Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 marzo 2021, n. 6718

Lavoratore socialmente utile, Espletamento di attività
amministrative con le modalità proprie del rapporto subordinato,
Configurabilità di un diritto soggettivo del lavoratore alla stabilizzazione

 

Rilevato che

 

1. la Corte d’Appello di Ancona ha accolto solo
parzialmente l’appello proposto da R.T. avverso la sentenza del Tribunale di
Ascoli Piceno, che aveva rigettato tutte le domande proposte nei confronti
dell’A. – A.S.U.M. -, ed ha condannato l’Azienda al pagamento, a titolo di
risarcimento del danno, di quattro mensilità dell’ultima retribuzione globale
di fatto percepita;

2. la Corte territoriale ha premesso che
l’appellante era stata impiegata presso il laboratorio analisi per l’espletamento
di attività amministrative dal 6 giugno 2005 al 31 dicembre 2006 quale
lavoratrice socialmente utile, dal 1° gennaio al 2 maggio 2007 come volontaria
e successivamente in forza di contratti di collaborazione coordinata e
continuativa (dal 3 maggio al 2 novembre 2007, dal 16 novembre 2007 al 15
maggio 2008, dal 1° giugno al 31 agosto 2008, dal 2 dicembre 2008 al 1°
dicembre 2009);

3. il giudice d’appello ha ritenuto che la
prestazione, al di là del nomen iuris utilizzato dalle parti, fosse stata sempre
resa con le modalità proprie del rapporto subordinato, ma ha escluso che per
ciò solo l’appellante potesse pretendere di essere stabilizzata, perché, a
prescindere dalla questione della configurabilità di un diritto soggettivo del
lavoratore alla stabilizzazione, l’allegata prestazione di fatto dell’attività
lavorativa subordinata avrebbe potuto fondare solo una richiesta di pagamento
delle retribuzioni ex art. 2126 cod. civ., e
non integrare il requisito soggettivo richiesto dal legislatore, il quale ha
inteso valorizzare solo i rapporti precari formalizzati;

4. ha richiamato l’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001
per escludere che l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato potesse discendere dall’abusivo ricorso alla collaborazione
temporanea e dall’uso distorto del lavoro socialmente utile, che potevano
essere valorizzati solo in relazione alla dedotta violazione della clausola 5
dell’accordo quadro allegato alla direttiva
eurounitaria 1999/70/CE;

5. ha richiamato al riguardo giurisprudenza della
Corte di Giustizia per sostenere che sulla qualificazione formale del rapporto
non si può fare leva per privare il lavoratore a termine delle tutele
riconosciute dal diritto dell’Unione e pertanto ha ritenuto che, pur in assenza
della prova di un effettivo pregiudizio subito, dovesse essere riconosciuto il
risarcimento del “danno comunitario”, da liquidare, per le ragioni
indicate da questa Corte con la sentenza n. 27481/2014, facendo applicazione
dei criteri indicati dall’art.
8 della legge n. 604/1966;

6. il giudice d’appello ha escluso, invece, che
potesse essere liquidato, quale lucro cessante, il danno subito in ragione
della mancata stabilizzazione o, comunque, della mancata assunzione con
contratto di lavoro subordinato, ed ha rilevato che la direttiva non impone la
conversione del contratto a termine e che, mentre nell’impiego privato il
datore di lavoro il quale riceva la prestazione dissimulando la natura
subordinata del rapporto non compie alcun atto illecito, l’ente pubblico versa
in situazione di illegittimità nel momento in cui instaura un rapporto di
lavoro in violazione delle condizioni, delle forme e delle procedure previste
per il reclutamento;

7. per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso R.T. sulla base di due motivi, ai quali ha opposto difese l’A. con
tempestivo controricorso;

8. entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380 bis 1 cod. proc. civ.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo la ricorrente denuncia la
violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 94, della legge n.
244/2007 e dell’art. 1,
commi 519 e 558, della legge
n. 296/2006 e sostiene che contraddittoriamente la Corte d’appello, da un
lato, ha escluso di potere superare la qualificazione giuridica del contratto
intercorso fra le parti ai fini dell’affermazione del diritto alla
stabilizzazione, dall’altro, invece, nel quantificare il risarcimento del danno
spettante alla lavoratrice per l’abusiva reiterazione del contratto a termine,
ha tenuto conto dell’effettiva natura del rapporto, natura che andava
apprezzata anche ai fini della verifica delle condizioni necessarie per
accedere alla procedura di stabilizzazione;

