Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 febbraio 2021, n. 4408

Pagamento di somme a titolo di lavoro straordinario,
Richiesta formulata in termini di diritto alla maggiorazione per le ore
prestate oltre le 40 ore, Orario contrattuale per le mansioni di custodia, di
45 ore settimanali, Risarcimento del danno biologico per sindrome
ansioso-depressiva, Indennità di trasferta, Nozione di trasferta
caratterizzata dalla temporaneità del mutamento del luogo di esecuzione della
prestazione, Non rilevante la sede aziendale, la residenza del lavoratore e
l’esistenza di una dipendenza aziendale nel luogo di esecuzione della
prestazione

 

Rilevato

 

che la Corte di Appello di Roma, con sentenza
pubblicata in data 31.1.2015, ha respinto il gravame interposto da G.B., nei
confronti della S.p.A. I.V.R.I.-Istituti di V.R.I. (nel contraddittorio anche
dell’INPS e di A. S.p.A.), avverso la pronunzia del Tribunale della stessa sede
n. 1152/2011, depositata il 20.5.2011, con la quale erano state respinte le
domande del lavoratore dirette ad ottenere il pagamento di Euro 13.059,65 a
titolo di lavoro straordinario per i <<turni svolti dalle 6.00 alle 15.00
o dalle 15.00 alle 24.00 dal lunedì al venerdì>>, di Euro 75.680,57 per
le trasferte quotidiane da Roma (luogo di residenza) a Fiumicino (luogo di
lavoro) e di Euro 41.219,09 a titolo di risarcimento del danno biologico per
l’ipertensione arteriosa e la sindrome ansioso-depressiva, insorte quali
conseguenze dell’attività lavorativa svolta sin dal 1998;

che la Corte di merito, per quanto ancora di rilievo
in questa sede, premesso che la legittimazione passiva spetta, nella
fattispecie, alla sola IVRI S.p.A. (v. pag. 4 della sentenza impugnata), ha
osservato che <<la richiesta di pagamento di somme a titolo di lavoro
straordinario non è fondata, in quanto la stessa in primo grado è stata
formulata in termini di diritto alla maggiorazione per le ore prestate oltre la
40^, laddove l’orario contrattuale per le mansioni di custodia di cui
all’inquadramento del lavoratore è di 45 ore settimanali, che non risultano
essere state superate; e la tesi che le mansioni fossero in realtà promiscue è
stata formulata per la prima volta in appello >; ha, altresì, sottolineato
che, <<indipendentemente dal luogo di residenza del lavoratore, non
ricorrono i presupposti per l’erogazione dell’indennità di trasferta, poiché il
medesimo ha sempre prestato la propria attività presso l’aeroporto di
Fiumicino, mentre, secondo l’insegnamento consolidato della S.C., l’istituto
della trasferta è caratterizzato dalla temporaneità dell’assegnazione del
lavoratore medesimo ad una sede diversa da quella abituale.ed ha, infine,
rilevato che <<nel caso di specie non risulta alcuna allegazione, nel
ricorso introduttivo del giudizio, di nocività dell’ambiente di lavoro in
relazione a patologie di natura notoriamente multifattoriale quali quelle
lamentate>>;

che per la cassazione della sentenza ricorre G.B.
articolando tre motivi, cui resistono con controricorso la S.p.A. IVRI-Istituti
di V.R.I. e l’INPS; che il P.G. non ha formulato richieste;

 

