Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 marzo 2021, n. 6497
Licenziamento, Sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione,
Obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità
di adattamenti organizzativi
Fatti di causa
1. Con sentenza del 1° ottobre 2018, la Corte di
Appello di Milano ha confermato la pronuncia di primo grado nella parte in cui
aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato a G. V. il 31 marzo 2016
dalla ASF A. Srl per sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione e, in
parziale riforma di essa dal punto di vista della tutela applicabile, ha
condannato la società “a reintegrare ex art. 18, co. 4, I. n. 300/1970
(il lavoratore) … nonché a corrispondergli a titolo risarcitorio le
retribuzioni globali di fatto maturate dal giorno del licenziamento a quello
dell’effettiva reintegrazione (nei limiti delle dodici mensilità globali di
fatto)”, oltre accessori. ,
2. La Corte, premessa l’applicabilità dell’art. 3, comma 3 bis, del d. Igs. n. 216
del 2003, di recepimento dell’art. 5 della direttiva
2000/78/CE, ha ritenuto sussistere, in capo al datore di lavoro, un
“obbligo generale di adottare tutte quelle misure – “accomodamenti
ragionevoli” – atte ad evitare il licenziamento, anche quando queste incidano
sull’organizzazione dell’azienda”, salvo il limite dell’eventuale
sproporzione degli oneri a carico dell’impresa.
In ragione di ciò la Corte territoriale ha condiviso
la valutazione effettuata dl Tribunale, argomentando che “non è
sufficiente che la società ASF A. abbia provato che in biglietteria vi fossero
lavoratori con profilo professionale superiore a quello posseduto dal V. e che
l’organigramma non prevedesse ulteriori addetti in quell’ufficio”; infatti
l’azienda avrebbe dovuto “dimostrare che la destinazione del lavoratore
portatore di handicap in tale ufficio avrebbe imposto un onere finanziario sproporzionato
o comunque eccessivo anche con riferimento alla formazione professionale”.
Per la Corte milanese il datore di lavoro, invece, si è “limitato ad
affermare l’impossibilità del repéchage del dipendente fisicamente inidoneo
secondo gli usuali criteri (statici) vigenti in tema di giustificato motivo
oggettivo per soppressione delle mansioni”. “Lo stesso discorso –
prosegue la sentenza d’appello – vale in relazione al possibile reimpiego del
lavoratore nelle mansioni di lavaggio autobus (non essendo rilevante il fatto
che nell’organigramma non fosse prevista la figura del pulitore esclusivo) o in
quelle di verificatore in affiancamento ad altro collega”. Infine la Corte
ha aggiunto che la circostanza che l’azienda non si fosse affatto posta “il
problema di trovare ragionevoli situazioni per ricollocare” il dipendente
emergeva chiaramente dalla deposizione del medico competente, il quale, sentito
come testimone, aveva dichiarato di non essere mai stato incaricato
dall’azienda di esprimere una valutazione in merito ad altre possibili mansioni
cui adibire il lavoratore con disabilità.
4. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso la società soccombente con 2 motivi; ha resistito con controricorso G.
V..
Ragioni della decisione
1. Con il primo articolato motivo di ricorso si
denuncia: “Violazione e i falsa applicazione degli articoli 5 della Direttiva n.
78/2000/CE, 3, comma 3 bis, del
dl. Igs. n. 216 del 2003, 3
e 5 della I. n. 604 del 1966, 41
del d. Igs. n. 81 del 2008, 41 Cost. (art. 360 n. 3 c.p.c.)”.
Per la ricorrente la sentenza impugnata sarebbe
erronea in quanto avrebbe affermato che l’obbligo, in capo al datore di lavoro,
“di adottare tutte quelle Misure accomodamenti ragionevoli” – atte a
evitare il licenziamento del lavoratore divenuto inidoneo (portatore di
handicap) alle specifiche mansioni” incontrerebbe il limite dato
dall’eventuale sproporzione degli oneri a carico dell’impresa, ma non anche
quello della modificazione delle modalità di svolgimento della prestazione
lavorativa a carico dei singoli colleghi dell’invalido.
Si lamenta che la Corte milanese avrebbe
“operato una – non consentita – valutazione sostitutiva delle prerogative
esclusive del datore di lavoro”, individuando posizioni alternative
“per le quali ASF (sin dalla prima fase del primo grado) aveva dedotto
specifiche circostanze, tutte non contestate da controparte, dalle quali si
evince sia la situazione di pieno organico sia l’impossibilità di adibire il
Sig. V. alle predette posizioni”. Si ribadisce quindi che “la società
si trovava in una condizione di pieno organico … ergo non vi erano posizioni
scoperte in organigramma a cui, anche solo potenzialmente, adibire il Sig.
V.”. Per altro aspetto si critica la sentenza impugnata per avere la Corte
“erroneamente attribuito al medico competente della società una funzione
che allo stesso, per legge, non competeva, ossia quella di esprimere
valutazioni in merito a possibili mansioni a cui adibire il lavoratore divenuto
inidoneo alla mansione/portatore di handicap”.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione
dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., a
mente dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.,
atteso che la società aveva dedotto specifiche circostanze, tutte non contestate,
dalle quali si evinceva “sia la situazione di pieno organico sia
l’impossibilità di adibire il Sig. V. alle predette posizioni”, non
adeguatamente valutate dalla Corte territoriale che avrebbe così addossato un
improprio onere probatorio sul datore di lavoro.