1.1. evidenzia la ricorrente che la tesi della Corte
territoriale, secondo cui il legislatore avrebbe inteso sanare solo le
situazioni di precariato risultanti da atti formali, contrasta con il principio
fondamentale alla stregua del quale in tema di lavoro non ha rilievo il nomen
iuris, bensì occorre privilegiare la sostanza rispetto alla forma;

2. la seconda censura addebita alla sentenza
impugnata la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001
perché il risarcimento del danno, per svolgere la funzione di misura idonea a
sanzionare ed a prevenire l’abuso nella reiterazione del contratto a termine,
non può essere contenuto nei limiti previsti dall’art. 8 della legge n. 604/1966
ma deve essere almeno equivalente alla conversione negata e pertanto nella
fattispecie doveva essere correlato alle prevedibili utilità future che la
stabilizzazione avrebbe assicurato alla lavoratrice;

2.1. in via subordinata la T. rileva che il
parametro da utilizzare per la liquidazione equitativa doveva essere ricavato
dall’art. 18 della legge n.
300/1970 ed individuato nelle 15 mensilità che il datore di lavoro è tenuto
a corrispondere nel caso in cui il lavoratore eserciti l’opzione;

3. il primo motivo di ricorso è infondato perché la
sentenza impugnata, nell’escludere che potesse essere valorizzata, ai fini
della partecipazione alle procedure di stabilizzazione, l’instaurazione in via
di mero fatto del rapporto di impiego, ha deciso la controversia in conformità
al principio di diritto recentemente affermato da questa Corte secondo cui « le
norme sulla stabilizzazione del personale in servizio a tempo determinato costituiscono
una deroga al principio dell’accesso mediante concorso, di cui all’art. 97 Cost., e devono pertanto considerarsi
tassative, non potendo applicarsi, ai sensi dell’art.
14 delle preleggi, oltre i casi da esse regolati» (Cass. n. 21200/2020);

3.1. le disposizioni normative che vengono in
rilievo non consentono in alcun modo di valorizzare, ai fini dell’accesso alle
procedure, lo svolgimento solo in via di fatto di prestazioni di natura
subordinata, rese in difformità rispetto alla qualificazione formale del
rapporto intercorso fra le parti, perché l’art. 1, comma 519, della legge n.
296/2006 individua la platea dei destinatari mediante il richiamo al
«personale in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non
continuativi, o che consegua tale requisito in virtù di contratti stipulati
anteriormente alla data del 29 settembre 2006 o che sia stato in servizio per
almeno tre anni, anche non continuativi, nel quinquennio anteriore alla data di
entrata in vigore della presente legge, che ne faccia istanza, purché sia stato
assunto mediante procedure selettive di natura concorsuale o previste da norme
di legge» ed è chiaro, quindi, nel richiedere il requisito della formale
assunzione, requisito al quale fanno riferimento anche il periodo successivo
(Alle iniziative di stabilizzazione del personale assunto a tempo determinato
mediante procedure diverse si provvede previo espletamento di prove selettive)
ed il comma 558 della
disposizione sopra citata (….purché sia stato assunto mediante procedure
selettive di natura concorsuale o previste da norme di legge. Alle iniziative
di stabilizzazione de! personale assunto a tempo determinato mediante procedure
diverse si provvede previo espletamento di prove selettive) ;

3.2. analogamente i commi 529 e 560, richiamati dall’art. 3, comma 94, della legge n.
244/2007, nel prevedere la possibilità di bandire procedure selettive in
parte riservate, individua i destinatari della riserva nei soggetti i quali
«hanno stipulato uno o più contratti di collaborazione coordinata e
continuativa», escludendo anche in tal caso che possa rilevare un’attività resa
solo in via di mero fatto;

3.3. la giurisprudenza della Corte Costituzionale da
tempo ha evidenziato che un interesse pubblico idoneo a giustificare la deroga
al principio del pubblico concorso, al fine di valorizzare pregresse esperienze
professionali dei lavoratori assunti, può ricorrere solo in determinate circostanze
(Corte Cost. sentenza n. 167 del 2013), in
quanto se «il principio dettato dall’art. 97 Cost.
può consentire la previsione di condizioni di accesso intese a consolidare
pregresse esperienze lavorative maturate nella stessa amministrazione» (Corte Cost. n. 189 del 2011), occorre, tuttavia,
che «l’area delle eccezioni alla regola del concorso» sia «rigorosamente
delimitata» e non si risolva «in una indiscriminata e non previamente
verificata immissione in ruolo di personale esterno attinto da bacini
predeterminati» (Corte Cost. n. 227 del 2013 richiamata dalla più recente Corte Cost. n. 113 del 2017 in tema di passaggio
da società privata ad ente pubblico);

