Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 marzo 2021, n. 6086

Licenziamento collettivo, Applicabilità al Consorzio della
disciplina della L. 223/1991, Violazione delle
quote di personale femminile da salvaguardare ai sensi dell’art. 5, co. 2, L. 223/1991

Fatti di causa

 

1. La Corte d’Appello di Catanzaro, riformando la
sentenza del Tribunale della stessa città, ha respinto l’impugnativa del
licenziamento collettivo proposta da A.M.G. nei confronti del Consorzio di
Bonifica I.C.

La Corte riteneva che la questione
sull’applicabilità al Consorzio della disciplina della L. 223/1991 fosse da aversi per definitivamente
acclarata, in forza del giudicato interno conseguente alla mancata proposizione
di appello incidentale avverso la sentenza di primo grado che aveva
espressamente disatteso la diversa prospettazione sostenuta dalla ricorrente.

Essa riteneva poi infondato l’assunto della Greco, su
cui si era fondato l’accoglimento pronunciato dal Tribunale, in ordine alla
violazione delle quote di personale femminile da salvaguardare ai sensi dell’art. 5, co. 2 L. 223/1991, in
quanto, secondo i giudici del gravame, la percentuale andava calcolata
escludendo dal computo i lavoratori che si occupavano di attività tecniche, non
fungibili con quelle di tipo impiegatizio-amministrativo svolte dalla G. e la
cui considerazione non comportava il superamento delle percentuali di
salvaguardia. La sentenza impugnata riteneva poi che la comunicazione iniziale
inviata dal Consorzio fosse idonea all’adeguata informativa sindacale e
riteneva altresì coerente che, per la scelta del personale da licenziare, si fosse
fatto leva, quanto alle esigenze tecnico-organizzative, sulle mansioni
attualmente svolte da ciascun dipendente, attribuendo in base ad esse i
punteggi per la valutazione comparativa.

2. A.M.G. ha proposto ricorso per cassazione con tre
motivi, poi illustrati da memoria, cui ha opposto difese il Consorzio con
controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Il primo motivo afferma la nullità della sentenza
(art. 360 n. 4 c.p.c.) per irrituale
modificazione del collegio giudicante, in violazione degli artt. 276, 420 e 437 c.p.c.

La ricorrente precisa che la causa fu chiamata per
discussione in appello per il 21.2.2019 e che in quella sede il collegio decise
il rinvio ad altra data, concedendo termine per deposito di note per
chiarimenti.

Alla successiva udienza del 28.3.2019, a comporre il
collegio per la prosecuzione della discussione, venne chiamato il medesimo
giudice relatore, ma mutarono sia il Presidente, sia il terzo componente e da
ciò, secondo la G., sarebbe derivata l’invalidità della sentenza, Il motivo è
infondato,

Costituisce infatti regola consolidata e risalente
quella per cui «il principio dell’immodificabilità del collegio giudicante
trova applicazione, anche nel rito del lavoro, dal momento in cui la
discussione della causa abbia avuto effettivamente inizio e si sia svolta per
intero; pertanto non è configurabile nullità della sentenza nel caso di
mutamento di composizione del collegio né dopo l’assunzione delle prove, né
dopo udienze di mero rinvio ancorché formalmente destinate alla discussione»
(v. già Cass. 2 novembre 1998, n. 10947; successivamente, tra le molte: Cass. 7 luglio 2004, n. 12514 e, di recente, Cass.
19 gennaio 2019, n. 1271).

Come spiega Cass. 15 settembre 2016, n. 18126 «il
principio di immodificabilità del collegio della Corte d’Appello giudicante»,
la cui violazione comporta la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 158 c.p.c., trova attuazione, nel rito del
lavoro, solo dal momento dell’inizio della discussione e «va valutato solo in
rapporto alla decisione che segue la discussione stessa (Cass. 5 marzo 2003, n.
3258)», nel senso che non può essere diverso il collegio che abbia assistito
alla discussione finale e quello che emetta il dispositivo di sentenza
all’esito della consequenziale camera di consiglio.

Nel caso di specie le diverse composizioni
collegiali hanno riguardato due diverse udienze e dunque il vizio non si è
determinato.

2. Il secondo motivo è rubricato come omessa
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.) e con esso si sostiene che
sarebbe da ritenere erronea l’affermazione della Corte territoriale in ordine
alla sussistenza di giudicato interno sull’applicabilità al caso di specie
della disciplina del licenziamento collettivo di cui alla L. 223/1991.

