Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 febbraio 2021, n. 4176
Sussistenza del rapporto di lavoro, Indennità di fine
rapporto, Atto negoziale, Validità ed efficacia dell’accordo, Condizioni di
annullabilità della scrittura, Riconoscimento di voci retributive estranee e
di importo di gran lunga superiore, a quelle previste dalla disciplina del
rapporto di lavoro, Entità del pregiudizio quale elemento indiziario circa la
malafede contrattuale
Rilevato
che L.C. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale
di Firenze, M.S.E., quale erede ed esecutrice testamentaria di D.G.L., e, nella
qualità di eredi di quest’ultimo, S.L.L., V.L., J.L., U.L. e K.S.,
rappresentando di avere lavorato per D.L., in un primo tempo, nel 2004, quando,
aderendo ad una proposta del medesimo, si era trasferita in Italia, presso
l’Azienda agricola O. – di cui il L. era titolare -, per occuparsi di questioni
legali ed amministrative; che, successivamente, il L. le aveva offerto la
gestione dell’azienda con una retribuzione di Euro 4.500,00 netti, oltre ad un
bonus annuale del 50% dei risparmi e dei maggiori profitti generati <<ed
una indennità al termine del rapporto, di importo non definito, ma comunque
tale da garantire alla dipendente una effettiva tranquillità economica>>;
che, accettata l’offerta, la C. aveva iniziato a prestare la propria opera
presso la detta azienda dall’1.11.2008 e che, il 26.2.2009, le parti avevano
sottoscritto un contratto, nel quale era previsto l’inquadramento della C. nel
II livello del CCNL Quadri e Impiegati agricoli, una retribuzione netta mensile
di Euro 1.500,00 e la <<corresponsione fuori busta di Euro
3.000,00>>; che, nella primavera del 2010, la C. aveva chiesto, invano, a
M.S.E. – divenuta, nel frattempo, procuratrice generale, a seguito di un grave
intervento chirurgico cui il L. era stato sottoposto – di quantificare
l’indennità di fine rapporto; che si era quindi rivolta direttamente al L., con
il quale, il 2.6.2010, aveva sottoscritto un atto negoziale, con cui le veniva
riconosciuta la sussistenza del rapporto di lavoro dall’1.11.2008 ed una
retribuzione netta di Euro 4.500.00, nonché l’uso di un appartamento a titolo
gratuito, un bonus annuale di metà dei risparmi e dei profitti conseguiti in
ciascun anno ed una indennità di fine rapporto pari ad Euro 250.000.00 per ogni
anno di lavoro; che, a seguito del decesso del L., il 15.7.2010, la stessa era
stata licenziata il 20.7.2010. Chiedeva, pertanto, che, accertata la
sussistenza del rapporto di lavoro dall’1.11.2008 al 20.7.2010 e la validità ed
efficacia dell’accordo del 2.10.2010, gli eredi di D.L. fossero condannati al
pagamento degli importi spettanti alla dipendente in forza di tale contratto,
da quantificare nella somma complessiva di Euro 524.132,25, ed altresì, previo
accertamento della illegittimità del licenziamento, al pagamento della
indennità risarcitoria ex art.
