La mancata concessione dell’astensione facoltativa costituisce un atto discriminatorio del datore di lavoro.
Nota a Trib. Milano (ord.) 12 novembre 2020
Francesco Belmonte
Il diniego del congedo parentale alla “seconda” madre (c.d. “intenzionale”) di un bambino di una coppia omosessuale – in presenza di legame genitoriale documentato dagli atti di Stato Civile – costituisce una discriminazione diretta, in ragione dell’orientamento sessuale della lavoratrice, posta in essere dal datore di lavoro, poiché trattamento difforme rispetto a quello che egli avrebbe tenuto a fronte di analoga richiesta del genitore eterosessuale.
In tale linea si è espresso il Tribunale di Milano (ord. 12 novembre 2020) in relazione ad una controversia concernente il mancato riconoscimento del congedo parentale ad una lavoratrice unita civilmente con un’altra donna. Entrambe, nello sviluppo del loro progetto di vita familiare, avevano deciso di avere un figlio, ricorrendo a tecniche di procreazione medicalmente assistita presso una clinica spagnola. Successivamente, le donne avevano provveduto al riconoscimento del nascituro innanzi all’Ufficiale di Stato Civile del Comune di Milano.
Ciononostante, la società datrice ha negato il diritto all’astensione facoltativa, sindacando il legame genitoriale risultante dagli atti pubblici.
Il Tribunale, nel ritenere che il datore di lavoro non possa vagliare la documentazione degli atti di Stato Civile, si sofferma a ricostruire il quadro normativo e giurisprudenziale in materia di genitorialità delle coppie omoaffettive.
Non vi è dubbio che esiste un vuoto legislativo in materia e che la giurisprudenza, di fronte a simile lacuna, si è espressa in senso negativo in relazione alle fattispecie analizzate in concreto.
Infatti, la Legge n. 76/2016, per quanto attiene alle unioni civili, non contiene una disciplina relativa ai profili della filiazione. “Anzi, nel selezionare le norme relative al matrimonio che si applicano alle unioni civili, la Legge non fa riferimento a quelle relative alla filiazione, configurandosi in questo modo un’esclusione”.
Allo stesso modo, è esclusa l’equiparazione tra i coniugi e i componenti dell’unione civile quanto all’applicazione della disciplina delle adozioni (contenuta nella L. n. 184/1983), pur restando “fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti” (art. 1, co. 20, L. n. 76/2016).
“Proprio sulla base di tale riferimento normativo la giurisprudenza riconosce la praticabilità dell’adozione in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore”, ex. art. 44, co. 1, lett. d), L. n. 184/1983, in questo modo valorizzando la tutela dell’interesse del minore.
In relazione, invece, alla procreazione medicalmente assistita, il giudice milanese evidenzia come la L. n. 40/2004 la esclude per le coppie omosessuali, ragion per cui essa viene praticata all’estero, ponendosi poi il problema del riconoscimento del rapporto di filiazione con la madre “intenzionale” in Italia.
“A fronte di tale situazione normativa, la giurisprudenza, anche della Corte Costituzionale, è contraria a riconoscere un pieno diritto alla genitorialità alle coppie omosessuali, con particolare riguardo alla posizione del genitore non biologico, c.d. intenzionale, pur valutando l’interesse del minore”
Nello specifico, la Consulta (Corte Cost. n. 230/2020) ribadisce il principio secondo cui «il riconoscimento della omogenitorialità (in particolare all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente) non è costituzionalmente imposto alla luce dei precetti di cui agli art. 2, 3 e 30 Cost., né è reso necessario alla luce dei principi e della giurisprudenza UE e CEDU. Anche le fonti e la giurisprudenza sovranazionale, infatti, pur nella generale enunciazione dei principi di eguaglianza e divieto di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, lasciano libertà ai legislatori nazionali di disciplinare il tema della omogenitorialità nel modo quanto più possibile compatibile con le sensibilità delle singole collettività.
Il riconoscimento del diritto ad essere genitori di entrambe le donne unite civilmente, ex lege n. 76 del 2016, non è, dunque, considerato raggiungibile attraverso il sindacato di costituzionalità, dovendo essere oggetto di una specifica scelta normativa, per i delicati contenuti etici dallo stesso implicati. Per quanto riguarda, poi, lo specifico profilo della migliore tutela dell’interesse del minore, anche alla luce della disciplina sovranazionale, si ritiene sufficientemente raggiunto dalla possibilità del ricorso all’adozione,…, in quanto una diversa tutela del miglior interesse del minore, in direzione di più penetranti ed estesi contenuti giuridici del suo rapporto con la “madre intenzionale”, che ne attenui il divario tra realtà fattuale e realtà legale, è ben possibile, ma le forme per attuarla attengono, ancora una volta, al piano delle opzioni rimesse alla discrezionalità del legislatore».
Il giudice milanese, nel recepire tale assetto interpretativo, giudica l’iter documentale – attestante l’esistenza del legame genitoriale tra le donne e la collocazione all’interno del nucleo familiare – “assolutamente lecito ed ammesso nel nostro ordinamento”, diversamente da quanto sostenuto dal datore di lavoro.
In relazione, poi, alla mancata concessione del congedo in questione, il Tribunale ritiene che il comportamento datoriale costituisca una discriminazione diretta in ragione dell’orientamento sessuale della lavoratrice, la quale se eterosessuale “avrebbe ricevuto un trattamento diverso e non si sarebbe vista negata il congedo parentale, per il cui riconoscimento sussiste in realtà il presupposto – dato dalla comprovata esistenza del rapporto di genitorialità con il minore – così come attestato dalla documentazione anagrafica”.
Il giudice del lavoro, infine, qualifica la tipologia di congedo destinato alla “seconda madre”, avvalendosi della risposta fornita dall’Inps alla ricorrente.
In particolare, l’Ente previdenziale, a fronte del riconoscimento legale dello status di genitori di persone dello stesso sesso per il medesimo minore, afferma che, nell’ipotesi di copresenza di una madre naturale e di una “intenzionale” (che ha effettuato riconoscimento, ai sensi dell’art. 254 c.c., come “altra madre” dello stesso figlio davanti all’Ufficiale di Stato Civile con conseguente registrazione dell’atto amministrativo), “alla madre biologica viene riconosciuta la tutela della maternità ed il congedo parentale ex art. 32, co. 1, lett. a), T.U; all’altra madre viene riconosciuto il diritto al congedo parentale ex art. 32, co. 1, lett. b), nel pieno rispetto dei limiti di coppia delineati nel suddetto articolo per le coppie eterosessuali”.
Sebbene tale ultima disposizione sia espressamente riservata al padre lavoratore (“al padre lavoratore, dalla nascita del figlio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, elevabile a sette nel caso di cui al comma 2”), il giudice ritiene che, nel caso di specie, simile dato letterale deve essere superato.
Infatti, “proprio il congedo parentale di cui alla lettera b) va riconosciuto alla ricorrente, in quanto quello di cui all’art. 32 co. 1, lett. a) non può che essere riconosciuto alla madre biologica, dato il suo rapporto con il congedo di maternità.”
“Tale lettura della norma è l’unica che possa rivelarsi utile ai fini del riconoscimento in concreto del diritto della ricorrente, non essendo previsti dalla legge, allo stato, altri casi di congedo parentale, con specifico riguardo alla situazione delle famiglie con genitori dello stesso sesso.”
Simile interpretazione, rappresenta per il Tribunale l’unica in grado di assicurare al minore la stessa dimensione affettiva e di cura garantita dall’ordinamento ai figli di coppie eterosessuali.