Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 marzo 2021, n. 5539

Rapporto di lavoro, Demansionamento, Risarcimento del danno
materiale e morale, patrimoniale e non patrimoniale, contrattuale e non
contrattuale, Mobbing, Onere della prova

 

Rilevato che

 

1. M.M. convenne innanzi al Tribunale di Bologna, in
funzione di giudice del lavoro, la società L. Srl e G.T. per chiedere: a) la
dichiarazione di illegittimità e nullità di sette provvedimenti di sospensione
dal lavoro per CIGS, con condanna dei convenuti, in solido, al risarcimento del
danno da inadempimento contrattuale corrispondente all’intera retribuzione
globale di fatto persa nei periodi di cassa integrazione, prevedendo la
contestuale restituzione all’INPS di tutte le integrazioni salariali poste a
carico dell’ente di previdenza; b) la condanna dei convenuti, in solido, al
risarcimento del danno materiale e morale, patrimoniale e non patrimoniale,
contrattuale e non contrattuale, subito in conseguenza del demansionamento e
degli altri atti posti in essere in suo danno dal datore di lavoro al fine di
emarginarla; c) la reintegra nelle precedenti mansioni di “Responsabile
dell’amministrazione del personale”; il tutto vinte le spese;

2. con sentenza pubblicata il 24 aprile 2014 il
Tribunale adito rigettò il ricorso, compensando le spese;

3. interposto gravame dalla soccombente, la Corte di
Appello di Bologna, con sentenza del 4 gennaio 2017, ha confermato la decisione
di primo grado;

4. per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso M.M. con 4 motivi; ritualmente intimati hanno resistito, con distinti
controricorsi, L. Srl in liquidazione ed in concordato preventivo, L.
Manifacturing Srl e G.T.; la ricorrente ha anche comunicato memoria;

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo di ricorso si denuncia:
“nullità della sentenza per violazione dell’art.
132, co. 2, n. 4, 112, 113, 115 c.p.c., art. 118, co. 1 e 2, disp. att. c.p.c., in
relazione all’art. 360, co. 1, n. 4 e n. 5, c.p.c.,
per motivazione apparente e violazione dell’art. 5 I. n. 164/75; art. 1, co. 7 e 8 I. n. 223/91;
art. 2 D.P.R. n. 218/2000, in
relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 e n. 5 c.p.c.”;
con molteplici argomenti si critica la sentenza impugnata per aver respinto il
terzo motivo di appello relativo alla inidoneità degli accordi sindacali a
superare la mancata autorizzazione ministeriale del principio di non rotazione;
si osserva che “la sentenza n. 976/2016 della Corte di Appello di Bologna
decide non conformemente alle norme di diritto” richiamate; si eccepisce
che detta Corte non avrebbe dato “pertinente e puntuale risposta alle
censure ritualmente mosse alla sentenza di primo grado” e ciò costituirebbe
“omessa motivazione della sentenza, comportante la nullità stessa”;

il motivo, per come formulato, presenta plurimi
profili di inammissibilità, non certo sanabili con il tardivo assunto,
contenuto nella memoria comunicata dalla difesa della M. in vista dell’adunanza
camerale, secondo cui esso censurerebbe “unicamente” la
“motivazione apparente” della sentenza impugnata;

il motivo, innanzitutto, come risulta evidente dalla
stessa rubrica prima richiamata, contiene promiscuamente la contemporanea
deduzione di violazione di plurime disposizioni di legge, sostanziale e
processuale, nonché di vizi di motivazione, senza alcuna specifica ed adeguata
indicazione, nell’illustrazione del motivo, di quale errore, tra quelli
dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono essere riconducibili ad uno
di quelli tipicamente indicati dal comma 1 dell’art.
360 c.p.c., così non consentendo una corretta identificazione del devolutum
e dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di
ricorso, “di censure caratterizzate da … irredimibile eterogeneità”
(Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013;
conf. Cass. n. 14317 del 2016; tra le più recenti v. Cass. n. 3141 del 2019, Cass. n. 13657 del 2019; Cass. n. 18558 del 2019;
Cass. n. 18560 del 2019);