Considerato

 

che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento
all’art. <<360, primo comma, n. 5, c.p.c.>>,
la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 del R.d.l. n. 692 del 1923
e del R.d. n. 2657 del 1923, e successive
modifiche ed integrazioni, per esclusione della spettanza di maggiorazione per
straordinario in relazione alle ore eccedenti la 40^ settimanale, sull’erroneo
rilievo del superamento di 45 ore settimanali, come da orario contrattuale per
mansioni di custodia, senza alcun accertamento in ordine all’effettività delle
mansioni svolte (vigilanza sulla regolarità della turnazione e controllo della
fila dei taxi presso l’aeroporto di Fiumicino), prive del carattere di
discontinuità o semplice attesa e, pertanto, non soggette a superiore orario
settimanale; 2) in riferimento all’art. 360, primo
comma, n. 5, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 167 del CCNL del Terziario,
perché i giudici di seconda istanza avrebbero erroneamente ritenuto che al
lavoratore non spettasse l’indennità di trasferta, <<giustificando tale
decisione con la mancanza del requisito della temporaneità per avere il B.
prestato la propria attività sempre presso l’aeroporto di Fiumicino ed a nulla
rilevando il luogo di residenza del lavoratore>>, senza considerare che
<<il ricorrente era costretto, giornalmente, a recarsi sul posto di
lavoro sito in Fiumicino, distante numerosi chilometri dal proprio luogo di
residenza e maturando così il diritto a percepire un indennizzo per i continui
viaggi abituali ai sensi dell’art.
167 del CCNL Terziario >; 3) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l’omesso
esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti, e si deduce che i giudici di appello avrebbero,
<<con argomentazioni errate e contraddittorie, affrontato in maniera del
tutto illogica la questione concernente la richiesta del danno biologico
derivante dalla prestazione lavorativa>>, omettendo di considerare che
<<già solo il contenuto del ricorso introduttivo basterebbe a
giustificare la richiesta di risarcimento avanzata dal ricorrente, avendo
quest’ultimo analiticamente dedotto e documentato le patologie sofferte
(ipertensione arteriosa, sindrome ansioso-depressiva), ma anche individuato la
causa di esse nel tipo di attività lavorativa e nelle modalità del suo
svolgimento>>;

che il primo motivo – che, peraltro, censurando,
all’evidenza, un errore di sussunzione, avrebbe dovuto essere proposto in riferimento
al n. 3, del primo comma, dell’art. 360 del codice
di rito – è infondato, in quanto, come sottolineato dai giudici di secondo
grado (v. primo capoverso del punto 7 di pag. 4 della sentenza impugnata),
<<la tesi che le mansioni fossero in realtà promiscue è stata formulata
per la prima volta in appello ed è pertanto inammissibile quale domanda nuova a
norma dell’art. 345 c.p.c.>>; inoltre,
l’attività delle guardie giurate non può ritenersi ontologicamente discontinua
o di semplice attesa o custodia ex art. 3 R.d.l. n. 692 del 1923
sulla limitazione dell’orario di lavoro, con equiparazione a quella dei custodi
e guardiani diurni e notturni, previsti ai nn. 1 e 2 della tabella ex R.d. n. 2657 del 1923 (di carattere tassativo: v. Cass. n. 10669/2004; Cass. n. 11732/2007),
potendosi affermare la discontinuità delle loro mansioni solo se risultante da
un accertamento in concreto, compiuto caso per caso (Cass. n. 24164/2015); infine, a carico del
lavoratore, che chieda in via giudiziale il compenso per lavoro straordinario,
grava un onere probatorio rigoroso, che esige il preliminare adempimento di
quello di specifica allegazione del fatto costitutivo, senza che al mancato
assolvimento di entrambi possa supplire la valutazione equitativa del giudice
(v. Cass. n. 16150/2018), non risultante nel
caso di specie;

che neppure il secondo motivo può essere accolto; al
riguardo va rilevato che la censura (erroneamente sollevata in riferimento al
n. 5, del primo comma, dell’art. 360 c.p.c.,
anziché in riferimento al n. 3 dello stesso articolo) investe l’esegesi dell’art. 167 del CCNL del Terziario
(di cui non è neppure specificato l’anno), che non è stato prodotto, né
indicato nell’elenco dei documenti offerti in comunicazione unitamente al
ricorso per cassazione, né trascritto per intero, in violazione del principio
(arg. ex art. 366, primo comma, n. 6, del codice di
rito), più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della
parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si
riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare
ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito
della questione (v., ex plurimis, Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per
cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire
le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a
consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia
necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti
concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass.
nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). Per la
qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di poter apprezzare
compiutamente la veridicità della doglianza svolta dal ricorrente;

