Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 febbraio 2021, n. 5473
Condotta vessatoria, integrante mobbing o straining,
Risarcimento dei danni derivati dal demansionamento, Spostamenti per
soddisfare le varie esigenze di servizio, Ordini di servizio percepiti come
vessatori, indirizzati a tutto il personale inquadrato nell’area, Esercizio
reiterato del potere disciplinare, ragione di possibile persecuzione illecita
del lavoratore
Ritenuto che
1. la Corte d’Appello di Bologna ha confermato la
sentenza del Tribunale di Ferrara che aveva rigettato la domanda di S.D.,
commessa giudiziaria inquadrata come A1, volta ad ottenere la condanna del
Ministero della Giustizia al risarcimento dei danni derivati dal
demansionamento e dalla condotta vessatoria, integrante mobbing o straining,
subita a partire dal 1998 e sino al febbraio 2009;
la Corte ha precisato che, quanto alla
dequalificazione, sebbene nelle conclusioni fosse menzionato l’intero arco
temporale 1998/2009, nella narrativa e nei capitoli di prova l’inattività era
stata riferita al solo periodo giugno/settembre 1999; essa ha poi rilevato come
la stessa lavoratrice avesse ammesso di essere stata, nel corso degli anni,
spostata da una cancelleria all’altra per soddisfare le varie esigenze di
servizio, precisando quindi che l’impiego per la custodia ed il controllo del
piano ove erano situate stanze di magistrati, di cui al periodo a tal fine
rilevante e come sopra delimitato, non poteva configurare un demansionamento,
trattandosi di compiti riconducibili all’area A nella Quale sono inquadrati i
dipendenti che svolgono mansioni elementari per il cui espletamento non è
richiesta una particolare competenza, aggiungendo che in ogni caso la lesione
alla professionalità non si può realizzare per limitati periodi di tempo, con
principio destinato a maggior ragione a valere nei casi di mansioni semplici da
svolgere;
la Corte territoriale ha altresì escluso che fosse
stata offerta la prova della denunciata condotta vessatoria ed ha ritenuto
sufficiente per la decisione della causa la valutazione della produzione
documentale, osservando rispetto ad essa come gli ordini di servizio percepiti
come vessatori fossero indirizzati a tutto il personale inquadrato nell’area A
e come la appellante non avesse mai impugnato le contestazioni disciplinari che
le erano state fatte;
infine, i giudici di appello rimarcavano come le
note e le segnalazioni provenienti dagli operatori e dai diversi responsabili
delle cancellerie, ossia da una pluralità di soggetti, portavano a ritenere che
quanto esposto dalla ricorrente non fosse da riportare al mobbing, ma si
trattasse semplicemente di una “difficile interazione personale” con
gli altri addetti all’ufficio;
la D. ha proposto ricorso per cassazione con due
motivi, cui poi ha aggiunto memoria;
il Ministero della Giustizia ha resistito attraverso
controricorso;
Considerato che
1. con il primo motivo la ricorrente denuncia
violazione eo falsa applicazione dell’art. 52 d.lgs. 165/2001,
nonché degli artt. 115, 116 e 421 c.p.c.,
oltre ad omessa eo insufficiente eo contraddittoria motivazione circa un
fatto decisivo per la controversia; secondo la ricorrente la Corte territoriale
avrebbe errato nell’affermare che essa non era mai rimasta inattiva, essendo
stato evidenziato fin dal ricorso di primo grado il fatto che dal giugno al
settembre 1999 era stata lasciata priva di compiti, rimarcando altresì come il
pur breve periodo di inattività avrebbe dovuto essere accertato in quanto
propedeutico alla domanda di risarcimento per violazione dell’art. 2087 c.c.;
con il secondo motivo è addotta violazione eo falsa
applicazione dell’art. 2087 c.c. e degli artt. 115, 116 e 421 c.p.c. ed ancora omessa eo insufficiente eo
contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per la controversia;
la ricorrente censura la sentenza impugnata per non
avere ammesso le prove testimoniali dedotte al fine di comprovare il mobbing e
sottolinea come la reiterata utilizzazione del procedimento disciplinare
costituisse, secondo costante giurisprudenza, uno degli indici rivelatori delle
situazioni di mobbing;
2. i motivi, da esaminare congiuntamente data la
loro connessione, sono inammissibili;
quanto al demansionamento, l’affermazione per cui la
Corte territoriale avrebbe trascurato i passaggi del ricorso di primo grado in
cui era stata dedotto che tra giugno e settembre 1999 la D. era rimasta priva
di compiti, nulla adduce rispetto alla coesistente ed autonoma ratio decidendi