8 della I. n. 604 del 1966, nella misura di sei mensilità, pari ad Euro
27.000,00;
che il Tribunale, con la sentenza n. 272/2014, resa
in data 11.3.2014, in parziale accoglimento delle domande della C., condannava
gli eredi di D.L., per le rispettive quote ereditarie, al pagamento delle
differenze retributive sulla base della retribuzione convenzionale mensile di Euro
4.500,00 netti, quantificate in complessivi Euro 34.865,77, respingendo tutte
le altre domande proposte dalla stessa; inoltre, in parziale accoglimento della
domanda riconvenzionale di M.S.E., condannava L.C. al versamento di Euro
23.867,25, a titolo di indennità di occupazione dell’appartamento a lei
concesso per ragioni di servizio, per il periodo intercorrente tra la data del
licenziamento e quello dell’effettivo rilascio; che la Corte di Appello di
Firenze, con sentenza pubblicata il 25.7.2016, ha respinto il gravame
interposto dalla C. avverso la pronunzia di prima istanza;
che la Corte di merito, per quanto ancora in questa
sede rileva, ha sottolineato che, dalla documentazione in atti ed in
particolare dalle e-mail in data 11.6.2010 e 14.6.2010, <<risulta che,
alla metà del mese di giugno, L.C. e M.S.E. discutevano i termini economici del
rapporto di lavoro….e che la lavoratrice chiedeva espressamente un incontro,
anche in presenza del L., per la formale definizione di tutte le questioni
ancora aperte>>; ed altresì che <<la C. non ha offerto alcun
elemento probatorio a conferma della propria allegazione, secondo cui fu D.L. a
chiederle di non rendere nota la stipula del contratto datato 2.6.2010…. Deve
quindi ritenersi che tale contratto fu stipulato tra il 14 ed il 25.6.2010,
data di esibizione della scrittura al legale del L.>>, periodo in cui
<<gli elementi acquisiti nell’istruttoria forniscono prova sufficiente
del fatto che D.L., a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute,
presentava un turbamento psichico tale da menomare gravemente, anche senza
escluderle, le facoltà volitive ed intellettive … diminuite in modo da
impedire o ostacolare una seria valutazione dell’atto o la formazione della
volontà (così Cass. n. 515/2004)>>;
che, inoltre, secondo la Corte di merito,
<<sussistono altresì le ulteriori condizioni di annullabilità della
scrittura datata 2.6.2010, posto che: a) il riconoscimento di voci retributive
estranee, e di importo di gran lunga superiore, a quelle previste dalla
disciplina del rapporto di lavoro in questione, configura il grave pregiudizio
di cui all’art. 428 c.c.; b) l’entità del
pregiudizio configura elemento indiziario circa la malafede contrattuale (cfr.
Cass. n. 19458/2015), che trova conferma nella circostanza che la lavoratrice,
pur avendo da tempo instaurato trattative con M.S.E., si rivolse poi a D.L.
senza darne alcuna comunicazione alla procuratrice>>;
che per la cassazione della sentenza ricorre L.C.,
articolando due motivi ulteriormente illustrati da memoria, cui resistono con
controricorso M.S.E.; S.L.L., V.L. e J.L., i quali, tutti, hanno altresì
comunicato memorie;
che U.L. e K.S. non hanno svolto attività difensiva;
che il P.G. non ha formulato richieste che, con il
ricorso, si deduce: 1) in riferimento all’art. 360,
primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione degli artt.
428 e 2697, secondo comma, c.c.; nonché, in
riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.,
la <<violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c.
con conseguente nullità della sentenza per inesistenza e/o incoerenza della
motivazione>>, e si lamenta che la Corte distrettuale avrebbe
<<erroneamente applicato, violandolo, l’art.
428 c.c. ed il principio per cui la parte che assume la nullità di un atto
ex art. 428 deve dare rigorosa prova
dell’asserita incapacità, gravando sulla stessa il relativo onere, essendo nel
nostro ordinamento presunta ex art. 2 del c.c.
la capacità di chi ha raggiunto la maggiore età>>; si deduce che
<<nella specie si trattava non di un soggetto affetto da malattie
psichiche o derivanti da senilità, ma di un uomo malato di cancro che (nel
momento in cui fu sottoscritto l’atto impugnato dagli odierni resistenti) era
(presuntivamente) capace di intendere e di volere>>, con la conseguenza
che <<era onere dei convenuti, che ne assumevano la perdita, dimostrare
l’incapacità a sostegno della richiesta di invalidità del contratto prodotto in
causa dalla C. su cui la stessa fondava la propria domanda>>; e si
denunzia, infine, che la motivazione della sentenza impugnata, basata
essenzialmente sulle conclusioni della perizia <<redatta a seguito di una
visita medica effettuata l’8.7.2020>>, sarebbe <<macroscopicamente
errata, in quanto apparente, comunque contraddittoria e manifestamente
illogica>>; 2) in riferimento all’art. 360,
primo comma, n. 4 c.p.c., <<la violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. con conseguente nullità della
sentenza per inesistenza e/o incoerenza della motivazione>>, e si deduce
che, pur se <<ai fini dell’annullamento della sentenza è sufficiente
ribadire che, senza il predetto accertamento peritale, non vi era nulla che
potesse giustificare la richiesta di nullità della scrittura del
2.6.2010>>, appare censurabile anche il riferimento effettuato dalla
Corte di merito ad alcune dichiarazioni testimoniali che avrebbero messo in
luce il fatto che, <<nel corso del mese di giugno, era emerso un
progressivo aggravamento delle condizioni fisiche di D.L., a seguito del quale
il de cuius manifestava anche deficit di attenzione verso gli
interlocutori>>, da cui, a parere della ricorrente, sarebbe derivata
<<una motivazione apparente o macroscopicamente errata>>, poiché <<il
problema era quello di valutare lo stato di capacità di intendere e di volere
nel periodo dal 14 al 25 giugno 2010>> e, dunque, <<sarebbe erroneo
affermare che l’annullamento del contratto ex art.