in particolare questa Corte ha più volte
stigmatizzato tale modalità di formulazione che risulta irrispettosa del canone
della specificità del motivo di impugnazione nei casi in cui, nell’ambito della
parte argomentativa del mezzo di impugnazione, non risulti possibile – come nel
motivo all’esame di questo Collegio – scindere le ragioni poste a sostegno
dell’uno o dell’altro vizio, determinando una situazione di inestricabile
promiscuità, tale da rendere impossibile l’operazione di interpretazione e
sussunzione delle censure (v. Cass. n. 7394 del 2010, n. 20355 del 2008, n.
9470 del 2008); si è così ritenuta inammissibile la mescolanza e la
sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, non essendo consentita la
prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali
quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi
del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa
applicazione della normale del vizio di motivazione, che quegli elementi di
fatto intende precisamente rimettere in discussione; infatti, l’esposizione
diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle
risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al
giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente
proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali
disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo,
inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e
contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere
successivamente su di esse (in termini, Cass. n. 19443 del 2011; v. poi Cass.
n. 23600 del 2012; Cass. n. 25722 del 2014; Cass.
n. 671 del 2015; Cass. n. 15651 del 2017);

inoltre le plurime censure di violazione di legge,
trascurano di considerare che il vizio ex art. 360,
co. 1, n. 3, c.p.c., (espressamente richiamato dalla ricorrente in rubrica)
va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme
di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione
delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che
motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della
fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza
di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente
una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti
consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di
verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015;
Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012); in
realtà il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai
sensi dell’art. 360, co. 1, in. 3 c.p.c.,
ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione posta dal giudice a
fondamento della decisione, per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto
accertato, la norma, della cui esatta interpretazione non si controverte (in
caso positivo vertendosi in controversia sulla “lettura” della norma
stessa), non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata
quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male”
applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella
norma (Cass. n. 26307 del 2014; Cass. n. 22348 del 2007); sicché il processo di
sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di
una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto
incontestata il che nella specie non è, atteso che, nel corpo del motivo in
esame, parte ricorrente diffusamente critica la valutazione dei fatti come
operata dai giudici del merito, come è reso chiaro anche dal riferimento sia
alla testimonianza del dott. M. sia al documento n. 15;

chi ricorre invoca esplicitamente anche il vizio di
cui al n. 5 dell’art. 360, co. 1, c.p.c., in
una ipotesi chiaramente preclusa, atteso che quest’ultima disposizione, per i
giudizi di appello instaurati dopo il trentesimo giorno successivo alla entrata
in vigore della legge 7 agosto 2012 n. 134 (pubblicata
sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, non può essere
denunciata, rispetto ad un appello promosso nella specie nel luglio 2014 dopo
la data sopra indicata (art. 54,
comma 2, del richiamato d.l. n. 83/2012), con ricorso per cassazione
avverso la sentenza della Corte di Appello che conferma la decisione di primo
grado, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici
di primo e di secondo grado (art. 348 ter, ultimo
comma, c.p.c., in base al quale il vizio di cui all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., non è deducibile in
caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme; v. Cass. n. 23021 del 2014); in questi casi il
ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. – deve chiaramente
specificare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione
di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse
sono tra loro diverse (cfr. Cass. n. 26774 del 2016, conf. Cass. n. 20944 del
2019), specificazione affatto contenuta nel motivo in esame;

infine, quanto alla eccepita “motivazione
apparente” è appena il caso di rammentare che le Sezioni unite di questa
Corte hanno ritenuto che l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di
legge costituzionalmente rilevante, integra un error in procedendo che comporta
la nullità della sentenza solo nel caso di “mancanza assoluta di motivi
sotto l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione
apparente”, di “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”,
di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014); si è
ulteriormente precisato che di “motivazione apparente” o di
“motivazione perplessa e incomprensibile” può parlarsi laddove essa
non renda “percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di
argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito
per la formazione del convincimento, di talché essa non consenta alcun effettivo
controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice”
(Cass. SS.UU. n. 22232 del 2016); il che non ricorre nella specie in quanto è
certamente percepibile il percorso motivazionale seguito dalla Corte
territoriale per respingere il terzo motivo di gravame (v. pagg. 5 e 6 della
sentenza impugnata), mentre altro è se il ragionamento espresso sia conforme o
meno al diritto ed altro ancora se esso corrisponda o meno al convincimento
soggettivo della parte appellante;