con cui i giudici di appello hanno sostenuto che – «inoltre» – il breve periodo
e la scarsa tecnicità delle mansioni avrebbero impedito comunque il realizzarsi
di una lesione alla professionalità;
il primo motivo di ricorso fa in effetti
riferimento, in senso critico, a quest’ultima ratio decidendi, ma senza
specificare ragioni per cui essa avrebbe portato ad escludere erroneamente il
demansionamento, quanto al fine di sostenere l’altro capo di domanda, quello
inerente al mobbing, nel senso che quel periodo di inattività, insieme con gli
altri elementi dedotti in causa, avrebbe potuto contribuire a delineare quella
(diversa) fattispecie lesiva dei diritti del lavoratore;
pertanto, rispetto al demansionamento in sé
considerato vale il consolidato principio per cui «ove la sentenza di merito
sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle
quali giuridicamente e logicamente
sufficiente a giustificare la decisione adottata, il rilievo di
inammissibilità del motivo di ricorso per cassazione diretto a censurare solo
una di esse rende irrilevante l’esame degli altri motivi, atteso che in nessun
caso potrebbe derivarne l’annullamento della sentenza impugnata, risultando
comunque consolidata l’autonoma motivazione oggetto della censura dichiarata
inammissibile» (Cass. 21 giugno 2017, n. 15350);
venendo allora al mobbing, va subito detto che la
critica incentrata sulla mancata ammissione dei capitoli di prova destinati
alla sua dimostrazione è inammissibile perché generica, non riportando il testo
di tali deduzioni istruttorie;
la formulazione si pone dunque in contrasto con i
presupposti di specificità di cui all’art. 366, co.
1, c.p.c. (Cass. 24 aprile 2018, n. 10072) e di autonomia del ricorso per
cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma nel
suo complesso esprime, con riferimento in particolare, qui, ai nn. 3, 4 e 6
della stessa disposizione, da cui si desume la necessità che la narrativa e
l’argomentazione siano idonee, riportando anche la trascrizione esplicita dei
passaggi degli atti su cui le censure si fondano, a manifestare pregnanza,
pertinenza e decisività delle ragioni di critica prospettate, senza necessità
per la S.C. di ricercare autonomamente i corrispondenti profili ipoteticamente rilevanti
(v. ora, sul punto, Cass., SU., 27 dicembre 2019, n. 34469); restano, sempre
quanto a mobbing, i profili di censura (di cui alla parte finale del primo
motivo) in ordine al periodo di asserita inattività tra giugno e settembre 1999
e la deduzione (di cui alla parte finale del secondo motivo) per cui anche
l’esercizio reiterato del potere disciplinare sarebbe ragione di possibile
persecuzione illecita del lavoratore;
la Corte territoriale ha tuttavia affermato di
condividere quanto affermato dal Tribunale, ovverosia che dovesse essere
escluso il mobbing, quale forma di persecuzione intenzionale, per il fatto che
gli ordini di servizio assunti riguardavano tutto il personale, nonché per
l’esistenza di note o segnalazioni di vari responsabili delle cancellerie e di
operatori, da cui si desumeva che più soggetti autonomamente avevano riferito
di essere stati interessati da un diretto coinvolgimento in difficili
interazioni con la ricorrente, nonché appunto sulla sussistenza di
contestazioni mosse alla ricorrente «risultate fondate e mai impugnate»; in
tale complessivo e completo quadro motivazionale, i due elementi sopra
menzionati (inattività per un trimestre; reiterarsi di sanzioni disciplinari),
anche ove si volesse riconoscere un inquadramento delle censure nell’ipotesi di
cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. menzionata in
entrambi i motivi di ricorso, restano del tutto generici e come tali inidonei a
svelare una loro decisività, tenuto conto del breve periodo di (asserita) inattività
e della laconicità della deduzione rispetto a sanzioni disciplinari, la cui
neppure contestata legittimità intrinseca, in mancanza di altri elementi più
specifici, non consente di certo una valutazione in senso sfavorevole per il
datore di lavoro (v. anche Cass. 10 novembre 2017,
n. 26684);
3. all’inammissibilità del ricorso segue la
regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità;
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente
al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di
legittimità, che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a
debito;
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.p.r. 115
del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis, dello stesso articolo 13,
se dovuto.