Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 marzo 2021, n. 5647

Licenziamento, Procedura di riduzione di personale, Verifica
comparativa con il resto del personale con professionalità fungibile,
individuando ex ante, ai fini di effettuare il raffronto ed orientare la
scelta, criteri valutativi certi e verificabili

 

Fatti di causa

 

1. Il Tribunale di Milano, con sentenza n.
2462/2018, rigettò l’opposizione proposta, nell’ambito di un procedimento di
impugnativa di licenziamento ex lege n. 92 del
2012, dalla C.F. Spa nei confronti di L.B. avverso l’ordinanza con la quale
era stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento intimato alla
lavoratrice all’esito di una procedura di riduzione di personale, con
applicazione della tutela reintegratoria e indennitaria prevista dall’art. 18, co. 4, I. n. 300 del
1970, come novellato dalla legge n. 92/2012
citata.

La Corte ha innanzitutto considerato che,
“trattandosi di lavoratrice con inquadramento impiegatizio”,
“per valutare se fosse la B., tra gli impiegati in servizio, a dover
essere licenziata, la società avrebbe dovuto effettuare verifica comparativa
con il resto del personale con professionalità fungibile, individuando ex ante,
ai fini di effettuare il raffronto ed orientare la scelta, criteri valutativi
certi e verificabili”.

Secondo la Corte, “l’omissione di tale
individuazione, come ritenuto dal Tribunale, si traduce in vizio nell’applicazione
dei criteri di scelta ex art.
5, comma 1, I. 23 luglio 1991 n. 223”, conseguendo il regime
sanzionatorio di cui al comma 4 dell’art. 18 novellato, per
“violazione dei criteri di scelta”.

La Corte territoriale ha poi aggiunto altra ragione
“parimenti e autonomamente idonea a fondare la statuizione del
Tribunale”. Ha argomentato che “la società ha individuato la B. come
eccedentaria in quanto ella svolgeva ad I., da ultimo, mansioni di assistente
magazzino materiali ausiliari confezionamento, profilo professionale indicato
come eccedentario dalla comunicazione di apertura, in ragione della sostanziale
cessazione dell’attività di produzione e stoccaggio” in quello
stabilimento; tuttavia -prosegue la Corte – “l’assegnazione di detto
profilo professionale alla lavoratrice è frutto di una condotta illecita del
datore di lavoro” per violazione dell’art.
2103 c.c.; “se così è, la soppressione dell’attività lavorativa il cui
svolgimento è stato illegittimamente imposto da C. a B. non può costituire
esigenza tecnico-organizzativa idonea a giustificare l’intimazione del
licenziamento ad una lavoratrice che in azienda avrebbe dovuto occupare
posizione e ruolo diverso da quello investito dalla riorganizzazione”
aziendale.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso la società soccombente con 2 motivi; ha resistito con controricorso
L.B., illustrato anche da memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia
nullità della sentenza o del procedimento, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4, in relazione all’art. 115 c.p.c. e 2697
c.c.

Richiamando Cass. n. 9356 del 2017, si sostiene che
la Corte di Appello sarebbe incorsa in un “errore di percezione”
sulla “ricognizione del contenuto oggettivo della prova”, avendo
ritenuto “provato che la ricorrente prima del licenziamento” avesse
svolto attività non solo ne! reparto produzione ma anche in altri reparti
dell’azienda; circostanza questa, secondo la ricorrente, assolutamente non vera
e contraddetta da quanto dichiarato dalla B. nel ricorso introduttivo del
giudizio.

Si critica, poi, l’altra argomentazione contenuta
nella sentenza impugnata circa il fatto che l’assegnazione della lavoratrice
alle mansioni di “assistente al magazzino materiali ausiliari e
confezionamento” rappresentasse un illecito.

Si eccepisce: “sia che si considerino le
mansioni svolte da L.B. in precedenza, sia quelle che le sono state
successivamente attribuite, L.B. non avrebbe dovuto essere oggetto di
comparazione con nessun altro prestatore di lavoro subordinato del sito produttivo
di I., in quanto facente parte di un ramo di azienda che non esisteva più e
che, quindi, non aveva più alcuna necessità di addetti”.

Infine, invocando a sostegno Cass. n 13 del 2016, si
deduce che la ricorrente lavoratrice non avrebbe offerto alcuna prova del fatto
che, se paragonata ad altri colleghi, avrebbe ottenuto il mantenimento del
posto di lavoro.