2. con il secondo motivo si denuncia
“violazione dell’art. 345 c.p.c. in
relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.”,
criticando quella parte della sentenza impugnata che, in accoglimento di una
eccezione sollevata dalla parte appellata di inammissibilità per novità dei
fatti dedotti dalla M. solo in grado d’appello, ha ritenuto che il ricorso ex art. 414 c.p.c. non contenesse “la minima
descrizione delle mansioni svolte come Responsabile dell’amministrazione del
personale e l’assunto dal quale muove la richiesta di risarcimento del danno
azionata dalla Sig.ra M. parte dal rilievo che le mansioni di Responsabile
della normativa e degli enti sarebbero state prive di contenuto; ne discende
che non può tenersi conto delle nuove allegazioni nella decisione della
presente controversia”; si sostiene che la Corte bolognese si sarebbe
sottratta dal pronunciarsi “sulle plurime censure dalla (M.) avanzate per
la vicenda sostanziale ed esistenziale dedotta in giudizio per il tema del
demansionamento”; all’uopo si riportano estesamente passaggi dell’atto di
appello, assumendo che “parte attrice non ha introdotto una nuova
eccezione al giudizio” e che, “in ogni caso, indipendentemente o meno
di uno ius novorum, resta il fatto che la Corte di Appello di Bologna non era
ostacolata nel suo compito di pronunciarsi su tutte le censure poste
dall’appellante in ragione del primo motivo del gravame e, soprattutto, al di
là di argomentazioni speculative sul tema del demansionamento, ben avrebbe
potuto rilevare l’oggettività di due fatti incontestabili”;

il motivo non merita accoglimento perché non si
confronta adeguatamente con il decisum, atteso che la Corte territoriale,
esaminando il ricorso introduttivo del giudizio, ha ritenuto che non contenesse
“la minima descrizione delle mansioni svolte come Responsabile
dell’amministrazione del personale” e che non potesse, quindi,
“tenersi conto delle nuove allegazioni nella decisione della presente
controversia”; chi ricorre non censura adeguatamente tale assunto, come
avrebbe dovuto fare riportando, nel corpo del motivo in scrutinio, i contenuti
testuali del ricorso ex art. 414 c.p.c. e
confrontandoli con quelli dell’atto di appello, al fine di dimostrare
l’eventuale errore commesso dalla Corte territoriale, ma piuttosto ancora si
duole che la stessa non abbia replicato alle doglianze esposte con
l’impugnazione, sostenendo che comunque la Corte avrebbe dovuto decidere su
“fatti incontestabili”, senza misurarsi con la statuizione di natura
processuale adottata nella sentenza impugnata e scivolando chiaramente nel
merito della vicenda fattuale come è conclamato dal riferimento a fatti
ritenuti “incontestabili”;

3. con il terzo motivo si denuncia: “Violazione
degli articoli 3, 24
co. 1, 111 co. 1, 2
e 6 Costituzione e della CEDU, art. 6, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 e n. 4 c.p.c.”, per
avere la Corte bolognese rigettato il secondo ed il quarto motivo di appello;
si sostiene che “la Corte di Appello di Bologna, come già il giudice di
prime cure, è ricorsa a delle formule di rito per rigettare parte delle istanze
della lavoratrice, senza, però, dare conto di quale sia stato l’iter logico
giuridico seguito e quale sia stata la conseguente motivazione (immune da vizi
logici e giuridici) per la quale anch’essa, come pure il giudice di prime cure,
ha trascurato le prove documentali e testimoniali di parte attrice”;

anche tale motivo è inammissibile, perché non
specifica adeguatamente in qual modo i plurimi parametri costituzionali e
convenzionali sarebbero stati direttamente violati dalla sentenza impugnata;

il rispetto del principio di specificità dei motivi
del ricorso per cassazione – da intendere alla luce del canone generale
“della strumentalità delle forme processuali” – comporta, fra
l’altro, l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative
delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come
abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito (Cass. n.
23675 del 2013), in quanto è solo la esposizione delle ragioni di diritto della
impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il
contenuto della censura (Cass. n. 25044 del 2013; Cass.
n. 17739 del 2011; Cass. n. 7891 del 2007; Cass. n. 7882 del 2006; Cass. n.
3941 del 2002); l’osservanza del canone della chiarezza e della sinteticità
espositiva rappresenta l’adempimento di un preciso dovere processuale il cui
mancato rispetto, da parte del ricorrente per cassazione, lo espone al rischio
di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione (Cass. n. 19100 del
2006) ed è dunque inammissibile un ricorso che non consenta – come nella specie
– di individuare in che modo e come le numerose norme invocate sarebbero state
violate nella sentenza impugnata, quali sarebbero i principi di diritto
asseritamente trasgrediti nonché i punti della motivazione specificamente
viziati (Cass. n. 17178 del 2014 e giurisprudenza ivi richiamata);