Così ritenendo, afferma la Greco, la Corte
distrettuale aveva omesso di pronunciarsi sulla natura giuridica del Consorzio
di Bonifica Ionio Catanzarese, da cui dipendeva l’applicabilità o meno della L. 223/1991.

2.1 II motivo va disatteso.

2.2 La sentenza di appello ha ritenuto che, sul
punto, si fosse formato giudicato interno, in forza del principio sancito da
Cass., S.U., 12 maggio 2017, n. 11799, secondo cui «in tema di impugnazioni,
qualora un’eccezione di merito sia stata respinta in primo grado, in modo
espresso o attraverso un’enunciazione indiretta che ne sottenda, chiaramente ed
inequivocamente, la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice
d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso
quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione del gravame
incidentale, non essendone, altrimenti, possibile il rilievo officioso ex art. 345, comma 2, c.p.c. (per il giudicato
interno formatosi ai sensi dell’art. 329, comma 2,
c.p.c.), né sufficiente la mera riproposizione, utilizzabile, invece, e da
effettuarsi in modo espresso, ove quella eccezione non sia stata oggetto di
alcun esame, diretto o indiretto, ad opera del giudice di prime cure».

L’affermazione della Corte territoriale non può però
essere condivisa, in quanto la questione sottesa al motivo non attiene ad
un’eccezione, ovverosia ad un fatto impeditivo, modificativo o estintivo, come
è nei casi di cui a Cass. 11799/2017 e successive conformi, in cui si è appunto
definito il regime del giudicato interno rispetto alle eccezioni di merito.

Non vi è luogo di richiamare il regime del giudicato
interno quando esso riguardi i fatti costitutivi, notoriamente consolidato nel
principio per cui «ai fini della selezione delle questioni, di fatto o di
diritto, suscettibili di devoluzione e, quindi, di giudicato interno se non
censurate in appello, la locuzione giurisprudenziale “minima unità
suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la
sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico,
ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una
norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico», sicché «sebbene
ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di
appello, nondimeno l’impugnazione motivata anche in ordine ad uno solo di essi
riapre la cognizione sull’intera statuizione>> (Cass. 4 febbraio 2016, n. 2217).

Ciò perché qui il precedente non attiene ai fatti
costitutivi della situazione giuridica rivendicata, quanto invece alla legge
applicabile, profilo che, come tale, non è suscettibile di formare oggetto di
giudicato, perché il giudicato riguarda l’esistenza o meno dei diritti o più in
generale delle situazioni giuridiche e dei rapporti, ma non il regime di
diritto che regola la fattispecie, il quale resta soggetto al principio iura
novit curia e non ammette preclusioni.

È del resto palese che nessun giudicato potrebbe
portare ad escludere l’applicazione, ove la questione emerga nel corso del
processo di una disciplina sui licenziamenti che fosse estranea al rapporto
regolare.

2.3 Ciò posto, si rileva tuttavia che la decisione
processuale della Corte territoriale, nella sostanza, finisce per non dirimere,
sulla scorta di un presunto, ma inesistente, giudicato interno, la questione
sulla natura dei Consorzi e del conseguente regime applicabile ai licenziamenti
collettivi da essi posti in essere.

Va dunque applicato il principio, di accelerazione
processuale, secondo cui in tutti i casi in cui il motivo censuri un’omissione
lato sensu di pronuncia, che invece doveva esservi, il motivo stesso non va
necessariamente accolto, in sede di giudizio di cassazione, se in punto di
diritto risulti infondato (v., in caso di omesso esame di un motivo di appello,
Cass. 1 febbraio 2010, n. 2313; in caso di motivazione apparente, Cass. 1 marzo 2019, n. 6145, in caso di mancanza
di motivazione in diritto, Cass. SU., 2 febbraio 2017, n. 2731 e, in caso di
infondatezza di diritto nel merito, quando la domanda non fosse stata esaminata
in appello in erroneo accoglimento di una questione preliminare di merito:
Cass. 18 gennaio 2019, n. 29880).

2.4 In effetti, è pacifico, nella giurisprudenza di
questa Corte, che i consorzi di bonifica sono enti pubblici economici (Cass. 15 ottobre 2019, n. 26038; Cass. 5 dicembre
2017, n. 29061; Cass. 17 luglio 2012, n. 12242 ed anche Cass., S.U., 20 gennaio
2017, n. 1548) che operano in regime di diritto privato (Cass. 26038/2019).