428 c.c. si giustifichi col fatto che dall’istruttoria testimoniale è
emerso un progressivo aggravamento delle condizioni fìsiche di D.L. nel corso
del mese di giugno, a seguito del quale il de cuius manifestava deficit di
attenzione verso gli interlocutori>>; che il primo motivo non è meritevole
di accoglimento; al riguardo va sottolineato che, in più occasioni, la
giurisprudenza di questa Corte ha ribadito che <<al fine
dell’annullamento del negozio per “incapacità naturale”, a norma
dell’art. 428 c.c., non è necessaria
l’incapacità totale ed assoluta del soggetto, ma è sufficiente che le sue
facoltà intellettive o volitive risultino diminuite in modo da impedire od
ostacolare una seria valutazione dell’atto e la formazione di una volontà
cosciente>>, ed altresì che <<lo stato di incapacità di intendere e
di volere del soggetto che abbia stipulato un contratto, del quale si chieda
l’annullamento ai sensi dell’art. 428 c.c., è
una condizione personale dell’individuo, che solo quando assume connotazioni
eclatanti può essere provata in modo diretto; il più delle volte va invece
accertata in base ad indizi e presunzioni, che anche da soli, se del caso,
possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità>> (cfr., ex
multis, Cass. nn. 515/2004; 4344/2000;
7784/1991). Pertanto, perché si giunga alla pronunzia di invalidità del negozio
per incapacità naturale, <<non è necessaria la prova che il soggetto, al
momento del compimento dell’atto>, si trovasse in uno stato patologico
<<tale da far venir meno, in modo totale e assoluto, le facoltà
psichiche, essendo sufficiente accertare che tali facoltà erano perturbate al
punto da impedire al soggetto una seria valutazione del contenuto e degli
effetti del negozio e, quindi, il formarsi di una volontà cosciente>>;
che, dunque – si ribadisce -, la prova della
incapacità naturale <<può essere data con ogni mezzo o in base ad indizi
e presunzioni, che anche da soli, se del caso, possono essere decisivi per la
sua configurabilità, ed il giudice è libero di apprezzare, ai fini del proprio
convincimento, anche le prove raccolte in un giudizio intercorso tra le stesse
parti o tra altro>>.
L’apprezzamento degli elementi delibatori in tal
modo raccolti costituisce giudizio riservato al giudice di merito che, se
sorretto da congrue argomentazioni, esenti da vizi logici e da errori di
diritto, sfugge al sindacato di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass. nn.
12532/2011; 4539/2002); del pari, l’indagine sulla sussistenza della malafede
di colui che contrae con l’incapace di intendere e di volere, richiesta dall’art. 428 c.c., si risolve in un accertamento di
fatto demandato al giudice di merito e, se congruamente motivato – come nella
fattispecie -, non è censurabile in sede di legittimità (cfr., tra le altre,
Cass. n. 13659/2017);
che la Corte di merito, conformemente ai consolidati
arresti giurisprudenziali di legittimità, innanzi citati, ed all’esito
dell’apprezzamento delle circostanze emerse dall’istruttoria, ha evidenziato
che, all’epoca in cui fu stipulato il contratto di cui si tratta (tra il 14 ed
il 25.6.2010; circostanza, questa, mai espressamente contestata dalla C.: v.,
in proposito, pag. 6 della sentenza impugnata), <<gli elementi acquisiti
nell’istruttoria>>, tra i quali, il certificato medico di cui innanzi si
è detto e le concordi dichiarazioni dei testi escussi, <forniscono prova
sufficiente del fatto che D.L., a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni di
salute, presentava un turbamento psichico tale da menomare gravemente, anche
senza escluderle, le facoltà volitive ed intellettive … diminuite in modo da
impedire o ostacolare una seria valutazione dell’atto o la formazione della
volontà>>;
che, inoltre, <<sussistono altresì le
ulteriori condizioni di annullabilità della scrittura datata 2.6.2010, posto
che: a) il riconoscimento di voci retributive estranee, e di importo di gran
lunga superiore, a quelle previste dalla disciplina del rapporto di lavoro in
questione, configura il grave pregiudizio di cui all’art.