in realtà il motivo sembra adombrare un vizio
radicale della motivazione della sentenza impugnata per aver “trascurato
le prove documentali e testimoniali di parte attrice”, ma ancora di
recente le Sezioni unite hanno ribadito l’inammissibilità di censure che
“sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione
di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto
decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a
questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata
l’azione”, così travalicando “dal modello legale di denuncia di un
vizio riconducibile all’art. 360 cod. proc. civ.,
perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli
accadimenti” (cfr. Cass. SS.UU. n. 33476 del 2019 e n. 33373 del 2019);

4. il quarto motivo denuncia: “violazione e
falsa applicazione art. 111, co. 2, Costituzione,
art. 115, 116, 246 c.p.c; art. 118
disp. att. c.p.c. e art. 2697, art. 2721 in combinato disposto con gli artt. 2697, 2724, 2725 c.c,, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.”;

anche tali censure non possono trovare accoglimento;

circa le denunce rivolte alla Corte di non aver
motivato il rigetto delle prove prodotte a sostegno dell’asserito mobbing e di
aver “pretermesso l’omissione dell’assolvimento dell’onere della prova da
parte delle convenute in ordine al rispetto dei limiti interni” per la
collocazione in cassa integrazione, si tratta di censure che riguardano il
merito, considerando sia l’improprio riferimento- alla violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.,
atteso che, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero
convincimento, posto a fondamento di tali norme del codice di rito, opera
interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di
legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte
del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa
applicazione di norme, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato
attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque
nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5,
c.p.c., di nuovo conio (tra le altre v. Cass. n. 23940 del 2017), sia
l’errata invocazione dell’art. 2697 c.c., che è
censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360,
co. 1, n. 3 c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia
attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse
onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla
differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di
censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte
dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella
specie parte ricorrente critica nella sostanza l’apprezzamento operato dai
giudici del merito, opponendo una diversa valutazione;

quanto al rilievo che sarebbe stata ammessa la
testimonianza del dott. M., ancorché fosse un teste “incapace” per
essere interessato alla controversia, è appena il caso di rammentare che
“qualora, in sede di ricorso per cassazione, venga dedotta l’omessa
motivazione del giudice d’appello – sull’eccezione di nullità della prova
testimoniale (nella specie, per incapacità ex art.
246 c.p.c.), il ricorrente ha l’onere, anche in virtù dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., di indicare che
detta eccezione è stata sollevata tempestivamente ai sensi dell’art. 157, comma 2, c.p.c. subito dopo l’assunzione
della prova e, se disattesa, riproposta in sede di precisazione delle
conclusioni ed in appello ex art. 346 c.p.c.,
dovendo, in mancanza , ritenersi irrituale la relativa eccezione e pertanto
sanata la nullità, avendo la stessa carattere relativo” (tra molte: Cass.
n. 23896 del 2016), mentre nel ricorso, a pagina 9, l’istante si limita a
dedurre di aver eccepito “l’inammissibilità” ma non allega di averla
reiterata ma, soprattutto, la riferisce alla diversa ipotesi che “il dott.
M. non avrebbe potuto rendere testimonianza diretta”;

infine, in ordine alle censure che riguardano i
contenuti della testimonianza del M., anche in riferimento ai documenti
depositati, si tratta di apprezzamenti in ordine alla valutazione del materiale
probatorio certamente di competenza del giudice del merito e non sindacabili in
questa sede di legittimità;

5. conclusivamente il ricorso deve essere respinto,
con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo in favore di
ciascuna delle parti controricorrenti;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228
del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1-bis dello stesso art. 13
(cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento delle spese liquidate in euro 3.000,00, oltre euro 200,00 per
esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%, in favore di ciascuna
delle parti controricorrenti.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della 4 sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 marzo 2021, n. 5539
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