Non è poi certo la modifica dell’art. 24 L. 223/1991 (con
l’introduzione del comma 1-bis, conseguente a Corte di Giustizia 16 ottobre
2003, Commissione v. Italia, secondo cui la L.
223/1991 si applica anche ai «privati datori di lavoro non imprenditori»)
ad escludere che il sistema del licenziamento collettivo si applichi agli enti
pubblici economici ed anzi si rileva come, fino alle modifiche di cui alla L. 183/2011, l’art. 33 d. Igs. 165/2001
richiamava per le eccedenze di personale e la mobilità collettiva le regole di
cui all’art. 4 L. 223/1991,
che, in sostanza, costituiscono la trasposizione in ambito di mobilità delle
regole che l’art. 24 della
stessa L. 223 destina ai licenziamenti collettivi, a riprova dell’assenza
di ostacoli ontologici all’applicazione di quelle dinamiche procedurali agli
enti pubblici economici i quali, «pur avendo natura pubblicistica quanto a
costituzione e ad organizzazione, operano con caratteri di economicità ed
imprenditorialità, conseguendone ricavi idonei, almeno tendenzialmente, a
coprire i costi e le eventuali perdite (Cass. 13 luglio 2000, n. 9300; Cass.,
SU., 11 gennaio 1997 n. 191; Cass., SU., 2 aprile 1996, n. 3036)» (così Cass. 26038/2019).

In assenza di esplicite esclusioni non vi è dunque
luogo a ritenere che al Consorzio non sia applicabile la disciplina sui
licenziamenti collettivi di cui alla L. 223/1991.

3. Il terzo motivo denuncia la violazione e falsa
applicazione dell’art. 5 L.
223/1991 (art. 360 n. 3 c.p.c.) sui criteri
di scelta dei lavoratori da licenziare.

In fatto, secondo quanto accertato dalla Corte
d’Appello, risulta che A.M.G. fosse dipendente, come impiegata, del Consorzio e
che con comunicazione del 13.9.2016 fosse stato avviato il procedimento per il
licenziamento collettivo, fondato sulle necessità riorganizzative conseguenti
al perdurare della crisi strutturale dell’ente, sicché, a fronte di un organico
di 45 unità, si individuava un’eccedenza di 12 unità, di cui 8 con profilo di
operaio, 2 con profilo di addetto paghe, 1 con profilo di addetto protocollo e
1 con profilo di addetto segretaria e protocollo.

Svolte le prescritte fasi procedimentali, nella
comunicazione finale di cui all’art.
4, co. 9 (applicabile per il rinvio dell’art. 24, co.1 L. 223/1991) si
dichiarava che per la scelta dei lavoratori da licenziare si sarebbero
applicati i criteri legali in combinazione tra loro e cioè anzianità di
servizio (con punteggio di 0,001 per ogni anno di servizio), carichi di
famiglia (con punteggio di 0,5 per ogni familiare a carico) ed esigenze
tecnico-organizzative-produttive (svolta suddividendo l’intera platea dei
lavoratori in 9 categorie a seconda delle mansioni svolte ed assegnando
punteggio pari a zero ai lavoratori che svolgevano mansioni di addetto al
protocollo o genericamente di segreteria o manutenzione impianti, «perché non
ritenuti necessari per l’espletamento delle ridotte attività aziendali» ed un
punteggio di 10, 20, 25 alle categorie di lavoratori adibiti a mansioni
ritenute indispensabili per il prosieguo dell’attività, quali addetti
all’elaborazione paghe, capi operai, tecnici del catasto, uscieri o autisti) ed
infine un punteggio di 35 punti ai lavoratori con funzioni di coordinamento o
capi settori.

3.1 La Corte territoriale ha disatteso le censure
della lavoratrice ritenendo, per quanto qui ancora interessa, che non fosse
fondata la critica secondo cui i criteri adottati esprimevano una scelta
iniziale di licenziare determinati lavoratori a prescindere dall’applicazione
di criteri di scelta; secondo la Corte, infatti, nel caso di specie
l’individuazione dei lavoratori attraverso le mansioni era giustificata dalla
necessità, evidenziata fin dall’apertura della procedura, di sopprimere le
posizioni lavorative in eccedenza e di eliminare la sovrapposizione e
duplicazione di ruoli.

