazione.
Nota a Cass. 18 gennaio 2021, n.703
Pamela Coti
“Il danno non patrimoniale si intende onnicomprensivo di qualsiasi lesione di interesse o valore costituzionalmente protetto ed il giudice di merito ha l’obbligo di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze derivanti dal danno, nessuna esclusa. In tale, ottica, la liquidazione del danno biologico (cioè, la lesione della salute), di quello morale (la sofferenza interiore) e di quello “esistenziale” (consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane), deve essere complessiva, in maniera tale da coprire l’intero pregiudizio a prescindere dal “nomen iuris” dei vari tipi di danno, i quali non possono essere invocati singolarmente per un aumento della anzidetta liquidazione.”
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione 18 gennaio 2021, n. 703 in relazione al caso di un lavoratore che, a seguito di trasferimento ad una sede diversa da quella richiesta e utile per assistere la moglie invalida, a cui aveva diritto, chiedeva il risarcimento del danno non patrimoniale per danno biologico e per il danno conseguente alla ridotta assistenza al coniuge.
Preliminarmente, la Suprema Corte ha evidenziato che il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituzionalmente garantiti, è risarcibile anche quando non sussista un fatto-reato, a patto che: a) l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale; b) l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità, in quanto il dovere di solidarietà impone a ciascuno di tollerare minime intrusioni nella propria sfera personale, inevitabilmente scaturenti dalla convivenza; c) il danno non sia futile, cioè non consista in meri disagi o fastidi ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità (v. Cass. n. 26972/2008).
In tale contesto, i danni non patrimoniali (danno biologico, morale ed esistenziale) debbono essere sì valutati separatamente, ma liquidati unitariamente per evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici e “nella prova per presunzioni, non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’ “id quod plerumque accidit”, sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza” (Cass. n. 1163/2020).
Nel caso di specie, tali elementi sono stati individuati nel binomio “maggiore lasso di tempo per raggiungere il luogo di lavoro (quantificato in 5 ore giornaliere) e minore assistenza e cura della moglie”, il tutto aggravato dal prolungato inadempimento – pari ad oltre 2 anni – da parte del datore di lavoro nell’autorizzare la richiesta di trasferimento del dipendente.