428 c.c.; b) l’entità del pregiudizio configura elemento indiziario circa
la malafede contrattuale (cfr. Cass. n. 19458/2015), che trova conferma nella
circostanza che la lavoratrice, pur avendo da tempo instaurato trattative Con
M.S.E., si rivolse poi a D.L. senza darne alcuna comunicazione alla
procuratrice>> (v. pag. 7 della sentenza impugnata); che, pertanto, nella
fattispecie, non si configura alcuna violazione dell’art.
428 c.c., né, tanto meno, alcuna inversione dell’onere della prova;
che neppure le censure sollevate nella seconda parte
del primo mezzo di impugnazione possono essere condivise, poiché, nella
sostanza, attengono a < <vizi di motivazione per inesistenza o incoerenza
della stessa>>. Ma, nel caso in esame, il motivo di ricorso che denuncia,
in concreto, il vizio motivazionale non fa riferimento, alla stregua della
pronunzia delle Sezioni Unite n. 8053 del 2014,
ad un vizio della sentenza <<così radicale da comportare>>, in
linea con <<quanto previsto dall’art. 132, n.
4, c.p.c., la nullità della pronunzia per mancanza di motivazione>>,
non potendosi configurare, nella fattispecie, un caso di motivazione apparente
o di mancanza di motivazione, da cui conseguirebbe la non idoneità della
sentenza a consentire il controllo delle ragioni poste a fondamento della
stessa, dato che la Corte di merito, come osservato, è pervenuta alla decisione
oggetto del giudizio di legittimità con argomentazioni analitiche e del tutto
condivisibili e scevre da vizi logico-giuridici; che, infine, la parte
ricorrente non ha prodotto (e neppure indicato tra i documenti offerti in
comunicazione unitamente al ricorso per cassazione), né trascritto, a sostegno
dei propri assunti, il contratto che assume di avere sottoscritto con il L. in
data 2.6.2010; e ciò, in violazione del principio, più volte ribadito da questa
Corte (ai sensi del disposto dell’art. 366, primo
comma, n. 6, c.p.c.), che definisce quale onere della parte ricorrente
quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale
da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità
delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (v., tra
le molte, Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti,
contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si
chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione
della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti
esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado
di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass.
nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013);
che il secondo motivo – nel quale la critica è
diretta alla valutazione probatoria <<impropria>> che la Corte di
merito avrebbe fatto di documenti (quale, ad esempio, il certificato medico, in
data 8.7.2020, neppure integralmente prodotto, in cui si dà atto delle
aggravate condizioni di salute del L., tali da comportare anche un
<<deficit di attenzione verso gli interlocutori>>) e dichiarazioni
testimoniali assunte – è inammissibile per la non conferenza del parametro
normativo che si assume violato e perché, in sostanza, finalizzato ad ottenere
un nuovo esame del merito attraverso una nuova valutazione degli elementi
delibatori, pacificamente estranea al giudizio di legittimità (cfr., ex
plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n.
14541/2014). Ed invero, <<il compito di valutare le prove e di
controllarne l’attendibilità e la concludenza spetta in via esclusiva al
giudice di merito> ed il giudice di legittimità non ha il potere di
riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio,
bensì solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza
giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal
giudice di merito>> (cfr., ex multis, Cass.,
S.U., n. 24146/2013; Cass. nn. 14541/2014; 2056/2011); nella fattispecie,
la Corte distrettuale, come già sottolineato, è pervenuta alla decisione
impugnata attraverso un iter motivazionale condivisibile dal punto di vista
logico-giuridico, anche in ordine alla valutazione dei mezzi istruttori addotti
dalle parti (v., in particolare, le pagg. 6 e 7 della sentenza), non avendo,
peraltro, la C. (v. pag. 6 della sentenza) offerto alcun elemento probatorio a
conferma delle proprie allegazioni; che, per tutto quanto innanzi esposto, il
ricorso va respinto;
che le spese, liquidate come in dispositivo, in
favore di M.S.E.; S.L.L., V.L. e J.L., seguono la soccombenza;
che nulla va disposto in ordine alle spese nei
confronti U.L. e K.S., rimaste intimate;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R.
n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 10.000,00,
di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed
accessori di legge, in favore di M.S.E., ed in Euro 10.000,00, di cui Euro
200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di
legge, in favore di S.L.L.; V.L. e J.L.. .
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.