2. I motivi, congiuntamente esaminabili per
reciproca connessione, pongono la questione dell’interpretazione e
dell’applicazione dell’art. 3, comma
3 bis, del d. Igs. 9 luglio 2003, n. 216, ad una ipotesi di licenziamento
di lavoratore divenuto fisicamente inidoneo alla mansione.
Essi sono infondati per le ragioni che seguono.
3. Al fine di un ordinato iter motivazionale è
opportuno premettere la ricognizione delle fonti di diritto positivo – nei limiti
in cui le stesse sono ritenute rilevanti nel giudizio che ci occupa – che
regolano la res litigiosa, anche integrate dagli interventi del diritto
sovranazionale, i quali hanno dato impulso alla legislazione interna e ne
condizionano l’interpretazione.
3.1. Il d. Igs. n. 216
del 2003, nel dare “Attuazione della direttiva
2000/78/UE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di
condizioni di lavoro”, ha stabilito, tra l’altro, che “Il principio
di parità di trattamento senza distinzione … di handicap … si applica a
tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di
tutela giurisdizionale” con specifico riferimento anche alla seguente
area: “occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di
carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento” (art. 3,
comma 1, lett. b).
In seguito a condanna dell’Italia da parte della
Corte di Giustizia dell’Unione Europea per inadempimento alla citata direttiva
(sentenza 4 luglio 2013, C-312/2011,
Commissione europea/Repubblica Italiana), il d.l. 28 giugno 2013, n. 76 (art.
9, comma 4-ter), conv. con modif. dalla I. 9 agosto 2013, n. 99, ha inserito
nel testo dell’art. 3 del d. Igs. n.
216 del 2003, un comma 3 bis del seguente tenore: “Al fine di
garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone
con disabilita, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare
accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite
sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3
marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con
disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro
pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o
maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie, e
strumentali disponibili a legislazione vigente”.
Rispetto a tale previsione di carattere generale,
che non riguarda esclusivamente la materia dei licenziamenti, nel diritto
interno si rinviene una disciplina settoriale nella I.
12 marzo 1999, n. 68, recante “Norme per il diritto al lavoro dei
disabili” attraverso “servizi di sostegno e di collocamento
mirato”.
Fermo il principio che “Il datore di lavoro non
può chiedere al disabile una prestazione non compatibile con le sue
minorazioni” (art. 10, co.
2, I. n. 68 del 1999), nel caso di aggravamento delle condizioni di salute
del soggetto assunto come invalido ai fini del collocamento obbligatorio,
aggravamento tale da porre problemi di compatibilità con la prosecuzione
dell’attività lavorativa, “il disabile ha diritto alla sospensione non
retribuita del rapporto di lavoro fino a che l’incompatibilità persista” e
“il rapporto di lavoro può essere risolto nel caso in cui, anche attuando
i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la predetta commissione
(ndr. la commissione integrata di cui all’art. 4 della I. n. 104 del 1992)
accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno
dell’azienda” (art. 10, co.
3, I. n. 68 del 1999).
La stessa legge, per “i lavoratori che
divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di
infortunio o malattia”, stabilisce che “l’infortuni,o o la malattia
non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui essi
possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni
inferiori” (art. 4, co. 4,
I. n. 68 del 1999). Sulla medesima linea si colloca l’art. 42 del d. Igs. 9 aprile 2008,
n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di
lavoro, secondo il quale il datore di lavoro, ove le misure indicate dal medico
competente prevedano una inidoneità alla mansione specifica, “adibisce il
lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni
inferiori”.
Sul fronte delle tutele, i più recenti interventi
legislativi hanno previsto disposizioni specifiche per il caso del
licenziamento del lavoratore in condizione di inidoneità fisica o psichica
ovvero di disabilità.
In particolare, il comma 7 dell’art. 18 della I. n 300 del 1970,
come modificato dalla I. 28 giugno 2012 n. 92, ha previsto l’applicazione della
reintegrazione nel posto, di lavoro e del pagamento di un’indennità non
superiore a 12 mensilità per il caso in cui si accerti “il difetto di
giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della I. n. 68 del
1999, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica
del lavoratore”.
L’art.
2 del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23 ha riconosciuto, invece, la tutela
reintegratoria piena oltre che al “licenziamento discriminatorio” anche
a quello illegittimo “per difetto di giustificazione per motivo
consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore”, con
analogo riferimento agli articoli della I. n. 68
del 1999.