che, peraltro, i giudici di seconda istanza sono
pervenuti alla decisione oggetto del presente giudizio uniformandosi ai
consolidati arresti giurisprudenziali della Suprema Corte nella materia, del
tutto condivisi da questo Collegio, che non ravvisa ragioni per discostarsene –
ed ai quali, ai sensi dell’art. 118 Disp. att.
c.p.c., fa espresso richiamo (cfr., in particolare e tra le molte, Cass. nn. 12648/2019; 4837/2013;
24658/2008; 8136/2008)
-, secondo cui il diritto all’indennità di trasferta presuppone che il
lavoratore venga solo temporaneamente comandato a prestare la propria opera in
un luogo diverso da quello in cui deve abitualmente eseguirla, essendo la
nozione di <<trasferta>> caratterizzata dalla temporaneità del
mutamento del luogo di esecuzione della prestazione, non rilevando né la sede
aziendale, né la residenza del lavoratore e neppure l’esistenza di una
dipendenza aziendale nel luogo di esecuzione della prestazione; ipotesi che,
nella fattispecie, non si è concretizzata, in quanto, come innanzi riferito, il
B. ha sempre prestato la propria opera presso l’aeroporto di Fiumicino; che il
terzo motivo non è meritevole di accoglimento, in quanto non si configura alcuna
omissione di fatti decisivi da parte della Corte territoriale, la quale ha,
invece, correttamente e condivisibilmente, rilevato, sempre in linea con la
consolidata giurisprudenza di questa Corte, che è necessario individuare un
effetto della violazione su di un determinato bene perché possa configurarsi un
danno e possa poi procedersi alla liquidazione (eventualmente anche in via
equitativa) del danno stesso. Al riguardo, il Giudice delle leggi ha chiarito
(v. sent. n. 372/1994) che neppure il danno biologico è presunto, perché se la
prova della lesione costituisce anche la prova dell’esistenza del danno,
occorre tuttavia la prova ulteriore dell’esistenza dell’entità del danno, ossia
la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a
quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita
dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla
quale il risarcimento deve essere commisurato. Nello stesso senso, questa Corte
ha sottolineato che le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di
una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione di una
condotta datoriale colpevole, produttiva di danni nella sfera giuridica del
lavoratore, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni,
patrimoniali e non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo il
ricorrente mettere la controparte in condizione di conoscere quali pregiudizi
vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione
e dall’assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo (v., ex multis, Cass.
nn. 5590/2016; 691/2012). Grava, quindi, sul lavoratore l’onere di provare
l’esistenza del danno lamentato, la natura e le caratteristiche del pregiudizio
subito, nonché il relativo nesso causale con l’inadempimento del datore di
lavoro (cfr., tra le altre, Cass, nn. 2886/2014; 11527/2013;
14158/2011; 29832/2008).

La qual cosa, nel caso di specie non è avvenuta, in
quanto i giudici di merito hanno sottolineato che manca qualunque elemento
delibatorio nel ricorso introduttivo del giudizio a sostegno delle pretese del
ricorrente; né quest’ultimo, in violazione dell’art.
366, primo comma, n. 6, c.p.c., ha prodotto documentazione che potesse
dimostrare il contrario;

che, per tutte le considerazioni svolte, il ricorso
va rigettato; che le spese, liquidate come in dispositivo, in favore delle
parti controricorrenti, seguono la soccombenza; che, avuto riguardo all’esito
del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti
processuali di cui all’art. 13,
comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in
dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento, in favore delle parti controricorrenti, delle spese del giudizio di
legittimità, liquidate per ciascuna in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per
esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
-bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 febbraio 2021, n. 4408
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