Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 marzo 2021, n. 6085

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Fittizietà
della motivazione, Natura ritorsiva, Urgente necessità di ridurre i costi e
di procedere ad una riorganizzazione dell’assetto  aziendale, Non necessaria la soppressione di
tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore, Esigenza di
riduzione di personale omogeneo e fungibile, Scelta del dipendente da
licenziare, non totalmente libera ma limitata dal divieto di atti discriminatori
e dalle regole di correttezza

 

Fatti di causa

 

1. M.Z. impugnò il licenziamento intimatogli dalla
F. s.r.l. per giustificato motivo oggettivo eccependo la fittizietà della
motivazione postane a fondamento e denunciandone la natura ritorsiva.

1.2. Il Tribunale, all’esito della fase sommaria,
ritenne che il recesso avesse carattere ritorsivo, mentre all’esito
dell’opposizione ne venne accertata l’illegittimità e, dichiarato risolto il
rapporto, la società fu condannata al pagamento di un’ indennità risarcitoria,
ai sensi dell’art. 18 comma 5
della legge n. 300 del 1970 e ss.mm., quantificata in diciotto mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita.

2. La Corte di appello di Roma, investita del
reclamo principale da parte della società e di quello incidentale del
lavoratore, ha accolto il primo e, respinto il reclamo incidentale, in riforma
della sentenza impugnata, ha rigettato la domanda originariamente proposta.

2.1. Il giudice del gravame ha riepilogato le
vicende che avevano visto coinvolta la società la quale nel maggio 2014, per
effetto di disposizioni regionali che avevano determinato la soppressione
dell’Unità Organizzativa di Medicina, aveva avviato una procedura di mobilità
per 48 lavoratori non medici cui erano seguite, nel corso del 2015, due
ulteriori procedure indirizzate al personale medico. All’esito della prima,
successivamente al nuovo accreditamento della struttura da parte della Regione
Lazio nel mese di giugno 2015, le parti avevano raggiunto un accordo con una
rimodulazione dell’orario. Con la seconda procedura, nel dicembre 2015, si era
pervenuti alla risoluzione del rapporto col dott. Z. poiché era stata
ulteriormente ridotta l’attività dell’Unità di medicina generale; era stato
soppresso il posto da lui ricoperto e non era stata ravvisata alcuna
possibilità di ricollocarlo diversamente.

 2.2. La Corte
di appello ha ritenuto infatti che era risultato dimostrato il progressivo
deterioramento della situazione economica della società nell’ambito del quale
si era inserita la rimodulazione della convenzione da parte della Regione
Lazio, con una drastica riduzione del budget che aveva portato alla
soppressione di posti letto nel reparto di assegnazione del dott. Z. ed alle
riduzioni di personale, medico e non, assegnato alle stesse. A compromettere la
situazione economica della società era poi sopravvenuta la richiesta della
Regione di pagamento delle somme oggetto della sentenza della Corte dei Conti
n. 13 del 2013 per un importo di € 7.612.037,18.

2.3. In relazione a tale ultima circostanza la Corte
di appello ha ritenuto che il dott. Z. non avesse ritualmente contestato, in
modo chiaro e circostanziato come prescritto dall’art.
2719 cod. civ., la conformità all’originale della documentazione versata in
copia dalla società che risultava, peraltro, confermata dalla qualifica dei
firmatari, dalla data apposta oltre che dal carteggio successivamente
intervenuto tra la F. s.r.l. e la Regione Lazio, del pari depositato in atti,
dal quale si evinceva che solo nel novembre del 2015 la Regione aveva messo in
esecuzione la sentenza, aveva bloccato le fatturazioni in favore della società
e si era così determinata l’urgente necessità di ridurre i costi e procedere ad
una riorganizzazione dell’assetto 
aziendale.

2.4. Con la sentenza impugnata, poi, è stato escluso
che la società nell’individuare i soggetti da licenziare fosse tenuta ad
applicare in via analogica i criteri fissati dall’art. 5 della legge n. 223 del 1991
per i licenziamenti collettivi estendendo l’ambito di valutazione anche al
personale non medico. Inoltre è stata ritenuta insindacabile, perché
ragionevole e rispondente a criteri di correttezza e buona fede, la scelta di
trattenere in servizio tra i medici solo un chirurgo ed un’anestesista, addetti
anche al blocco operatorio, preferiti rispetto al dott. Z. che non era
specializzato e perciò non poteva operare in sala.

