La scansione della lettera che contesta il recesso datoriale, firmata analogicamente dal lavoratore e dal suo legale, e da quest’ultimo inviata tramite messaggio PEC al datore di lavoro è idonea ad interrompere la decadenza prevista dall’art. 6, co.1, L. n. 604/1966.
Trib. Roma (ord). 20 ottobre 2020, n. 86577
Gennaro Ilias Vigliotti
L’impugnazione del licenziamento deve essere proposta dal lavoratore, a pena di decadenza, entro il termine di 60 giorni dalla ricezione o dalla notifica della lettera di recesso e tramite qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a rendere nota la sua volontà (art. 6, co. 1, L. n. 604/1966). La norma ha posto diversi problemi interpretativi nel caso in cui, come spesso accade nella prassi, tale impugnativa sia operata per iscritto in via analogica e sia poi inviata, a seguito di scansione non sottoscritta digitalmente, tramite messaggio PEC dell’avvocato del dipendente.
Un primo indirizzo giurisprudenziale di merito, ha affermato che se l’impugnazione del licenziamento è un atto unilaterale a contenuto patrimoniale, vincolato alla forma scritta per mere esigenze di certezza, tale atto, ai fini della sua validità sostanziale e probatoria, deve necessariamente possedere la forma di cui all’art. 2702 c.c., sia che la stessa avvenga con modalità cartacee che con modalità digitali. Nel caso in cui il lavoratore decida di avvalersi della scrittura privata, dunque, sarà necessario che quest’ultima rechi la firma autografa del lavoratore e/o del difensore, mentre nel caso del documento informatico o della copia informatica di documenti analogici sarà invece necessaria la presenza dei requisiti di cui, rispettivamente, agli artt. 20 e 22, D.LGS. n. 82/2015 (c.d. “Codice dell’Amministrazione Digitale” o “CAD”) e cioè la firma digitale, nel primo caso, ed il rispetto delle Linee Guida AgID, l’assenza di disconoscimento o l’attestazione di conformità di notaio o altro pubblico ufficiale, nel secondo caso (in questo senso, da ultimo, Trib. Monza 29 gennaio 2020; Trib. Palermo 28 ottobre 2020, n. 36015).
Secondo diverso indirizzo, invece, condiviso dalla ordinanza del Tribunale di Roma, sez. lav., 20 ottobre 2020, n. 86577, l’impostazione che richiede necessariamente la firma digitale o l’attestazione di conformità dell’impugnativa “limita eccessivamente la libertà di forma dell’atto di impugnazione del recesso stragiudiziale riconosciuta dall’art. 6 Legge n. 604/66, non rinvenendosi alcuna disposizione normativa che prescriva l’adozione di specifiche forme né che detto atto debba essere redatto nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, quale sarebbe da intendersi la scansione, ovvero la copia per immagine su supporto informatico del documento analogico, munita di attestazione di conformità resa dal notaio o da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato”. Di contro, il solo requisito previsto per l’impugnativa è quello della forma scritta, inteso in senso generico e, quindi, non necessariamente riferibile alle sole previsioni di cui agli artt. 2702, 2714 o 2715 c.c. Ne discende che “affinché l’impugnativa possa considerarsi valida è sufficiente che il lavoratore manifesti al datore di lavoro, per iscritto, la volontà di contestare la validità e l’efficacia del licenziamento e ciò indipendentemente dalla terminologia utilizzata e senza la necessità di formule sacramentali o rituali”.
In tale quadro, l’impugnativa scansionata dall’originale analogico ed inviata via PEC dall’avvocato, non sottoscritta digitalmente e non accompagnata da attestazione di conformità, è comunque idonea ad interrompere la decadenza di cui al primo comma dell’art. 6, L. n. 604/1966, in quanto consente una sicura riferibilità del suo contenuto alla volontà del lavoratore, garantendo così le caratteristiche di certezza, integrità ed immodificabilità richieste dalla norma.