2. Il motivo non può trovare accoglimento.

Non è dubbio che la valutazione se più lavoratori
svolgano o meno mansioni fungibili involge un apprezzamento di fatto affidato
all’accertamento del giudice di merito. Se si critica il risultato di tale
valutazione, peraltro nella specie conformemente effettuata dai giudici di
entrambi i gradi di merito, non si denuncia un errore di diritto bensì si
invoca un sindacato su di una quaestio facti precluso in sede di legittimità.

Inoltre la critica di parte ricorrente si incentra
sull’assunto che la B. non avrebbe svolto attività presso altri reparti, ma non
è affatto questa circostanza che i giudici del merito pongono a fondamento del
loro convincimento, quanto piuttosto che la lavoratrice licenziata aveva un
inquadramento impiegatizio e non era stata effettuata alcuna comparazione con
altri lavoratori di V livello rimasti in servizio, senza che l’azienda spiegasse
perché le mansioni fossero da ritenere infungibili.

Tanto in coerenza con principi più volte ribaditi da
questa Corte.

Infatti, in tema di licenziamento collettivo, il
doppio richiamo operato dall’art.
5, comma 1, della legge n. 223 del 1991 alle esigenze tecnico-produttive ed
organizzative del complesso aziendale, comporta che la riduzione del personale
deve, in linea generale, investire l’intero ambito aziendale, potendo essere
limitato a specifici rami d’azienda soltanto se caratterizzati da autonomia e
specificità delle professionalità utilizzate, infungibili rispetto alle altre.
Ne consegue che il riferimento al “personale abitualmente impiegato”,
aggiunto all’originario testo dell’art. 4, comma 3, della legge n.
223, dal d.lgs. n. 151 del 1997, comporta
che i profili professionali da prendere in considerazione sono quelli propri di
tutti i dipendenti potenzialmente interessati (in negativo) alla mobilità, tra
i quali potrà, all’esito della procedura, operarsi la scelta dei lavoratori da-
collocare in mobilità. La dimostrazione della ricorrenza delle specifiche
professionalità o comunque delle situazioni oggettive che rendano impraticabile
qualunque comparazione, costituisce onere probatorio a carico del datore di
lavoro (Cass. nn. 22824 e 22825 del 2009; Cass.
n. 14612 del 2006; più di recente v. Cass. n.
203 del 2015 e Cass. n. 19105 del 2017).

Pertanto, non può essere ritenuta legittima la
scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto lavorativo soppresso o
ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di
addetti ad altre realtà organizzative (Cass. n.
14612 del 2006; Cass. n. 25353 del 2009, Cass. n. 9711 del 2011; v. pure Cass. n. 26376 del 2008; Cass. n. 11034 del 2006; Cass. n. 13783 del 2006). Ne consegue
l’illegittimità del licenziamento collettivo operato da un datore di lavoro che
non abbia in alcun modo esperito il confronto tra tutti i lavoratori aventi
professionalità omogenea a quella posseduta dagli altri lavoratori rimasti in
servizio (Cass. n. 17177 del 2013).

Naturalmente grava sul datore di lavoro provare che
lavoratori dotati del medesimo inquadramento professionale non siano in grado
di svolgere le mansioni di posizioni lavorative residuate all’esito della
riorganizzazione aziendale, mentre la società ricorrente ancora insiste nel
ricorso per cassazione che la B. faceva parte “di un ramo d’azienda che
non esisteva più e che, quindi, non aveva più alcuna necessità di
addetti”, come se la sola circostanza dell’adibizione al reparto soppresso
fosse sufficiente a giustificare la mancata comparazione con il personale
ancora in servizio.

Inconferente poi il richiamo, nel motivo in esame, a
Cass. n. 13 del 2016 che ha riguardo ad altra materia. Ove poi esso debba
intendersi al principio secondo cui “l’annullamento del licenziamento per
violazione dei criteri di scelta ai sensi dell’articolo 5 L. 223/1991, nella
formulazione vigente anteriormente alle modifiche ex lege 92/2012, non può essere domandato
indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da coloro
che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della
violazione, perché avente rilievo determinante rispetto al licenziamento” (Cass. n. 24558 del 2016; Cass. n. 13871 del 2019), risulta parimenti
inconferente; infatti, nella specie, non occorre verificare se, in concreto, la
violazione dei criteri di scelta abbia avuto (o meno) influenza sul
licenziamento impugnato in ragione di una errata applicazione di criteri di
scelta astrattamente legittimi, ma piuttosto si controverte di un criterio di
scelta – l’adibizione al reparto soppresso – radicalmente illegittimo in mancanza
di una comparazione con lavoratori di pari inquadramento professionale.