2.5. Quanto all’obbligo di repechage il giudice del
reclamo, diversamente da quello di primo grado, ha ritenuto che l’assunzione a
distanza di tre mesi dal licenziamento e con contratto a termine di un
assistente sanitario, qualifica inferiore rispetto a quella rivestita dal dott.
Z., non fosse rilevante per accertare la concreta possibilità di reimpiego del
lavoratore. Da un canto il modello contrattuale era differente (contratto a
termine in luogo del contratto a tempo indeterminato e richiama Cass. 21715 del 2018); dall’altro il profilo di
assunzione (assistente socio sanitario livello B2, personale non medico di
supporto all’infermiere) era del tutto diverso da quello del medico, di cui non
costituisce una “mansione inferiore” valutabile, in ipotesi, anche in
relazione al nuovo testo dell’art. 2113 cod. civ.
e, se ritenuto applicabile, anche al repechage.

2.6. Da ultimo la Corte di merito ha escluso che la
società fosse tenuta a considerare la possibilità di ricollocarlo presso la M.
s.r.l. evidenziando che non vi era alcuna prova di un rapporto di codatorialità
e che comunque non era stata neppure allegata, dal lavoratore che ne era
onerato, l’esistenza di un medesimo centro d’imputazione.

3. Per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso il dott. M.Z. affidato a dieci motivi ai quali resiste con
controricorso la F. s.r.I.. Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa ai
sensi dell’art. 378 cod. proc.civ..

 

Ragioni della decisione

 

4. E’ infondato il primo motivo di ricorso con il
quale è denunciata la nullità parziale della sentenza, per violazione dell’art. 112 cod.proc.civ. in relazione all’art. 360 primo comma n. 4 cod.proc.civ., poiché il
capo della decisione riformato – avente ad oggetto la mancata prova del
repechage – non era stato oggetto di specifica impugnazione e dunque era
coperto da giudicato.

4.1. Come risulta dalla lettura del motivo di
appello riportato nel ricorso la società ha complessivamente investito la
decisione che aveva ritenuto che non fosse stato assolto l’obbligo di provare
il repechage e lo ha fatto sotto un duplice profilo: a) ha ritenuto che la
società avesse provato che non vi erano altri posti a cui adibire il
ricorrente; b) ha evidenziato che il posto resosi disponibile quattro mesi dopo
non poteva essere assegnato al lavoratore poiché non costituiva una mansione
riconducibile a quella di medico ma atteneva ad una professionalità diversa
oltre che inferiore.

4.2. Sulla base di queste premesse, senza incorrere
nel vizio di ultrapetizione denunciato, la Corte ha effettuato la sua indagine
ed è pervenuta al convincimento che non era stato violato l’obbligo di repechage.
Peraltro in tema di appello, la mancata 
impugnazione di una o più affermazioni contenute nella sentenza può dar
luogo alla formazione del giudicato interno soltanto se le stesse siano
configurabili come capi completamente autonomi, avendo risolto questioni
controverse che, in quanto dotate di propria individualità ed autonomia,
integrino una decisione del tutto indipendente. Non sono idonee a passare in
giudicato, per contro le argomentazioni ovvero la valutazione di presupposti
necessari di fatto che, unitamente ad altri, concorrano a formare un capo unico
della decisione (cfr. Cass. 18/09/2017 n. 21566 e anche Cass n. 4732 del 2012 e
n. 24358 del 2018)

5. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la
violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966
con riguardo all’accertata sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di
licenziamento.

5.1. Osserva il ricorrente che il licenziamento per
giustificato motivo oggettivo costituisce l’estrema ratio a fronte di una
situazione produttivo organizzativa che nella sua oggettività non consente
l’ulteriore impiego del lavoratore. Si deve trattare di una situazione avente
carattere non contingente e tale da imporre una effettiva riduzione dei costi
del personale eo esigere una riorganizzazione aziendale. Deduce che la Corte
territoriale non avrebbe verificato in concreto l’effettività delle motivazioni
addotte e della riorganizzazione operata, la loro esistenza al momento del
recesso, il nesso di causalità e la riferibilità del motivo economico alla
posizione lavorativa del ricorrente.

