Giurisprudenza – CORTE DI GIUSTIZIA CE-UE – Sentenza 09 marzo 2021, n. C-344/19
«Rinvio pregiudiziale, Tutela della sicurezza e della salute
dei lavoratori, Organizzazione dell’orario di lavoro, Direttiva 2003/88/CE, Articolo 2, Nozione di
“orario di lavoro”, Periodo di guardia o prontezza in regime di reperibilità,
Lavoro specifico concernente la manutenzione di ripetitori televisivi situati
lontano dalle zone abitate, Direttiva 89/391/CEE
– Articoli 5 e 6,
Rischi psicosociali, Obbligo di prevenzione»
1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte
sull’interpretazione dell’articolo 2
della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4
novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario
di lavoro (GU 2003, L 299, pag. 9).
2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di
una controversia che oppone D.J. alla Radiotelevizija Slovenija, in merito alla
retribuzione rivendicata da costui per i servizi di guardia o prontezza in
regime di reperibilità da lui svolti. Si precisa anzitutto che, nell’ambito
della presente sentenza, l’espressione «guardia o prontezza» comprende, in
maniera generica, l’insieme dei periodi nel corso dei quali il lavoratore resta
a disposizione del suo datore di lavoro al fine di poter assicurare una
prestazione di lavoro, su domanda di quest’ultimo, mentre l’espressione «prontezza
in regime di reperibilità» comprende, tra tutti i periodi suddetti, quelli
durante i quali il lavoratore non è costretto a restare sul suo luogo di
lavoro.
Contesto normativo
Diritto dell’Unione
Direttiva 89/391/CEE
3. L’articolo 5, paragrafo 1, della
direttiva 89/391/CEE del Consiglio, del 12 giugno 1989, concernente
l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e
della salute dei lavoratori durante il lavoro (GU 1989, L 183, pag. 1), prevede
quanto segue:
«Il datore di lavoro è obbligato a garantire la
sicurezza e la salute dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi con il
lavoro».
4. L’articolo 6 di detta
direttiva così dispone:
«1. Nel quadro delle proprie responsabilità il
datore di lavoro prende le misure necessarie per la protezione della sicurezza
e della salute dei lavoratori, comprese le attività di prevenzione dei rischi
professionali, d’informazione e di formazione, nonché l’approntamento di
un’organizzazione e dei mezzi necessari.
Il datore di lavoro deve provvedere costantemente
all’aggiornamento di queste misure, per tener conto dei mutamenti di
circostanze e mirare al miglioramento delle situazioni esistenti.
2. Il datore di lavoro mette in atto le misure
previste al paragrafo 1, primo comma, basandosi sui seguenti principi generali
di prevenzione:
a) evitare i rischi;
b) valutare i rischi che non possono essere evitati;
c) combattere i rischi alla fonte;
(…)
3. Fatte salve le altre disposizioni della presente
direttiva, il datore di lavoro, tenendo conto della natura delle attività
dell’impresa e/o dello stabilimento, deve:
a) valutare i rischi per la sicurezza e la salute
dei lavoratori, anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle
sostanze o dei preparati chimici e nella sistemazione dei luoghi di lavoro.
A seguito di questa valutazione, e se necessario, le
attività di prevenzione [e] i metodi di lavoro e di produzione adottati dal
datore di lavoro devono:
– garantire un miglior livello di protezione della
sicurezza e della salute dei lavoratori;
– essere integrate nel complesso delle attività
dell’impresa e/o dello stabilimento e a tutti i livelli gerarchici;
(…)».
Direttiva 2003/88
5. L’articolo
1 della direttiva 2003/88 recita:
«1. La presente direttiva stabilisce prescrizioni
minime di sicurezza e di salute in materia di organizzazione dell’orario di
lavoro.
2. La presente direttiva si applica:
a) ai periodi minimi di riposo giornaliero, riposo
settimanale e ferie annuali nonché alla pausa ed alla durata massima
settimanale del lavoro; e
b) a taluni aspetti del lavoro notturno, del lavoro
a turni e del ritmo di lavoro.
(…)».
6. L’articolo
2 di detta direttiva così dispone:
«Ai sensi della presente direttiva si intende per:
1) “orario di lavoro”: qualsiasi periodo in cui il
lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio
della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o
prassi nazionali;
2) “periodo di riposo”: qualsiasi periodo che non
rientra nell’orario di lavoro;
(…)».
7. L’articolo
7, paragrafo 1, della direttiva summenzionata ha il seguente tenore:
«Gli Stati membri prendono le misure necessarie
affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4
settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle
legislazioni e/o prassi nazionali».
Diritto sloveno
8. L’articolo 142 dello Zakon o delovnih razmerjih
(legge sui rapporti di lavoro), del 5 marzo 2013 (Uradni list RS, n. 21/13),
dispone quanto segue:
«(1) Il tempo di lavoro comprende il tempo di lavoro
effettivo e il tempo di pausa ai sensi dell’articolo 154 della presente legge,
come pure il tempo corrispondente alle assenze giustificate dal lavoro in base
alla legge ed al contratto collettivo ovvero a un atto regolamentare generale.
(2) Costituisce tempo di lavoro effettivo tutto il
tempo durante il quale il lavoratore lavora, dovendosi intendere per tale il
periodo in cui il lavoratore è a disposizione del datore di lavoro e adempie i
propri obblighi lavorativi in forza del contratto di assunzione.
(3) Il tempo di lavoro effettivo costituisce la base
per il calcolo della produttività del lavoro».
9. L’articolo 46 della Kolektivna pogodba za javni
sektor (contratto collettivo per il settore pubblico), del 5 giugno 2008
(Uradni list RS, n. 57/08 e seguenti), così dispone:
«Al dipendente pubblico spetta un’integrazione
salariale per il periodo di reperibilità continuativa nella misura del 20%
della tariffa oraria dello stipendio di base. I periodi di reperibilità
continuativa del dipendente pubblico non vengono conteggiati quale tempo di
lavoro».
