Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 25 febbraio 2021, n. 5255
Risarcimento del danno biologico, Infortunio sul lavoro,
Prevedibilità di tale evento, Responsabilità dell’imprenditore per la mancata
adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore
Ritenuto
che V.S. – dipendente di P.I. S.p.A. con la
qualifica di operatore di sportello, in servizio presso l’ufficio postale di
Roma, via B.U. – ha proposto ricorso, dinanzi al Tribunale di Roma, nei
confronti della società datrice di lavoro, al fine di ottenere il risarcimento
del danno biologico patito, <<accertato nella misura del 7% e pari ad
euro 7.560,00, oltre al maggior danno esistenziale in misura non inferiore ad
euro 4.000 o in quella maggiore o minore di giustizia oltre interessi e
rivalutazione, quale conseguenza della rapina subita presso il menzionato
ufficio postale il 21.9.2006, durante la quale era stato malmenato>>;
che la società, nel costituirsi, aveva spiegato
domanda di manleva nei confronti dell’INAIL-Istituto Nazionale per
l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (che vi aveva resistito), sulla
quale il Tribunale non si era pronunziato;
che il primo giudice, accogliendo la domanda
<<esclusivamente sotto il profilo dell’an, come espressamente richiesto
dal ricorrente>>, ha riconosciuto la responsabilità di P.I. S.p.A. per
quanto accaduto, ai sensi dell’art. 2087 c.c.,
per la mancata adozione di idonee misure di tutela dell’integrità fisica del
dipendente, quali la blindatura dell’ambiente di lavoro, la presenza di vetri
antiproiettile e la vigilanza delle guardie giurate; che la Corte di Appello di
Roma, con sentenza pubblicata il 17.2.2016, ha rigettato il gravame interposto
dalla società datrice di lavoro, avverso la pronunzia del Tribunale, nei
confronti dello S. (<<l’INAIL si è costituito anche in sede di gravame,
seppure non destinatario di alcuna specifica domanda spiegata da parte
appellante>>);
che la Corte territoriale, per quanto ancora in
questa sede rileva, ha osservato che <<la mancata adozione, da parte del
datore di lavoro, di adeguate misure, specificamente dirette ad impedire,
prevenire o comunque rendere più difficoltoso il realizzarsi del programma
delittuoso, fonda la responsabilità del medesimo datore in ordine agli eventi
dannosi che ne siano la conseguenza>> e che <<nella specie,
nell’ufficio postale interessato, che custodiva anche contante (la somma
asportata ammonta ad oltre 2.000,00 euro), non erano installati efficaci
sistemi di protezione antirapina, nonostante la prevedibilità di tale evento;
giacché né era assicurata la separazione invalicabile dell’ambiente valori, né,
alternativamente, erano installati dispositivi di controllo in ingresso, o era
prevista una vigilanza armata di personale di sicurezza>>;
che per la cassazione della sentenza ricorre P.I.
S.p.A., articolando un motivo cui resiste con controricorso V.S. (nei confronti
dell’INAIL non vi è alcuna notifica); che il P.G. non ha formulato richieste
che, con il ricorso, si denunzia, in riferimento all’art.
360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., e si lamenta che i giudici di
merito avrebbero riconosciuto la responsabilità della società datrice di lavoro
per i danni occorsi al dipendente, perché avrebbero erroneamente ritenuto che
non fossero state predisposte adeguate misure di sicurezza per la tutela dei
lavoratori nell’ufficio postale di cui si tratta ed avrebbero, in conseguenza
di ciò, reputato che la società avesse violato l’art.
2087 c.c., ai sensi del quale l’imprenditore, nell’adottare le misure
necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori
di lavoro, deve tenere conto della <<particolarità del lavoro,
dell’esperienza e della tecnica>>; si deduce, altresì, che i giudici del
gravame non avrebbero <<ben valutato che la rapina pur essendo un evento
prevedibile in relazione all’attività che viene svolta all’interno dell’ufficio
postale è un evento non prevenibile pur in presenza dei più sofisticati sistemi
di protezione:» >; ed inoltre, che i giudici di merito avrebbero addebitato
alla società una ipotesi di responsabilità oggettiva, non considerando che la responsabilità
datoriale deve essere necessariamente collegata alla violazione degli obblighi
di comportamento imposti da una fonte legislativa, ovvero suggeriti dalle
conoscenze tecniche del momento;
che il motivo non è fondato; ed invero, alla stregua
dei consolidati arresti giurisprudenziali di legittimità (cfr, ex plurimis, Cass. nn. 10145/2017; 22710/2015;
18626/2013; 17092/2012;
13956/2012), la responsabilità
dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare
l’integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o,
nell’ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale
di cui all’art. 2087 c.c., costituente norma di
chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non
ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della
sua formulazione e che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare,
nell’esercizio dell’impresa, tutte le misure che, avuto riguardo alla
particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a
tutelare l’integrità psico-fisica dei lavoratori (cfr., tra le molte, Cass. nn.
27964/2018; 16645/2003; 6377/2003). Per la qual cosa, in particolare nel
caso in cui si versi in ipotesi di attività lavorativa divenuta
<<pericolosa>>, come nella fattispecie, a causa della possibilità
che si verifichino episodi quali quello di cui si tratta, la responsabilità del
datore di lavoro- imprenditore ai sensi dell’art. 2087 c.c. non configura una
ipotesi di responsabilità oggettiva e tuttavia non è circoscritta alla
violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e
collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle
garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione, da parte del
datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare
l’integrità psico-fisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto
conto della concreta realtà aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del
connesso rischio (cfr., ex plurimis, Cass. nn.