In particolare il Collegio non avrebbe verificato se
nel dicembre 2015 vi era stato un aggravamento della situazione ed anzi ha
erroneamente ritenuto che tale verifica non fosse necessaria. In tal modo il
giudice di appello avrebbe trascurato di accertare l’effettività del motivo
posto a base del recesso.

6. Con il terzo motivo di ricorso, poi, ci si duole
dell’omesso esame del fatto decisivo che, successivamente al licenziamento,
erano state effettuate nuove assunzioni ed inoltre che, con la prima procedura,
si era addivenuti ad un accordo per la rimodulazione dell’orario da full time a
part time.

7. Le due censure, da trattare congiuntamente poiché
investono l’accertamento dell’esistenza della causa di risoluzione del
rapporto, non possono trovare accoglimento.

7.1. Va qui rammentato che ai fini del licenziamento
individuale per giustificato motivo oggettivo, l’art. 3 della I. n. 604 del 1966
richiede: a) la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto
cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di
tutte le mansioni in precedenza attribuite allo stesso; b) la riferibilità
della soppressione a progetti o scelte datoriali – insindacabili dal giudice
quanto ai profili di congruità e opportunità, purché effettivi e non simulati –
diretti ad incidere sulla struttura e sull’organizzazione dell’impresa, ovvero
sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una migliore
efficienza ovvero ad incremento di redditività; c) l’impossibilità di reimpiego
del lavoratore in mansioni diverse, elemento che, inespresso a livello
normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che
nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta
datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla
persona del lavoratore (Cass. n. 24882 del 2017).
Evidentemente l’onere di provare la sussistenza di questi presupposti è a
carico del datore di lavoro ma questi può assolverlo anche mediante ricorso a
presunzioni. Resta evidentemente escluso che sul lavoratore incomba un onere di
allegazione dei posti assegnabili.

7.2. Nel caso in esame il giudice di appello ha
applicato correttamente i principi dettati dalla giurisprudenza di questa Corte
in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ed ha individuato
nella crisi economica in cui versava la società l’esigenza di procedere ad una
riorganizzazione realizzata attraverso la soppressione del posto di lavoro
dell’odierno ricorrente, unico medico rimasto privo di specializzazione al
quale era precluso l’esercizio di attività operatoria in sala oramai sola
rimasta attiva per effetto della modifica della convenzione con la Regione. Nel
verificare l’effettività e l’aderenza delle misure adottate all’esigenza
organizzativa perseguita il giudice di appello ha tenuto conto delle
caratteristiche della nuova assunzione intervenuta (che ha accertato essere
riferibile ad un profilo sanitario ma non medico). Ha tenuto del pari conto
delle ragioni per le quali era emerso che la rimodulazione dell’orario oggetto
del primo accordo, a distanza di qualche mese dall’adozione di tale
accorgimento, era divenuta insufficiente.

In particolare la sentenza ha verificato che
effettivamente per effetto di fatti sopravvenuti il rimedio adottato era
divenuto inidoneo e si era reso necessario procedere ad un’ulteriore riduzione
del personale.

7.3. Si tratta all’evidenza di una ricostruzione
fattuale che è riservata al giudice del merito e può essere censurata davanti a
questa Corte solo nei limiti ristretti del vizio di motivazione, nella specie
non ravvisabili poiché i fatti di cui è denunciato l’omesso esame sono stati,
al contrario, tutti presi in esame dalla Corte di appello.

8. Analoghe considerazioni vanno svolte con riguardo
alle censure oggetto del quarto e del quinto motivo di ricorso.

8.1. Non v’è dubbio che, ai sensi dell’art. 3 della I. n. 604 del 1966,
se il motivo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo consiste nella
generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, la scelta del
dipendente (o dei dipendenti) da licenziare per il datore di lavoro non è
totalmente libera ma comunque limitata, oltre che dal divieto di atti
discriminatori, dalle regole di correttezza ex artt.
1175 e 1375 c.c., potendo farsi
riferimento, a tal fine, ai criteri di cui all’art. 5 della I. n. 223 del 1991,
quali standard particolarmente idonei a consentire al datore di lavoro di
esercitare il suo potere selettivo coerentemente con gli interessi del
lavoratore e con quello aziendale (cfr. Cass. 07/08/2020 n. 16856).