Procedimento principale e questioni pregiudiziali
10. Dal 1° agosto 2008 al 31 gennaio 2015, D.J. ha
svolto mansioni di tecnico specializzato nei centri di trasmissione di Pohorje
(Slovenia) e, successivamente, di Krvavec (Slovenia). La natura del lavoro, la
distanza tra questi centri di trasmissione e il suo domicilio, nonché le
difficoltà periodiche per accedere a questi ultimi gli imponevano di
soggiornare in prossimità dei siti in questione. Uno di questi due siti era
d’altronde così lontano dal domicilio di D.J. che sarebbe stato per lui
impossibile recarvisi quotidianamente, anche in presenza delle condizioni
meteorologiche più favorevoli. Il datore di lavoro di D.J. ha predisposto,
negli edifici dei due centri di trasmissione, le condizioni affinché ivi
potessero soggiornare detto lavoratore ed un altro tecnico, entrambi
simultaneamente presenti in ciascuno dei centri di trasmissione summenzionati.
Dopo aver assolto i loro obblighi professionali, i due tecnici potevano così
riposarsi nella sala di ricreazione oppure dedicarsi ad attività di svago nei
dintorni.
11. Questi due tecnici hanno effettuato il loro
lavoro in base a turni orari, che andavano uno dalle ore 6:00 alle ore 18:00 e
l’altro dalle ore 12:00 alle ore 24:00, là dove D.J. ha lavorato il più delle
volte in questo secondo turno. Il lavoro effettuato durante questo turno orario
era «lavoro ordinario» che esigeva la presenza sul luogo di lavoro.
12. Il datore di lavoro di D.J. ha calcolato la
retribuzione di quest’ultimo sulla base di queste dodici ore di «lavoro
ordinario», senza remunerare il periodo di riposo che andava, di norma, dalle
ore 0:00 alle ore 6:00 del mattino, mentre le restanti sei ore sono state
considerate come un periodo di prontezza in regime di reperibilità.
13. Durante quest’ultimo periodo, il dipendente
poteva lasciare il centro di trasmissione in questione. Egli doveva però essere
raggiungibile per telefono e, se necessario, ritornare sul suo luogo di lavoro
entro un termine di un’ora. Soltanto le attività urgenti dovevano essere svolte
immediatamente, mentre le altre attività potevano essere eseguite il giorno
dopo. Il datore di lavoro di D.J. pagava al ricorrente di cui al procedimento
principale, per questo periodo di prontezza in regime di reperibilità,
un’indennità corrispondente al 20% del suo trattamento ordinario. Tuttavia, se,
nel corso di detto periodo, D.J. era chiamato ad intervenire, il tempo
necessario per il suo intervento veniva conteggiato e pagato come lavoro
ordinario.
14. D.J. ha proposto un ricorso affinché le ore
nelle quali egli era tenuto a prestare un siffatto servizio di prontezza in
regime di reperibilità gli fossero pagate in base alla stessa tariffa
corrisposta per le ore di lavoro effettuate oltre l’orario di lavoro ordinario,
indipendentemente dal fatto che egli avesse o no svolto un lavoro concreto
durante tale servizio di reperibilità. Egli ha fondato il proprio ricorso sul
fatto che viveva nel sito dove svolgeva il proprio lavoro e che egli era
pertanto, di fatto, presente sul suo luogo di lavoro 24 ore al giorno. Tenuto
conto della natura del suo lavoro e del fatto che egli soggiornava nei centri
di trasmissione, D.J. riteneva di non poter disporre liberamente del proprio
tempo, per la ragione, segnatamente, che egli doveva, quando era nel periodo di
prontezza in regime di reperibilità, rispondere alle chiamate, in caso di
necessità, ed essere in grado di raggiungere il proprio luogo di lavoro entro
un termine di un’ora. Tenuto conto del fatto che nei siti dei centri di
trasmissione non vi erano grandi possibilità di dedicarsi ad attività di svago,
egli avrebbe, del resto, passato la maggior parte del tempo all’interno di
questi centri di trasmissione.
15. Il ricorso di D.J. è stato respinto in primo e
in secondo grado.
16. D.J. ha proposto un ricorso per cassazione
dinanzi al giudice del rinvio, nell’ambito del quale egli fa valere che il suo
datore di lavoro ha interpretato in modo inesatto la nozione di «tempo di
lavoro effettivo», ai sensi dell’articolo 142 della legge sui rapporti di
lavoro. Infatti, tale nozione comprenderebbe non soltanto il tempo durante il
quale il lavoratore fornisce effettivamente le proprie prestazioni, ma anche
tutto il tempo durante il quale egli è presente sul luogo di lavoro che gli
impone il suo datore di lavoro. Orbene, quest’ultimo gli avrebbe imposto
periodi di servizio di vari giorni ed avrebbe abusato del ricorso ai periodi di
prontezza in regime di reperibilità.
17. Il giudice del rinvio sottolinea che l’oggetto
del procedimento principale è la remunerazione dei servizi di prontezza in
regime di reperibilità svolti da D.J. Detto giudice ritiene che, sebbene tale
questione non rientri nell’ambito di applicazione della direttiva 2003/88, esso non sarà in grado di
statuire sulla fondatezza della domanda di D.J. se non dopo aver ottenuto dalla
Corte alcune precisazioni riguardo all’interpretazione dell’articolo 2 di detta
direttiva.
18. A questo proposito, il giudice del rinvio
ritiene che la causa pendente dinanzi ad esso si distingua dalle cause che
hanno già dato luogo a sentenze della Corte in materia.
19. In concreto, anzitutto, contrariamente alla
causa decisa dalla sentenza del 3 ottobre 2000, Simap (C-303/98, EU:C:2000:528), la presenza fisica di
D.J. sul suo luogo di lavoro, nel corso dei suoi periodi di prontezza, non
sarebbe stata né necessaria, né richiesta, salvo il caso di intervento, in
quanto tali periodi di prontezza venivano svolti in regime di reperibilità.
Poi, a differenza della causa decisa dalla sentenza del 9 settembre 2003,
Jaeger (C-151/02, EU:C:2003:437), sarebbe stata
la natura stessa del suo luogo di lavoro, e non la necessità che egli fosse
raggiungibile, il motivo per cui le possibilità per D.J. di gestire liberamente
il proprio tempo e di coltivare i propri interessi erano più limitate. Il
giudice del rinvio considera inoltre, alla luce della sentenza del 10 settembre
2015, Federación de Servicios Privados del sindicato Comisiones obreras (C-266/14, EU:C:2015:578), che gli spostamenti per
recarsi presso i clienti non possono essere messi sullo stesso piano del
periodo di prontezza in regime di reperibilità. Infine, detto giudice ravvisa
una differenza rispetto alla causa decisa dalla sentenza del 21 febbraio 2018,
Matzak (C-518/15, EU:C:2018:82), consistente
nel fatto che D.J. non era tenuto a restare fisicamente presente sul luogo
designato dal suo datore di lavoro e che il tempo di reazione che gli era
concesso per raggiungere il suo luogo di lavoro era significativamente più
lungo di quello che veniva in discussione nella causa sopra citata.
20. Alla luce di tali circostanze, il Vrhovno
sodišče (Corte suprema, Slovenia) ha deciso di sospendere il procedimento
e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se l’articolo
2 della direttiva 2003/88 debba essere interpretato nel senso che, in
circostanze quali quelle di cui al presente procedimento, si considera quale
orario di lavoro [il periodo di prontezza in regime di] reperibilità
continuativa, durante [il] quale il lavoratore che presta la propria opera
presso una stazione di trasmissione radiotelevisiva deve, nel periodo in cui è
libero dal servizio (quando la sua presenza fisica sul posto di lavoro non è
necessaria), essere raggiungibile su chiamata e, se necessario, arrivare sul
posto di lavoro entro un’ora.
2) Se sulla definizione della natura [del periodo di
prontezza in regime di] reperibilità continuativa in circostanze quali quelle
di cui al presente procedimento influisca il fatto che il lavoratore soggiorna
in un alloggio ricavato nel sito dove egli svolge il proprio lavoro (stazione
di trasmissione radiotelevisiva), in quanto le caratteristiche geografiche del
sito rendono impossibile (o più difficile) un ritorno giornaliero [al suo
domicilio] (“giù a valle”).
3) Se la risposta ai due quesiti precedenti debba
essere differente qualora si tratti di un sito in cui le possibilità di
dedicarsi ad attività di svago nel tempo libero sono limitate a causa delle
caratteristiche geografiche del luogo e se il lavoratore incontra maggiori
limitazioni nella gestione del proprio tempo libero e nel perseguimento dei
propri interessi (rispetto a quanto accadrebbe se soggiornasse presso la
propria abitazione)».
Sulle questioni pregiudiziali
21. Con le sue questioni, che occorre esaminare
congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 2 della direttiva 2003/88
debba essere interpretato nel senso che il periodo di prontezza, durante il
quale un lavoratore deve essere raggiungibile per telefono e deve, in caso di
necessità, poter raggiungere il proprio luogo di lavoro entro un termine di
un’ora, costituisce «orario di lavoro», ai sensi dell’articolo suddetto, e se la
messa a disposizione, a favore di tale lavoratore, di un alloggio di servizio,
a motivo della natura difficilmente accessibile del suo luogo di lavoro, nonché
il carattere poco propizio per le attività di svago degli immediati dintorni di
tale luogo di lavoro debbano essere presi in considerazione nell’ambito di una
siffatta qualificazione come «orario di lavoro».
22. Risulta, più in particolare, dalla decisione di
rinvio e dal fascicolo a disposizione della Corte che il ricorrente di cui al
procedimento principale è un tecnico specializzato che era incaricato, insieme
ad un collega, di assicurare il funzionamento, durante più giorni consecutivi,
di un centro di trasmissione situato in cima a una montagna. D.J. era in
servizio di prontezza durante sei ore ogni giorno. Tale servizio di prontezza
veniva svolto in regime di reperibilità, il che implicava che, nel corso di
tale periodo, e a differenza di un periodo di guardia in loco comportante
l’obbligo di essere fisicamente presente sul proprio luogo di lavoro,
l’interessato doveva soltanto essere raggiungibile in qualsiasi momento ed
essere in grado, in caso di necessità, di arrivare al centro di trasmissione in
questione entro un termine di un’ora.
23. In via preliminare, occorre ricordare che,
nell’ambito di un procedimento pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267 TFUE, la Corte non
è competente a valutare i fatti in discussione nel procedimento principale o ad
applicare a misure o a situazioni nazionali le norme del diritto dell’Unione
che le si chiede di interpretare, stante che tali questioni rientrano nella
competenza esclusiva dei giudici nazionali (v., in tal senso, sentenza dell’8
maggio 2013, Libert e a., C-197/11 e C-203/11, EU:C:2013:288, punto 94). Ciò
premesso, spetta alla Corte fornire al giudice del rinvio una risposta che
consenta a quest’ultimo di risolvere la controversia sottoposta alla sua
cognizione fornendogli tutti gli elementi di interpretazione del diritto
dell’Unione che possono essere utili a tal fine (v., in tal senso, sentenza del
18 settembre 2019, VIPA, C-222/18, EU:C:2019:751, punto 50 e la giurisprudenza
ivi citata).
24. Dunque, se spetta, in definitiva, al giudice del
rinvio esaminare se i periodi di prontezza in regime di reperibilità che
vengono in discussione nel procedimento principale debbano essere qualificati
come «orario di lavoro», ai fini dell’applicazione della direttiva 2003/88, ciò non toglie che incombe alla
Corte fornire a detto giudice delle indicazioni riguardo ai criteri da prendere
in considerazione nel contesto di tale esame.
25. Alla luce di tali precisazioni preliminari, in
primo luogo, occorre ricordare che l’obiettivo della direttiva
2003/88 è fissare prescrizioni minime destinate a migliorare le condizioni
di vita e di lavoro dei lavoratori mediante un ravvicinamento delle normative
nazionali riguardanti, in particolare, la durata dell’orario di lavoro. Tale
armonizzazione a livello dell’Unione europea in materia di organizzazione
dell’orario di lavoro è intesa a garantire una migliore protezione della
sicurezza e della salute dei lavoratori, facendo godere a questi ultimi periodi
minimi di riposo – in particolare giornaliero e settimanale – e periodi di
pausa adeguati, e prevedendo un limite massimo per la durata settimanale del
lavoro (sentenza del 14 maggio 2019, CCOO, C-55/18,
EU:C:2019:402, punti 36 e 37 nonché la giurisprudenza ivi citata).
26. Le diverse prescrizioni enunciate dalla direttiva 2003/88 in materia di durata massima del
lavoro e di periodi minimi di riposo costituiscono norme del diritto sociale
dell’Unione presentanti un’importanza particolare, delle quali deve beneficiare
ogni lavoratore (sentenza del 10 settembre 2015, Federación de Servicios
Privados del sindicato Comisiones obreras, C-266/14,
EU:C:2015:578, punto 24) e il cui rispetto non può essere subordinato a considerazioni
di carattere puramente economico (v., in tal senso, sentenza del 9 settembre
2003, Jaeger, C-151/02, EU:C:2003:437, punti 66
e 67).
27. Del resto, istituendo
il diritto di ciascun lavoratore ad una limitazione della durata massima del
lavoro e a periodi di riposo giornaliero e settimanale, la direttiva 2003/88 precisa il diritto fondamentale
espressamente sancito dall’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea e deve, di conseguenza, essere interpretata
alla luce di tale articolo 31, paragrafo 2. Ne consegue, segnatamente, che le
disposizioni della direttiva 2003/88 non
possono essere oggetto di un’interpretazione restrittiva a discapito dei
diritti che il lavoratore si vede riconosciuti dalla direttiva medesima (v., in
tal senso, sentenza del 14 maggio 2019, CCOO, C-55/18,
EU:C:2019:402, punti da 30 a 32 e la giurisprudenza ivi citata).
28. In secondo luogo, occorre rilevare che l’articolo 2, punto 1, della direttiva
2003/88 definisce la nozione di «orario di lavoro» come configurante
qualsiasi periodo durante il quale il lavoratore è al lavoro, a disposizione
del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni,
conformemente alle legislazioni e/o alle prassi nazionali. Ai sensi dell’articolo 2, punto 2, di detta
direttiva, la nozione di «periodo di riposo» comprende qualsiasi periodo che
non rientra nell’orario di lavoro.
29. Ne consegue che queste due nozioni, che erano
definite allo stesso modo nella direttiva 93/104/CE
del Consiglio, del 23 novembre 1993, concernente taluni aspetti
dell’organizzazione dell’orario di lavoro (GU 1993, L 307, pag. 18), alla quale
è succeduta la direttiva 2003/88, si escludono
reciprocamente. Il tempo di guardia o prontezza di un lavoratore deve dunque
essere qualificato o come «orario di lavoro» o come «periodo di riposo» ai fini
dell’applicazione della direttiva 2003/88,
posto che quest’ultima non prevede alcuna categoria intermedia (v., in tal
senso, sentenze del 10 settembre 2015, Federación de Servicios Privados del
sindicato Comisiones obreras, C-266/14,
EU:C:2015:578, punti 25 e 26 e la giurisprudenza ivi citata, nonché del 21
febbraio 2018, Matzak, C-518/15, EU:C:2018:82, punto 55 e la giurisprudenza ivi
citata).
30. Inoltre, le nozioni di «orario di lavoro» e di
«periodo di riposo» costituiscono nozioni di diritto dell’Unione che vanno
definite in base a caratteristiche oggettive, facendo riferimento all’economia
sistematica e alla finalità della direttiva 2003/88.
Infatti, soltanto un’interpretazione autonoma di questo tipo è idonea ad
assicurare a detta direttiva la sua piena efficacia nonché un’applicazione uniforme
delle nozioni suddette nella totalità degli Stati membri (v., in tal senso,
sentenza del 9 settembre 2003, Jaeger, C-151/02,
EU:C:2003:437, punto 58).
31. Pertanto, malgrado il riferimento alle
«legislazioni e/o prassi nazionali» contenuto nell’articolo 2 della direttiva 2003/88,
gli Stati membri non possono determinare unilateralmente la portata delle
nozioni di «orario di lavoro» e di «periodo di riposo», subordinando ad una
qualsivoglia condizione o restrizione il diritto, riconosciuto direttamente ai
lavoratori dalla direttiva di cui sopra, a che i periodi di lavoro e,
correlativamente, quelli di riposo siano debitamente presi in considerazione.
Qualsiasi altra interpretazione pregiudicherebbe l’effetto utile della direttiva 2003/88 e si porrebbe in contrasto con
la sua finalità (v., in tal senso, sentenze del 9 settembre 2003, Jaeger, C-151/02, EU:C:2003:437, punto 59, e del 1°
dicembre 2005, Dellas e a., C-14/04, EU:C:2005:728, punto 45, nonché ordinanza
dell’11 gennaio 2007, Vorel, C-437/05, EU:C:2007:23, punto 26).
32. In terzo luogo, per quanto riguarda più
precisamente i periodi di guardia o prontezza, risulta dalla giurisprudenza
della Corte che un periodo durante il quale nessuna attività viene
effettivamente esercitata dal lavoratore a beneficio del suo datore di lavoro
non costituisce necessariamente un «periodo di riposo», ai fini dell’applicazione
della direttiva 2003/88.
33. Infatti, da un lato la Corte ha statuito, a
proposito di periodi di guardia o prontezza effettuati su luoghi di lavoro che
non coincidevano con il domicilio del lavoratore, che l’elemento determinante
per considerare sussistenti gli elementi caratteristici della nozione di
«orario di lavoro», ai sensi della direttiva
2003/88, è il fatto che il lavoratore sia costretto ad essere fisicamente
presente sul luogo designato dal datore di lavoro e a rimanere ivi a
disposizione di quest’ultimo al fine di poter fornire direttamente i propri
servizi in caso di necessità (v., in tal senso, sentenze del 3 ottobre 2000,
Simap, C-303/98, EU:C:2000:528, punto 48; del
9 settembre 2003, Jaeger, C-151/02,
EU:C:2003:437, punto 63, nonché del 1° dicembre 2005, Dellas e a., C-14/04,
EU:C:2005:728, punto 48).
34. A questo proposito, occorre precisare che il
luogo di lavoro deve essere inteso come qualsiasi luogo in cui il lavoratore è
chiamato ad esercitare un’attività su ordine del suo datore di lavoro, anche
quando tale luogo non sia il posto in cui egli esercita abitualmente la propria
attività professionale.
35. La Corte ha considerato che, nel corso di un
siffatto periodo di guardia o prontezza, il lavoratore, tenuto a restare sul
suo luogo di lavoro a disposizione immediata del suo datore di lavoro, deve
rimanere distante dal suo ambiente sociale e familiare e beneficia di una
minore libertà per gestire il tempo durante il quale i suoi servizi
professionali non sono richiesti. Pertanto, tutto questo periodo deve essere
qualificato come «orario di lavoro», ai sensi della direttiva
2003/88, indipendentemente dalle prestazioni di lavoro realmente svolte dal
lavoratore nel corso di tale periodo (v., in tal senso, sentenze del 9
settembre 2003, Jaeger, C-151/02,
EU:C:2003:437, punto 65; del 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., da C-397/01 a
C-403/01, EU:C:2004:584, punto 93, nonché del 1° dicembre 2005, Dellas e a.,
C-14/04, EU:C:2005:728, punti 46 e 58).
36. Dall’altro lato, la Corte ha statuito che un
periodo di prontezza in regime di reperibilità, pur non imponendo al lavoratore
di restare sul suo luogo di lavoro, deve parimenti essere qualificato, nella
sua interezza, come «orario di lavoro», ai sensi della direttiva 2003/88, qualora, tenuto conto
dell’impatto oggettivo e assai significativo dei vincoli imposti al lavoratore
sulle possibilità, per quest’ultimo, di dedicarsi ai propri interessi personali
e sociali, esso si distingua da un periodo nel corso del quale il lavoratore è
tenuto unicamente a rimanere a disposizione del proprio datore di lavoro
affinché quest’ultimo possa raggiungerlo (v., in tal senso, sentenza del 21
febbraio 2018, Matzak, C-518/15, EU:C:2018:82,
punti da 63 a 66).
37. Risulta sia degli elementi evidenziati ai punti
da 33 a 36 della presente sentenza, sia dalla necessità, ricordata al punto 27
di quest’ultima, di interpretare l’articolo
2, punto 1, della direttiva 2003/88 alla luce dell’articolo 31, paragrafo 2, della Carta
dei diritti fondamentali, che rientra nella nozione di «orario di lavoro»,
ai sensi della citata direttiva 2003/88, la
totalità dei periodi di guardia o prontezza, ivi compresi quelli in regime di
reperibilità, nel corso dei quali i vincoli imposti al lavoratore siano di
natura tale da pregiudicare in modo oggettivo e assai significativo la facoltà,
per quest’ultimo, di gestire liberamente, nel corso dei periodi in questione,
il tempo durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti e di
dedicare questo tempo ai propri interessi.
38. Viceversa, qualora i vincoli imposti al
lavoratore nel corso di un periodo di guardia o prontezza determinato non
raggiungano un siffatto grado di intensità e gli permettano di gestire il
proprio tempo e di dedicarsi ai propri interessi senza limitazioni
significative, soltanto il tempo connesso alla prestazione di lavoro che viene,
se del caso, effettivamente realizzata nel corso di un periodo siffatto
costituisce «orario di lavoro», ai fini dell’applicazione della direttiva 2003/88 (v., in tal senso, sentenze del
3 ottobre 2000, Simap, C-303/98,
EU:C:2000:528, punto 50, e del 10 settembre 2015, Federación de Servicios
Privados del sindicato Comisiones obreras, C-266/14,
EU:C:2015:578, punto 37).
39. A questo proposito, occorre ancora precisare che
soltanto i vincoli che sono imposti al lavoratore – indifferentemente – dalla
normativa dello Stato membro interessato, da un contratto collettivo o dal
datore di lavoro del predetto, in virtù, segnatamente, del contratto di lavoro,
del regolamento aziendale o del sistema di ripartizione dei servizi di guardia
o prontezza tra lavoratori, possono essere presi in considerazione al fine di
valutare se un periodo di guardia o prontezza costituisca «orario di lavoro»,
ai sensi della direttiva 2003/88.
40. Per contro, le difficoltà organizzative che un
periodo di guardia o prontezza può far sorgere per il lavoratore e che non
derivano da vincoli siffatti, ma che sono, ad esempio, la conseguenza di
elementi naturali o della libera scelta del lavoratore stesso, non possono
essere prese in conto.
41. Così, da un lato, la distanza considerevole che
separa il domicilio liberamente scelto dal lavoratore dal luogo che egli deve
essere in grado di raggiungere entro un certo termine nel corso del suo periodo
di prontezza non è, di per sé, un criterio pertinente per qualificare la
totalità di questo periodo come «orario di lavoro», ai sensi dell’articolo 2, punto 1, della direttiva
2003/88, quantomeno nel caso in cui tale luogo sia il suo luogo di lavoro
abituale. Infatti, in un caso siffatto, detto lavoratore è stato in grado di
valutare liberamente la distanza che separa questo luogo dal suo domicilio (v.,
a contrario, sentenza del 10 settembre 2015, Federación de Servicios Privados
del sindicato Comisiones obreras, C-266/14,
EU:C:2015:578, punto 44).
42. Dall’altro lato, neppure il carattere poco
propizio per le attività di svago che presenta la zona dalla quale il
lavoratore non può, in pratica, allontanarsi durante un periodo di prontezza in
regime di reperibilità, così come la natura difficilmente accessibile del suo
luogo di lavoro, costituiscono una circostanza pertinente al fine di
qualificare tale periodo come «orario di lavoro», ai sensi della direttiva 2003/88.
43. Inoltre, se il luogo di lavoro ingloba o
coincide con il domicilio del lavoratore, il semplice fatto che, nel corso di
un determinato periodo di guardia o prontezza, costui sia tenuto a restare sul
suo luogo di lavoro al fine di potere, in caso di necessità, essere disponibile
per il suo datore di lavoro non è sufficiente per qualificare tale periodo come
«orario di lavoro», ai sensi della direttiva
2003/88. Infatti, in tal caso, il divieto imposto al lavoratore di lasciare
il suo luogo di lavoro non implica necessariamente che egli debba restare
lontano dal suo ambiente familiare e sociale. Inoltre, un siffatto divieto è,
di per sé stesso, meno suscettibile di ostacolare la facoltà di detto
lavoratore di gestire liberamente, nel corso di questo periodo, il tempo
durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti (v., a questo
proposito, sentenza del 9 settembre 2003, Jaeger, C-151/02,
EU:C:2003:437, punto 65).
44. Occorre ancora aggiungere che, qualora, in
ragione della natura stessa del luogo di lavoro, il lavoratore non disponga, in
pratica, di una fattiva possibilità di lasciare tale luogo dopo aver effettuato
le proprie ore di lavoro, soltanto i periodi nel corso dei quali egli resta
assoggettato a dei vincoli oggettivi e assai significativi, come l’obbligo di
essere immediatamente disponibile per il suo datore di lavoro, devono essere
automaticamente qualificati come «orario di lavoro», ai sensi della direttiva 2003/88, ad esclusione dei periodi nel
corso dei quali l’impossibilità di lasciare il suo luogo di lavoro deriva non
già da un obbligo siffatto, bensì unicamente dalla natura particolare di questo
luogo.
45. Qualora, in ragione dell’assenza di un obbligo
di restare sul luogo di lavoro, un periodo di prontezza non possa essere
automaticamente qualificato come «orario di lavoro», ai sensi della direttiva 2003/88, spetta ancora ai giudici
nazionali verificare se una siffatta qualificazione non si imponga comunque, in
ragione delle conseguenze che l’insieme dei vincoli imposti al lavoratore causa
sulla sua facoltà di gestire liberamente, nel corso di tale periodo, il tempo
durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti e di dedicarsi
ai propri interessi.
46. In tale prospettiva, occorre, più in
particolare, tener conto del termine di cui il lavoratore dispone, nel corso
del suo periodo di prontezza, per riprendere le proprie attività professionali,
a partire dal momento in cui il suo datore di lavoro lo richiede, combinato, se
del caso, con la frequenza media degli interventi che tale lavoratore sarà
effettivamente chiamato ad assicurare nel corso di tale periodo.
47. Così, in primis, come rilevato, in sostanza,
dall’avvocato generale ai paragrafi da 98 a 100 delle sue conclusioni, i
giudici nazionali devono prendere in considerazione le conseguenze che causa,
sulla facoltà per il lavoratore di gestire liberamente il proprio tempo, la
brevità del termine entro il quale egli deve, in caso di intervento necessario,
rimettersi al lavoro, ciò che, di norma, gli impone di raggiungere il proprio
luogo di lavoro.
48. A questo proposito, occorre sottolineare che un
periodo di prontezza nel corso del quale un lavoratore può, tenuto conto del
termine ragionevole che gli è concesso per riprendere le proprie attività
professionali, pianificare le proprie occupazioni personali e sociali non
costituisce, in generale, «orario di lavoro», ai sensi della direttiva 2003/88.
Per converso, un periodo di prontezza durante il
quale il termine imposto al lavoratore per rimettersi al lavoro è limitato ad
alcuni minuti, deve, in linea di principio, essere considerato, nella sua
interezza, come «orario di lavoro», ai sensi di detta direttiva, dato che il
lavoratore, in quest’ultimo caso, è in pratica fortemente dissuaso dal
pianificare una qualsiasi attività di svago, anche di breve durata.
49. Ciò non toglie che l’impatto di un siffatto
tempo di reazione deve essere valutato al termine di un’analisi concreta, che
tenga conto, se del caso, degli altri vincoli che sono imposti al lavoratore,
così come delle agevolazioni che gli sono concesse, nel corso del suo periodo
di prontezza.
50. Quanto al fatto per il datore di lavoro di
mettere a disposizione del lavoratore, a motivo della natura particolare del
luogo di lavoro, un alloggio di servizio situato in tale luogo di lavoro o
nelle immediate vicinanze di quest’ultimo, esso non costituisce, come tale, un
elemento decisivo per qualificare dei periodi di prontezza in regime di
reperibilità come «orario di lavoro», ai sensi della direttiva
2003/88, qualora tale lavoratore non sia soggetto, durante questi periodi,
a vincoli tali che la sua facoltà di dedicarsi ai propri interessi privati ne
risulti oggettivamente e assai significativamente pregiudicata.
51. In secundis, in aggiunta al termine di cui il
lavoratore dispone per riprendere la propria attività professionale, la
frequenza media delle prestazioni effettive che vengono normalmente realizzate
da tale lavoratore, nel corso di ciascuno dei suoi periodi di prontezza, deve,
qualora possa essere oggetto di una stima oggettiva, essere presa in
considerazione dai giudici nazionali.
52. Infatti, qualora un lavoratore sia, in media,
chiamato ad intervenire in numerose occasioni nel corso di un periodo di
prontezza, egli dispone di un margine più ristretto per gestire liberamente il
proprio tempo durante i suoi periodi di inattività, tenuto conto della loro
frequente interruzione. Ciò vale a maggior ragione nel caso in cui gli
interventi normalmente richiesti al lavoratore, nel corso del suo periodo di
prontezza, siano di durata non trascurabile.
53. Ne consegue che, se il lavoratore è, in media,
frequentemente chiamato a fornire prestazioni nel corso dei suoi periodi di
prontezza, prestazioni che, di norma, non sono di breve durata, la totalità di
questi periodi costituisce, in via di principio, «orario di lavoro», ai sensi
della direttiva 2003/88.
54. Ciò premesso, il fatto che, in media, il
lavoratore venga soltanto raramente chiamato a intervenire nel corso dei suoi
periodi di prontezza non può portare al risultato che questi ultimi siano
considerati come «periodi di riposo», ai sensi dell’articolo 2, punto 2, della direttiva
2003/88, qualora l’impatto del termine imposto al lavoratore per riprendere
le proprie attività professionali sia tale da essere sufficiente per limitare,
in modo oggettivo e assai significativo, la facoltà che egli ha di gestire
liberamente, nel corso di tali periodi, il tempo durante il quale i suoi
servizi professionali non sono richiesti.
55. Nel caso di specie, occorre ricordare che,
secondo il giudice del rinvio, nel corso dei periodi di prontezza in regime di
reperibilità che vengono in discussione nel procedimento principale, D.J. era
tenuto unicamente ad essere immediatamente raggiungibile e ad essere in grado
di raggiungere il proprio luogo di lavoro entro un termine di un’ora in caso di
necessità. Non risulta dalla decisione di rinvio che altri vincoli siano stati
imposti a tale lavoratore, né che, nel corso di tali periodi, la frequenza
media degli interventi che imponevano che egli raggiungesse il proprio luogo di
lavoro entro il termine suddetto sia stata elevata. Inoltre, il suddetto
lavoratore disponeva di un alloggio di servizio sul suo luogo di lavoro, nel
quale però non era tenuto a restare in permanenza durante i periodi in
questione.
56. Spetta tuttavia al giudice del rinvio valutare,
alla luce dell’insieme delle circostanze del caso di specie, se D.J. sia stato
assoggettato, nel corso dei suoi periodi di prontezza in regime di
reperibilità, a vincoli di intensità tale per cui questi abbiano pregiudicato,
in modo oggettivo e assai significativo, la sua facoltà di gestire liberamente,
nel corso di tali periodi, il tempo durante il quale i suoi servizi
professionali non erano richiesti e di dedicare questo tempo ai propri
interessi.
57. In quarto luogo, occorre ricordare che, fatta
eccezione per l’ipotesi particolare relativa alle ferie annuali pagate,
contemplata dall’articolo 7,
paragrafo 1, della direttiva 2003/88, tale direttiva si limita a
disciplinare alcuni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro al fine
di garantire la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, cosicché,
in linea di principio, essa non si applica alla retribuzione dei lavoratori
(sentenza del 20 novembre 2018, Sindicatul Familia Constanţa e a., C-147/17, EU:C:2018:926, punto 35).
58. Pertanto, la modalità di retribuzione dei lavoratori
per i periodi di guardia o prontezza ricade non già sotto la direttiva 2003/88, bensì sotto le pertinenti
disposizioni del diritto nazionale. Tale direttiva non osta, di conseguenza,
all’applicazione di una normativa di uno Stato membro, di un accordo collettivo
di lavoro o di una decisione di un datore di lavoro, che, ai fini della
remunerazione di un servizio di guardia o prontezza, prenda in considerazione
in maniera differente i periodi nel corso dei quali vengono realmente
effettuate delle prestazioni di lavoro e quelli durante i quali non viene
svolto alcun lavoro effettivo, anche qualora tali periodi debbano essere
considerati, nella loro totalità, come «orario di lavoro» ai fini
dell’applicazione della direttiva suddetta (v., in tal senso, ordinanza dell’11
gennaio 2007, Vorel, C-437/05, EU:C:2007:23, punto 35).
59. Allo stesso modo, la direttiva
2003/88 non osta ad una normativa, ad un accordo collettivo di lavoro o ad
una decisione del datore di lavoro siffatti, che, per quanto riguarda i periodi
di prontezza che dovrebbero essere integralmente considerati come non
rientranti nella nozione di «orario di lavoro» ai fini dell’applicazione di
tale direttiva, preveda nondimeno il versamento al lavoratore di cui trattasi
di un importo inteso a compensare i disagi a lui causati da tali periodi di
prontezza nella gestione del suo tempo e dei suoi interessi privati.
60. In quinto e ultimo luogo, risulta dal punto 29
della presente sentenza che i periodi di guardia o prontezza che non soddisfano
le condizioni per essere qualificati come «orario di lavoro», ai sensi dell’articolo 2, punto 1, della direttiva
2003/88, devono essere considerati – fatta eccezione per il tempo connesso
alle prestazioni di lavoro effettivamente realizzate nel corso di questi
periodi – come «periodi di riposo», ai sensi dell’articolo 2, punto 2, di detta
direttiva, e, come tali, essere inclusi nel calcolo dei periodi minimi di
riposo giornaliero e settimanale stabiliti dagli articoli 3 e 5 della medesima
direttiva.
61. Ciò premesso, occorre rilevare che la
qualificazione di un periodo di guardia o prontezza come «periodo di riposo»,
ai fini dell’applicazione della direttiva 2003/88,
non incide sul dovere per i datori di lavoro di rispettare gli obblighi
specifici ad essi incombenti, a norma della direttiva
89/391, al fine di tutelare la sicurezza e la salute dei loro lavoratori.
Infatti, quest’ultima direttiva è pienamente applicabile in materia di periodi
minimi di riposo giornaliero, di riposo settimanale e di durata massima
settimanale del lavoro, fatte salve le disposizioni più vincolanti e/o
specifiche contenute nella direttiva 2003/88
(sentenza del 14 maggio 2019, CCOO, C-55/18,
EU:C:2019:402, punto 61).
62. Orbene, in primis, risulta dall’articolo 5, paragrafo 1, e
dall’articolo 6 della direttiva 89/391 che i datori di lavoro sono
obbligati a valutare e a prevenire i rischi per la sicurezza e la salute dei
lavoratori connessi al loro ambiente di lavoro (v., in tal senso, sentenze del
15 novembre 2001, Commissione/Italia, C-49/00, EU:C:2001:611, punti 12 e 13,
nonché del 14 giugno 2007, Commissione/Regno Unito, C-127/05,
EU:C:2007:338, punto 41), tra i quali figurano alcuni rischi psicosociali, come
lo stress o l’esaurimento professionale.
63. In secundis, come sottolineato dalla Commissione
europea, anche qualora non costituiscano «orario di lavoro», ai sensi dell’articolo 2, punto 1, della direttiva
2003/88, i servizi di guardia o prontezza presuppongono necessariamente che
degli obblighi professionali vengano imposti al lavoratore e rientrano di
conseguenza, entro questi stretti limiti, nel loro ambiente di lavoro, in senso
ampio.
64. Orbene, qualora siffatti servizi di guardia o
prontezza si estendano, senza soluzione di continuità, su lunghi periodi o
abbiano luogo a intervalli molto ravvicinati, di modo che essi facciano pesare,
in maniera ricorrente, un carico psicologico, anche di debole intensità, sul
lavoratore, può divenire, in pratica, molto difficile, per quest’ultimo,
sottrarsi pienamente al proprio ambiente di lavoro per un numero sufficiente di
ore consecutive, che gli permettano di neutralizzare gli effetti del lavoro
sulla sua sicurezza e sulla sua salute. Ciò vale a maggior ragione nel caso in
cui tali servizi di guardia o prontezza abbiano luogo durante la notte.
65. Ne consegue che, tenuto conto del loro obbligo
di proteggere i lavoratori contro i rischi psicosociali che possono presentarsi
nell’ambiente di lavoro di questi ultimi, i datori di lavoro non possono
istituire periodi di guardia o prontezza lunghi o frequenti a tal punto da costituire
un rischio per la sicurezza o la salute dei lavoratori stessi,
indipendentemente dal fatto che tali periodi siano qualificati come «periodi di
riposo», ai sensi dell’articolo 2,
punto 2, della direttiva 2003/88.
Spetta agli Stati membri definire, nel loro diritto
nazionale, le modalità di applicazione di tale obbligo.
66. Risulta dall’insieme delle considerazioni sopra
esposte che occorre rispondere alle questioni sollevate dichiarando che l’articolo 2, punto 1, della direttiva
2003/88 deve essere interpretato nel senso che un periodo di prontezza in
regime di reperibilità, nel corso del quale un lavoratore debba unicamente
essere raggiungibile per telefono ed essere in grado di raggiungere il proprio
luogo di lavoro, in caso di necessità, entro un termine di un’ora, avendo però
la possibilità di soggiornare in un alloggio di servizio messo a sua
disposizione dal suo datore di lavoro in questo luogo di lavoro, senza essere
tenuto a restarvi, costituisce, nella sua interezza, orario di lavoro, ai sensi
della disposizione sopra citata, soltanto qualora risulti da una valutazione
globale dell’insieme delle circostanze del caso di specie, e segnatamente delle
conseguenze di un siffatto termine assegnato e, eventualmente, della frequenza
media di intervento nel corso di tale periodo, che i vincoli imposti a tale
lavoratore durante il periodo suddetto sono di natura tale da pregiudicare in
modo oggettivo e assai significativo la facoltà per quest’ultimo di gestire
liberamente, nel corso dello stesso periodo, il tempo durante il quale i suoi
servizi professionali non sono richiesti e di dedicare questo tempo ai propri
interessi. Il fatto che gli immediati dintorni del luogo in questione
presentino un carattere poco propizio per le attività di svago è privo di
rilevanza ai fini di questa valutazione.
Sulle spese
67. Nei confronti delle parti nel procedimento
principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al
giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute
da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo
a rifusione.
P.Q.M.
L’articolo
2, punto 1, della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione
dell’orario di lavoro, deve essere interpretato nel senso che un periodo di
prontezza in regime di reperibilità, nel corso del quale un lavoratore debba
unicamente essere raggiungibile per telefono ed essere in grado di raggiungere
il proprio luogo di lavoro, in caso di necessità, entro un termine di un’ora,
avendo però la possibilità di soggiornare in un alloggio di servizio messo a
sua disposizione dal suo datore di lavoro in questo luogo di lavoro, senza
essere tenuto a restarvi, costituisce, nella sua interezza, orario di lavoro,
ai sensi della disposizione sopra citata, soltanto qualora risulti da una
valutazione globale dell’insieme delle circostanze del caso di specie, e
segnatamente delle conseguenze di un siffatto termine assegnato e,
eventualmente, della frequenza media di intervento nel corso di tale periodo,
che i vincoli imposti a tale lavoratore durante il periodo suddetto sono di
natura tale da pregiudicare in modo oggettivo e assai significativo la facoltà
per quest’ultimo di gestire liberamente, nel corso dello stesso periodo, il
tempo durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti e di
dedicare questo tempo ai propri interessi. Il fatto che gli immediati dintorni
del luogo in questione presentino un carattere poco propizio per le attività di
svago è privo di rilevanza ai fini di questa valutazione.