3.4. sulla base dei richiamati principi è stata
affermata l’illegittimità delle leggi regionali che avevano esteso la platea
dei destinatari delle procedure di stabilizzazione sul rilievo che spetta al
legislatore nazionale individuare i limiti entro i quali si può consentire
l’accesso all’impiego pur in assenza di concorso pubblico ed a tal fine «non è
in particolare sufficiente la semplice circostanza che determinate categorie di
dipendenti abbiano prestato attività a tempo determinato presso
l’amministrazione, né basta la “personale aspettativa degli
aspiranti” ad una misura di stabilizzazione» (Corte
Cost. n. 51/2012 che richiama Corte Cost. n.
150/2010);

3.5. la giurisprudenza del Giudice delle leggi,
pertanto, esclude che le norme qui in rilievo possano essere applicate oltre i
casi tassativamente previsti e che ai fini dell’accesso alla procedura al
requisito dell’assunzione con contratto a tempo determinato, obiettivamente
verificabile in quanto documentato, possa essere equiparata l’instaurazione di
fatto di un rapporto diverso da quello formalmente intercorso fra le parti;

3.6. al riguardo giova rammentare che nell’impiego
pubblico contrattualizzato la difformità con il tipo contrattuale, in
violazione delle norme imperative che fissano i limiti e le condizioni per il
ricorso al lavoro flessibile, produce ex art. 36 d.lgs. n. 165/2001
la nullità del rapporto e consente solo di invocare le tutele di cui all’art. 2126 cod. civ., tutele nelle quali,
evidentemente, non può essere ricompresa la partecipazione alla procedura di
stabilizzazione;

3.7. nessuna contraddizione, pertanto, si riscontra
nella sentenza impugnata, perché correttamente la Corte territoriale, dopo
avere accertato che gli schemi formali del lavoro socialmente utile e della
collaborazione coordinata e continuativa erano stati utilizzati per instaurare
di fatto un rapporto di natura subordinata a tempo determinato, abusivamente
reiterato, da un lato ha escluso, in conformità ai principi richiamati nei
punti che precedono, l’accesso alle procedure di stabilizzazione, dall’altro,
però, ha valorizzato il profilo fattuale al solo fine di riconoscere la tutela
risarcitoria imposta dal diritto dell’Unione in caso di abuso del rapporto a
termine;

3.8. così ragionando il giudice d’appello è
pervenuto a conclusioni conformi al principio di diritto affermato da questa
Corte secondo cui «qualora la P.A. faccia ricorso a successivi contratti
formalmente qualificati di collaborazione coordinata e continuativa e il
lavoratore ne alleghi l’illegittimità anche sotto il profilo del carattere
abusivo della reiterazione del termine, il giudice è tenuto ad accertare se di
fatto si sia instaurato un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato e
a riconoscere al lavoratore, in assenza dei presupposti richiesti dalla legge
per la reiterazione, il risarcimento del danno, alle condizioni e nei limiti
necessari a conformare l’ordinamento interno al diritto dell’Unione europea»
(Cass. n. 10951/2018);

3.9. il primo motivo, pertanto, seppure ammissibile
in quanto le richiamate pronunce di questa Corte si collocano in epoca successiva
alla notifica del ricorso, deve essere rigettato in ragione della sua
infondatezza;

4. merita, invece, accoglimento, nei soli limiti di
seguito precisati, la seconda censura;

la sentenza impugnata contrasta con il principio di
diritto, affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, alla stregua del quale
« in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva
reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, del d.lgs.
n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività
della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza
12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso – siccome
incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo,
può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della I. n. 183
del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile
come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo,
salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una
posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico,
atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile,
per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito.» (Cass.
S.U. 15.3.2016 n. 5072);

4.1. con la richiamata pronuncia, alla quale le
stesse Sezioni Unite hanno dato continuità con la successiva sentenza n.
19165/2017, si è in sintesi osservato che, ove venga in rilievo la clausola 5
dell’accordo quadro allegato alla direttiva
1999/70/CE, il diritto dell’Unione non impone la conversione del rapporto a
termine in contratto a tempo indeterminato, giacché può costituire una misura
adeguata anche il risarcimento del danno;