8.2. Rileva tuttavia il Collegio che ove, come nel
caso in esame, sia accertato in fatto che l’ambito in cui eseguire la riduzione
era stato ragionevolmente individuato tra le professionalità omogenee dei
medici, si deve ribadire che quella scelta appartiene al datore di lavoro cui
compete in via esclusiva l’individuazione delle modalità organizzative
dell’attività. E’ ben vero che l’art. 5 comma 1 invocato prescrive che
“l’individuazione dei lavoratori da collocare in modalità deve avvenire in
relazione alle esigenze tecnico-produttive, ed organizzative del complesso
aziendale, nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi stipulati
con i sindacati di cui all’articolo 4, comma 2, ovvero in mancanza di questi
contratti nel rispetto dei seguenti criteri in concorso tra loro: a) carichi di
famiglia; b) anzianità; c) esigenze tecnico produttive ed organizzative” e
tuttavia la scelta organizzativa appartiene in via esclusiva al datore di
lavoro e non può essere censurata dal giudice che ne deve prendere atto con
l’unico limite della sua assoluta irragionevolezza.

8.3. Nel caso in esame, pertanto, correttamente la
Corte ha accertato che l’organizzazione ridisegnata aveva reso necessaria la
permanenza del personale medico che poteva andare in sala operatoria
(anestesista e chirurgo) e che la possibilità di un  confronto tra posizioni analoghe dei medici
non specializzati residuati era venuta meno per effetto di cessazioni
volontarie dal servizio. Ancora una volta si tratta di censura che radica la
sua ragione d’essere nell’opinabilità, non criticabile, della scelta
imprenditoriale.

9. Non è ravvisabile poi la denunciata violazione e
falsa applicazione dell’art. 2719 cod.civ. per
avere la Corte disatteso il disconoscimento della documentazione prodotta in
copia e relativa alla richiesta di pagamento effettuata dalla Corte dei Conti.

9.1. Il disconoscimento delle copie fotostatiche di
scritture prodotte in giudizio, ai sensi dell’art.
2719 cod.civ., impone che, pur senza vincoli di forma, la contestazione
della conformità delle stesse all’originale venga compiuta, a pena di
inefficacia, mediante una dichiarazione che evidenzi in modo chiaro ed univoco
sia il documento che si intende contestare, sia gli aspetti differenziali di
quello prodotto rispetto all’originale. Non è invece sufficiente il ricorso a
clausole di stile o a generiche asserzioni (cfr. Cass. 30/10/2018 n. 27633 e
successivamente anche Cass. n. 16557 del 2019).

9.2. Correttamente allora la Corte ha accertato che
la contestazione formulata era del tutto generica senza inoltre sottrarsi ad
una verifica, sulla base di una serie di indici presuntivi, della riferibilità
alla Regione del documento. Ancora una volta la sentenza si sottrae alla
critica che le viene mossa.

10. Con riguardo poi alla denunciata violazione e
falsa applicazione dell’art. 3
della legge n. 604 del 1966 e dell’ art. 7 del c.c.n.l. del personale delle
case di cura e IRCCS in relazione all’inadempimento dell’obbligo di repechage
si osserva che nel valutare le possibilità di ricollocazione del lavoratore il
datore di lavoro, pur nella vigenza 2103 cod.civ.
come modificato dalla legge n. 81 del 2015,
non può certo giungere al punto di considerare come posizione utile ai fini del
repechage quella che in nessun modo è riferibile alla professionalità
posseduta. La Corte territoriale ha accertato in fatto che le mansioni oggetto
del contratto stipulato dalla società successivamente al licenziamento
dell’odierno ricorrente oltre a non essere in paragonabile a quello che legava
il dott. Z. alla F. s.r.l. (contratto a termine il primo e a tempo
indeterminato il secondo) non era riferibile alla medesima categoria
professionale. La sentenza, analizzate le mansioni e le declaratorie
contrattuali ha posto in rilievo l’estraneità dei compiti affidati
all’assistente sanitario (funzione di supporto all’infermiere) con quelle
medico, per quando non specializzato. Si tratta in sostanza di figure che non
appartengono alla medesima categoria legale e dunque non sono suscettibili di
essere prese in esame laddove per effetto di una modifica degli assetti
organizzativi aziendali che incida sulla posizione del lavoratore questo non
possa, ai fini della salvaguardia della sua posizione lavorativa, che essere
assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore.