10145/2017, cit. ; 15156/2011);
che, al riguardo, è altresì da osservare che la
dottrina e la giurisprudenza più attente hanno sottolineato come le disposizioni
della Carta costituzionale abbiano segnato anche nella materia giuslavoristica
un momento di rottura rispetto al sistema precedente <<ed abbiano
consacrato, di conseguenza, il definitivo ripudio dell’ideale produttivistico
quale unico criterio cui improntare l’agire privato>>, in considerazione
del fatto che l’attività produttiva – anch’essa oggetto di tutela
costituzionale, poiché attiene all’iniziativa economica privata quale
manifestazione di essa (art. 41, primo comma, Cost.)
– è subordinata, ai sensi del secondo comma della medesima disposizione, alla
utilità sociale, che va intesa non tanto e soltanto come mero benessere
economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettività, quanto,
soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona
umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità. Da ciò consegue
che la concezione <<patrimonialistica>> dell’individuo deve
necessariamente recedere di fronte alla diversa concezione che fa leva
essenzialmente sullo svolgimento della persona, sul rispetto di essa, sulla sua
dignità, sicurezza e salute – anche nel luogo nel quale si svolge la propria
attività lavorativa -; momenti tutti che <<costituiscono il centro di
gravità del sistema>>, ponendosi come valori apicali dell’ordinamento,
anche In considerazione del fatto che la mancata predisposizione di tutti i
dispositivi di sicurezza al fine di tutelare la salute dei lavoratori sul luogo
di lavoro viola l’art. 32 della Costituzione,
che garantisce il diritto alla salute come primario ed originario
dell’individuo, nonché le disposizioni antinfortunistiche, fra le quali quelle
contenute nel D.lgs. n. 626/94 – attuativo, come
è noto, di direttive europee riguardanti il miglioramento della sicurezza e
della salute dei lavoratori nello svolgimento dell’attività lavorativa -, ed
altresì l’art. 2087 c.c. che, imponendo la
tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore da parte del datore di
lavoro, prevede un obbligo, da parte di quest’ultimo, che non si esaurisce
<<nell’adozione e nel mantenimento perfettamente funzionale di misure di
tipo igienico-sanitarie o antinfortunistico>>, ma attiene anche – e
soprattutto – alla predisposizione <<di misure atte, secondo le comuni
tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di quella
integrità nell’ambiente o in costanza di lavoro anche in relazione ad eventi,
pur se allo stesso non collegati direttamente, ed alla probabilità di
concretizzazione del conseguente rischio>>;
che tale interpretazione estensiva della citata
norma del codice civile si giustifica alla stregua dell’ormai consolidato
orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr., già da epoca risalente,
Cass. nn. 8422/1997; 7768/1995), sia in base al
rilievo costituzionale del diritto alla salute – art.
32 Cost. -, sia per il principio di correttezza e buona fede
nell’attuazione del rapporto obbligatorio – artt.
1175 e 1375 c.c., disposizioni
caratterizzate dalla presenza di elementi <<normativi>> e di
clausole generali (Generalklauseln) -, cui deve essere improntato e deve
ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro, sia, infine, <<pur
se nell’ambito della generica responsabilità extracontrattuale>>, ex art. 2043 c.c., in tema di neminem laedere (al
riguardo, questa Suprema Corte ha messo, altresì, in evidenza, già da epoca non
recente, che, in conseguenza del fatto che la violazione del dovere del neminem
laedere può consistere anche in un comportamento omissivo e che l’obbligo
giuridico di impedire l’evento può discendere, oltre che da una norma di legge
o da una clausola contrattuale, anche da una specifica situazione che esiga una
determinata attività, a tutela di un diritto altrui, è da considerare
responsabile il soggetto che, pur consapevole del pericolo cui è esposto
l’altrui diritto, ometta di intervenire per impedire l’evento dannoso);
che, fatte tali premesse, deve osservarsi che, nel
caso di specie, l’onere della prova gravava sul datore di lavoro, che avrebbe
dovuto dimostrare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno (prova
liberatoria) derivato allo S., attraverso l’adozione di cautele previste in via
generale e specifica dalle norme antinfortunistiche, di cui, correttamente, i
giudici di merito hanno ravvisato la violazione, ritenendo la sussistenza del
nesso causale tra il danno occorso al lavoratore, a seguito della rapina
subita, e l’attività svolta dallo stesso, senza la predisposizione, da parte
della datrice di lavoro, delle adeguate misure dirette a tutelare i dipendenti
(oltre a quanto già riferito in narrativa, i giudici di merito hanno
sottolineato che <<il roller cash si è dimostrato dispositivo in concreto
inadeguato, essendo stato possibile aprirlo a comando (e il cassiere S. fu
violentemente costretto a manovrare in tal senso), come pure le videocamere di
ripresa o i pulsanti di allarme remoto, incapaci (anche in astratto) di
prevenire o sventare la condotta criminosa, perpetrata da malviventi travisati
e rapidi nell’agire>>);
che, pertanto, è condivisibile la conclusione cui i
medesimi sono giunti, dopo avere messo in evidenza la mancanza della prova
liberatoria da parte della società datrice di lavoro – la quale si è difesa
sostenendo che <<la rapina in un ufficio postale è un evento non
prevenibile pur in presenza dei più sofisticati sistemi di protezione>>
(v. pag. 5 del ricorso) -, trattandosi di responsabilità contrattuale per
omessa adozione, ai sensi dell’art. 2087 c.c.,
delle opportune misure di prevenzione atte a preservare l’integrità
psico-fisica del lavoratore sul luogo di lavoro; che, per tutto quanto in
precedenza esposto, il ricorso va rigettato;
che le spese del presente giudizio, liquidate come
in dispositivo, seguono la soccombenza;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente
al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro
5.450,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del
15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorsa norma del comma 1
-bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.