4.2. nell’impiego pubblico contrattualizzato, poiché
la conversione è impedita dall’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001,
attuativo del precetto costituzionale dettato dall’art.
97 Cost., il danno risarcibile, derivante dalla prestazione in violazione
di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori
da parte della P.A, consiste di norma nella perdita di chance di un’occupazione
alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi
dell’art. 1223 c.c.;

4.3. peraltro, poiché la prova di detto danno non
sempre è agevole, è necessario fare ricorso ad un’interpretazione orientata
alla compatibilità comunitaria, che secondo la giurisprudenza della Corte di
giustizia richiede un’adeguata reazione dell’ordinamento volta ad assicurare
effettività alla tutela del lavoratore, sì che quest’ultimo non sia gravato da
un onere probatorio difficile da assolvere;

4.4. sulla questione qui controversa è, poi,
recentemente intervenuta la Corte di Lussemburgo che, chiamata a pronunciare
sulla conformità al diritto dell’Unione, dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001,
come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, ha evidenziato che « la
clausola 5 dell’accordo quadro dev’essere interpretata nel senso che essa non
osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso
abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una
successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al
lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata
trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di
lavoro a tempo indeterminato bensì, dall’altro, prevede la concessione di
un’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione di detto
lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per quest’ultimo, di ottenere il
risarcimento integrale del danno» anche facendo ricorso, quanto alla prova, a
presunzioni (Corte di Giustizia 7.3.2018 in causa C-494/16 Santoro);

5. nel caso di specie la Corte territoriale se, da
un lato, ha correttamente ritenuto che il danno dovesse essere liquidato anche
in assenza di prova del pregiudizio subito dal lavoratore, dall’altro ha errato
nel commisurare lo stesso all’indennità prevista dall’art. 8 della legge n. 604/1966,
perché l’agevolazione probatoria, imposta dal diritto dell’Unione, deve essere
concessa nel rispetto dei limiti minimi e massimi fissati dall’art. 32 della legge n. 183/2010,
sostituito dall’art. 28 del
d.lgs. n. 81/2015, e, quindi, la liquidazione deve tener conto di una
disciplina più favorevole, quanto al limite massimo, rispetto a quella
applicata dal giudice di merito;

6. non può, invece, la ricorrente pretendere che ai
fini del risarcimento del danno venga apprezzata la mancata stabilizzazione,
giacché valgono al riguardo, mutatis mutandis, le medesime considerazioni
espresse dalle Sezioni Unite in relazione alla conversione del rapporto;

6.1. la stabilizzazione, infatti, al pari della
conversione, è nella specie impedita dalla disciplina analizzata nei punti che
precedono e, pertanto, si è in presenza di un pregiudizio che non può essere
ritenuto ingiusto e che, tra l’altro, non è conseguenza diretta ed immediata
della reiterazione, di fatto, del rapporto a termine, reiterazione che, al contrario,
costituisce, nei casi di formale assunzione, un presupposto necessario per
l’accesso alla procedura;

6.2. alle considerazioni che precedono si deve, poi,
aggiungere che l’assunzione a termine per la durata e nei limiti temporali
richiesti dalla normativa qui in rilievo non costituisce l’unico requisito
sufficiente ai fini della stabilizzazione perché, come hanno chiarito le
Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. n. 1778/2011), quest’ultima richiede
il rispetto delle ulteriori condizioni imposte dalla legge n. 296/2006, quanto alle disponibilità
finanziarie, alle dotazioni organiche, alla programmazione triennale del
fabbisogno, nonché il preventivo svolgimento di procedure selettive qualora il
personale da stabilizzare non le abbia già sostenute e superate per accedere al
lavoro flessibile;

7. in via conclusiva merita accoglimento, nei limiti
sopra indicati, il solo secondo motivo di ricorso e la sentenza impugnata deve
essere cassata con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che
procederà ad un nuovo esame, attenendosi ai principi di diritto enunciati nei
punti da 4 a 6.2., provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità;

7.1. non sussistono le condizioni di cui all’art. 13 c. 1 quater d.P.R. n. 115 del
2002.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il secondo motivo di ricorso nei termini
indicati in motivazione e rigetta il primo motivo. Cassa la sentenza impugnata
in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’Appello di Ancona, in
diversa composizione, alla quale demanda di provvedere anche sulle spese del
giudizio di cassazione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 marzo 2021, n. 6718
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