11. Quanto alla esistenza di un gruppo societario ed
alla sua rilevanza ai fini della ricollocazione del lavoratore da licenziare,
oggetto dell’ottavo motivo di appello con il quale è denunciata ancora una
volta la violazione e falsa applicazione art. 3 legge n. 604 del 1966,
va rilevato che correttamente il giudice di appello ha ritenuto non
percorribile la stata di un ricollocamento presso l’altra società sul rilievo
che non era stata neppure allegata l’esistenza di un centro di imputazione di
interessi unico che dimostrasse un collegamento societario. La sentenza precisa
che a tal fine avrebbe potuto avere rilievo l’ accertamento dell’esistenza di
una situazione di codatorialità che, tuttavia, nella specie non era stata
neppure allegata. Tale specifica affermazione della Corte territoriale non è
stato specificatamente censurato con la conseguenza che la questione non può
essere in questa sede esaminata.

12. Con il nono motivo di ricorso in relazione all’art. 360 primo comma n. 4 cod. proc.civ. è
denunciata la violazione dell’art. 112 cod.
proc.civ. per avere la Corte omesso di pronunciare sulla domanda di
accertamento della natura ritorsiva e/o discriminatoria del licenziamento.

12.1. Al riguardo si osserva che, sebbene
effettivamente la sentenza nulla dica al riguardo, tuttavia occorre ricordare
che quando la motivazione della sentenza accolga una tesi incompatibile con
quella prospettata, implicandone il rigetto, e fornisce una spiegazione logica
ed adeguata della decisione adottata, evidenziando le prove ritenute  idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la
carenza di esse, non è necessaria una analitica confutazione delle tesi non
accolte o la particolare disamina degli elementi di giudizio non ritenuti
significativi (cfr. Cass. 30/01/2020 n. 2153 e 02/04/
2020 n. 7662).

12.2. Orbene, nel caso in esame, la Corte di merito
ha escluso l’illegittimità del licenziamento sotto tutti gli aspetti. Ha
ritenuto sussistente sia la crisi che la riorganizzazione; ha accertato la
soppressione del posto di lavoro, ha verificato che non vi erano altri
lavoratori che svolgessero le stesse mansioni ed avessero le stesse
caratteristiche del dott. Z. ed infine ha escluso che sussistesse qualsivoglia
posizione per ricollocarlo altrimenti.

12.3. Così facendo, pur non rispondendo
esplicitamente alla censura formulata col ricorso incidentale relativamente ad
un’omessa pronuncia della sentenza di primo grado sul carattere ritorsivo del
licenziamento, che peraltro è onere del lavoratore dimostrare nei suoi tratti
caratteristici (cfr. Cass. 07/11/2018 n. 28453), ne ha logicamente escluso la
fondatezza.

13. L’ultimo motivo di ricorso ha ad oggetto il capo
della decisione con il quale la Corte, accogliendo il reclamo principale della
società e rigettando quello incidentale del lavoratore, ha condannato
quest’ultimo al pagamento delle spese del giudizio.

13.1. Va qui ribadito che il giudice di appello,
allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere
d’ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo
regolamento delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito
tenendo presente l’esito complessivo della lite. La valutazione della
soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un
criterio unitario e globale. Correttamente perciò la Corte le ha poste a carico
della parte che è risultata soccombente sulla domanda avanzata. Peraltro va
rammentato che ai fini della compensazione trova applicazione nella specie l’art. 92 cod.proc.civ., come risultante dalle
modifiche introdotte dal d.l. n. 132 del 2014
e dalla sentenza n. 77 del 2018 della Corte
costituzionale, e dunque questa può essere disposta (oltre che nel caso della
soccombenza reciproca nella specie insussistente), soltanto nell’eventualità,
neppure prospettata, di assoluta novità della questione trattata o di mutamento
della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti o nelle ipotesi di
sopravvenienze relative a tali questioni e di assoluta incertezza che
presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità delle situazioni
tipiche espressamente previste dall’art. 92, comma
2, cod.proc.civ. (cfr. recentemente Cass. 18/02/2020 n. 3977).

14. In conclusione, per le ragioni esposte, il
ricorso deve essere rigettato e le spese, liquidate in dispositivo, vanno poste
a carico del soccombente. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato
d.P.R., se dovuto.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità liquidate in € 6000,00 per compensi professionali, €
200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per
legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato
d.P.R., se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 marzo 2021, n. 6085
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