Poiché una delle ragioni poste a fondamento della
decisione di confermare l’illegittimità del licenziamento resiste alle censure
che le sono mosse, resta del tutto irrilevante l’esame della critica rivolta
all’altra ratio decidendi che sostiene la sentenza impugnata, atteso che, anche
laddove detta critica fosse fondata, comunque ciò non comporterebbe la
cassazione della pronuncia autonomamente retta dalla prima ratio che ha resistito
al vaglio di legittimità.

3. Il secondo motivo denuncia: “Violazione o
falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi di
lavoro in relazione all’art. 4,
co. 9, I. n. 223/91, all’art.
5 I. n. 223/91 ed all’art.
18 I. n. 300/70”.

Si lamenta chi sarebbero state elencate una serie di
“mancanze” che la società avrebbe commesso nella comunicazione ex art. 4, comma 9, I. 223 del 1991,
ma “espressamente non si dice chi sarebbe stato il dipendente o i
dipendenti rimasti in servizio mentre il diritto spettava alla
ricorrente”. Si eccepisce che, anche quando le carenze di comunicazione
denunciate non esistessero e fossero fondate, non troverebbe mai applicazione
la tutela reintegratone, quanto piuttosto quella indennitaria stabilita in caso
di “violazione delle procedure”.

4. La censura è infondata.

L’art.
5, co. 3, I. n. 223/1991, successivamente alla novella ex art. 1, co. 46, I. n. 92/2012,
distingue la tutela indennitaria in caso di “violazione delle procedure
richiamate dall’art. 4, co.
12” dalla tutela anche reintegratoria nell’ipotesi di “violazione dei
criteri di scelta previsti dal comma 1”.

La giurisprudenza di questa Corte ha definito il
confine tra “vizio formale” (incompletezza della comunicazione circa i criteri
di scelta) e “vizio sostanziale” (violazione dei criteri di scelta) al fine di
individuare le tutele previste dall’art. 5, co. 3, della legge n.
223/1991. In particolare ha chiarito che la “violazione dei criteri di
scelta”, legittimante la reintegrazione nel posto di lavoro ed il
pagamento di una indennità risarcitoria, si ha “allorquando i criteri di
scelta siano illegittimi, perché in violazione di legge, o illegittimamente
applicati, perché attuati in difformità dalle previsioni legali o
collettive” (Cass. n. 12095 del 2016;
conf. Cass. n. 19320 del 2016; Cass. n. 2587 del 2018). Perché un conto è
l’omissione o l’inadeguatezza della comunicazione di chiusura della procedura
con cui occorre spiegare come sono stati individuati i lavoratori da licenziare
(violazione della procedura), altro conto è selezionare i lavoratori da
licenziare in difformità dalle prescrizioni legali o dalle previsioni
collettive (violazione dei criteri di scelta); nel primo caso, laddove vi sia
esclusivamente una violazione dell’obbligo procedurale, il lavoratore può
essere comunque destinatario di un licenziamento che lo selezioni sulla base di
criteri di scelta in concreto correttamente applicati, mentre, nel secondo
caso, il lavoratore non è stato individuato sulla base di criteri legittimi.

Si è così ribadito il principio secondo cui: «Quando
la comunicazione ex art. 4, co.
9, I. n. 223/1991 carente sotto il profilo formale delle indicazioni
relative alle modalità di applicazione dei criteri di scelta si sia risolta
nell’accertata illegittima applicazione di tali criteri vi è, in conformità ai
principi di questa Corte (v. Cass. n. 2587 del
2018; Cass. n. 19320 del 2016; Cass. n. 12095 del 2016), annullamento del
licenziamento, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al
pagamento di un’indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici
mensilità (ex art. 18, co.
4, testo novellato)» (in termini, Cass. n. 19010
del 2018).

Nella specie, quindi, la Corte territoriale non ha
commesso alcun errore di diritto, perché ha applicato la tutela di cui al comma
4 dell’art. 18 I. n. 300 del
1970 non per una mera violazione formale, quanto piuttosto perché non era
stata effettuata alcuna comparazione della B. con personale ritenuto fungibile,
in violazione dei principi di diritto innanzi richiamati secondo i quali il
datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità
ai soli dipendenti addetti al reparto soppresso o ridimensionato laddove detti
lavoratori siano comunque giudicati idonei ad occupare le posizioni lavorative
di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere
ritenuta conforme a legge la scelta di lavoratori solo perché impiegati in
detto reparto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella
di addetti ad altre unità organizzative.

5. Conclusivamente il ricorso va rigettato, con
spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228
del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte della società, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1 -bis dello stesso art. 13
(cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento delle spese di lite liquidate in euro 7.200,00, di cui euro 200,00
per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il
ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 marzo 2021, n. 5647
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