3.2 II motivo in esame muove alla sentenza impugnata
due ordini di rilievi.

Un primo rilievo consiste nel fatto che, attribuendo
i punteggi sulla base delle mansioni “svolte” e non della
professionalità, quale manifestata anche presso il Consorzio, il datore di
lavoro avrebbe omesso di fare applicazione di parametri obiettivi di raffronto
tra tutto il personale potenzialmente coinvolto, sostanzialmente operando in
modo da prescegliere a priori chi licenziare, così violando l’art. 5, co.1, L. 223 cit.

Un secondo rilievo sostiene invece che la Corte
avrebbe errato nel valutare la quota di personale femminile licenziabile, in
quanto il personale impiegatizio nell’area parametro 157 di pertinenza della
ricorrente, assommava a 10 dipendenti, di cui 4 donne, sicché, dovendosi rispettare,
nella scelta, la percentuale complessiva di manodopera occupata con riferimento
alle mansioni interessate ed essendo state licenziate due donne su un totale di
quattro licenziandi, il recesso aveva coinvolto il personale femminile al 50 %,
mentre la percentuale occupazionale rispetto alle mansioni era del 40 %, così
violando l’art. 5, co.2, ultima
parte L. 223 cit.

3.4 Iniziando dalla seconda questione, il motivo è
inammissibile, in quanto esso si fonda su una ricostruzione di fatto del numero
di persone addetto a mansioni omogenee del tutto autonoma rispetto a quella
svolta dalla Corte territoriale (che ha individuato le persone con mansioni
omogenee in numero di 8, di cui 6 donne, sicché erano licenziabili fino a 3
donne), ma che non può certamente aver corso in sede di legittimità,
trattandosi di profilo di merito.

3.5 II primo rilievo è invece fondato.

Attribuendo i punteggi per la scelta sulla base
delle mansioni svolte in quel momento da ciascun addetto, il Consorzio si è
posto sostanzialmente in contrasto con il principio già espresso da questa
Corte, secondo cui «in tema di licenziamento collettivo per riduzione di
personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in
modo esclusivo ad un’unità produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda
(…) il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in
mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto o settore se essi siano
idonei – per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti
dell’azienda – ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri
reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di
lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto,
trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad
altre realtà organizzative» (Cass. 12 gennaio
2015, n. 203, Cass. 1 agosto 2017, n. 19105).

La procedura di scelta del licenziamento collettivo
deve essere infatti ispirata all’applicazione di parametri oggettivi (Cass. 9 giugno 2011, n. 12544), al fine di
assicurare che la decisione non sia operata sulla base del mero arbitrio del
datore di lavoro.

Ne deriva la necessità di apprezzare non solo le
mansioni in concreto svolte in quel momento dal singolo lavoratore, ma altresì
la capacità professionale di chi sia addetto ai settori da sopprimere, mettendo
quindi in comparazione tutti coloro che siano in grado di svolgere, per
cognizioni generali e concreta competenza, le mansioni proprie di settori che
sopravvivono, a prescindere dal fatto che in concreto, al momento del
licenziamento collettivo non le esercitino.

Nel caso di specie, essendo stato destinato
punteggio “zero” a chi operava in settori da sopprimere ed un
punteggio infimo per ogni anno di anzianità (0,001), con viceversa punteggi
progressivamente e grandemente maggiori (da 10 fino a 35) per chi esercitava le
mansioni in settori non soppressi, è palese la totale mancata considerazione,
al livello di impostazione dei criteri che inevitabilmente governa la
fattispecie, della professionalità degli impiegati degli altri settori.

In definitiva, l’effetto dei criteri adottati è stato
quello per cui chi veniva licenziato era chi era addetto alle mansioni
impiegatizie nei settori non soppressi e veniva invece salvaguardato chi
lavorava nei settori che proseguivano, ma non è questa, a meno di competenze
professionali infungibili, sulle quali però la Corte di merito non ha svolto
alcun accertamento, la logica del licenziamento collettivo.

3.6 E’ quindi fondata la denuncia di violazione
dell’art. 5, co. 1 L. 223/1991,
applicabile ai licenziamenti collettivi per effetto dell’art. 24, co. 1, della stessa
legge.

Pertanto, la sentenza va cassata e la causa rinviata
alla stessa Corte d’Appello affinché svolga gli accertamenti eventualmente
necessari in relazione al motivo accolto, decidendo in conformità ai principi
qui affermati.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il terzo motivo di ricorso, nei sensi di
cui in motivazione, rigetta gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione
al motivo accolto e rinvia alla Corte d’Appello di Catanzaro, in diversa
composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di
cassazione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 marzo 2021, n. 6086
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: