Il recesso intimato ad un lavoratore per non aver consentito all’avventore di avvicinarsi alle casse e concludere l’acquisto perché privo di dispositivi di protezione individuale è illegittimo.
Nota a Trib. Arezzo 13 gennaio 2021, n. 9
Sonia Gioia
Nel periodo di emergenza pandemica da infezione da Covid-19, il rifiuto del prestatore di servire un cliente che ometta di indossare una mascherina o altro presidio alternativo di protezione configura esercizio lecito del diritto costituzionalmente tutelato di svolgere le proprie mansioni in condizioni di sicurezza e, pertanto, non costituisce giusta causa di recesso.
Questo, il principio affermato dal Tribunale di Arezzo (13 gennaio 2021, n. 9), in relazione alla sanzione espulsiva irrogata ad un lavoratore, con mansioni di cassiere, per non aver consentito di effettuare l’acquisto di alcuni prodotti del market ad un cliente che, nonostante le sollecitazioni, non intendeva indossare alcun dispositivo di protezione individuale.
In particolare, il dipendente, con normale interlocuzione, aveva palesato l’invito a coprire il volto almeno “con il collo della felpa”, “come fanno tanti sprovvisti di mascherina”, riscontrando, tuttavia, la reiezione dell’avventore, il quale sosteneva che “le mascherine le portano i malati” e dava del “ladro” sia al prestatore che all’impresa, lamentandosi successivamente sui social network della “scortesia” ricevuta.
Al riguardo, il giudice ha escluso l’illiceità della condotta contestata, respingendo l’opposizione della società datrice, che riteneva il lavoratore inadempiente degli obblighi contrattuali, per aver “disatteso le indicazioni aziendali” previste nel periodo di emergenza pandemica e aver danneggiato “gravemente” l’immagine dell’impresa.
Ciò, in primo luogo, perché le espressioni utilizzate dal prestatore, che non risultavano né idonee a ledere l’altrui dignità, né erano state percepite come tali dal cliente, costituivano “una reazione verbale giustificata dall’esasperazione per una condotta altrui omissiva, denotante ignorante sottovalutazione del fenomeno pandemico, accompagnata da frasi villane e sprezzanti della salute propria e degli altri clienti, oltreché del cassiere”.
In secondo luogo, perché, per il giudice, la condotta del dipendente palesava un esercizio lecito del diritto costituzionalmente garantito a svolgere la prestazione in condizioni di sicurezza (v. artt. 32, 35 e 41, co. 2, Cost.) e l’inadempimento, inoltre, risultava giustificato dall’esimente dello stato di necessità, che consentiva al prestatore, anche in assenza di una specifica disposizione di legge, di astenersi dal lavoro “poiché lo svolgimento della prestazione lo esponeva ad un rischio di danno alla persona”.
Ciò, considerato che il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia, è tenuto ad adottare le cautele necessarie, ai sensi dell’art. 2087 c.c., a salvaguardare l’integrità psicofisica e morale del lavoratore, comprese quelle previste dai protocolli condivisi di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid- 19 negli ambienti di lavoro stipulati da Governo e Parti sociali.
Per tali ragioni, il Tribunale ha confermato l’ordinanza, emessa in via cautelare, che aveva ritenuto ingiustificato il licenziamento, in quanto intimato in ragione di un fatto privo di rilievo disciplinare, disponendo la reintegrazione del prestatore nel posto di lavoro.