In proposito, vale subito evidenziare che, nella
controversia in esame, non vi è motivo di impugnazione che riguardi la tutela
applicabile ovvero la natura discriminatoria del licenziamento, temi che
pertanto esorbitano dall’oggetto del contendere in questa sede di legittimità,
per cui il richiamo alle disposizioni che governano le conseguenze
sanzionatorie del licenziamento difforme dal modello legale è utile al fine di
completare sistematicamente la cornice disciplinatoria e consente, da ultimo,
di rammentare l’art. 3 della I.
n. 604 del 1966, al quale tradizionalmente, si riconduce, talvolta
unitamente agli artt. 1463 e 1464 c.c., il recesso per giustificato motivo
oggettivo in caso di impossibilità della prestazione lavorativa dovuta a
sopravvenuta infermità permanente del lavoratore (v. Cass. SS.UU. n. 7755 del
1998, secondo cui l’art. 3
della I. n. 604 del 1966 “costituisce specificazione, e non deroga, di
quelle norme codicistiche”).
3.2. Il contesto normativo sovranazionale trova
nella “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con
disabilità”, adottata il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva
dall’Italia con I. n. 18 del 2019, approvata a nome della Comunità europea con
la decisione 2010/48/CE del Consiglio del 26 novembre 2009, il riconoscimento
del “diritto al lavoro delle persone con disabilità, su base di
uguaglianza con gli altri” (art. 27).
La Convenzione definisce (art. 2) per
“discriminazione fondata sulla disabilità qualsivoglia distinzione,
esclusione o restrizione sulla base della disabilità Che abbia lo scopo o
l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o
l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e
delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale,
civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione,
compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole”; per
“accomodamento ragionevole” intende
“le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non
impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessita
in casi particolari, per garantire alle
persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con
gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
In ambito comunitario, la direttiva
2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di
condizioni di lavoro, dopo una serie di considerando, all’art. 1 sancisce che essa
“… mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni
fondate (su) … gli handicap … per quanto concerne l’occupazione e le
condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il
principio della parità di trattamento”. L’art. 5 poi, intitolato
“Soluzioni ragionevoli per i disabili”, statuisce: “Per
garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili,
sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro
prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni
concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o
di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che
tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere
finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché
l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della
politica dello Stato membro a favore dei disabili”.
4. Dalla ricognizione operata emerge un quadro
complesso, frutto di successive stratificazioni normative, sovente non
coordinate tra loro, di livello interno e internazionale, che sollecitano, per
quanto possibile, la funzione nomofilattica della giurisprudenza di
legittimità, nella specie resa non agevole dalla concorrenza di fonti composite
e multilivello.
Riguardo l’ambito di applicazione della direttiva 78/2000/CE e dell’art. 3, comma bis, del d. Igs. n. 216
del 2003, che ne costituisce attuazione, questa Corte, posto che il
licenziamento rientra tra le condizioni di lavoro protette dalla direttiva, ha
ritenuto, con indirizzo conforme, che il fattore soggettivo dell’handicap non è
ricavabile dal diritto interno ma unicamente dal diritto dell’Unione Europea (Cass. n. 6798 del 2018; Cass. n. 13649 del 2019; Cass. n. 29289 del 2019), secondo il quale si
tratta di, “una limitazione, risultante in particolare da menomazioni
fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di
diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione
dell’interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri
lavoratori” (CGUE sentenze 11 aprile 2013, HK
Dannnark, C-335/11 e ,C- 337/11, punti 38- 42; 18
marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre
2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1 dicembre 2016, Mo. Da. C-395/15, punti
41-42). Grava sul lavoratore che ne abbia interesse allegare e dimostrare di
trovarsi nelle condizioni descritte (Cass. n.
27502 del 2019).
Giova in proposito evidenziare che nella
controversia in esame non è in contestazione che il V. si trovasse in una
situazione soggettiva di handicap, rilevante ai fini della disciplina
richiamata.
Quanto agli “accomodamenti ragionevoli”,
questa Corte ha statuito che “in tema di licenziamento per inidoneità
fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante pia una condizione di handicap,
sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della
possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai
fini della legittimità del recesso”, secondo una interpretazione conforme
agli obiettivi della direttiva 2000/78/CE (Cass. n. 6798/2018 cit.; conf. Cass. n. 13649/2019
cit.; nella prima pronuncia si è altresì specificato che “il giudizio
espresso in concreto sulla ragionevolezza delle soluzioni è giudizio di fatto
sindacabile da questa Corte nei limiti di deducibilità del vizio di
motivazione”).
Successivamente, ribadito il principio che, ai fini
della legittimità del licenziamento del lavoratore per inidoneità fisica
sopravvenuta, sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di
lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi, si è ritenuto che gli
stessi debbano essere adottati “secondo il parametro (e con il limite)
della ragionevolezza”; in particolare occorre tenere conto “del
limite costituito dall’inviolabilità in peius (art.
2103 c.c.) delle posizioni lavorative degli altri prestatori di
lavoro” nonché evitare “oneri organizzativi eccessivi (da valutarsi
in relazione alle peculiarità dell’azienda ed alle relative risorse
finanziarie)”, stante l’esigenza del “mantenimento degli equilibri
finanziari dell’impresa” (Cass. n. 27243 del
2018; in conformità v. Cass. n. 6678 del 2019
e Cass. n. 18556 del 2019).
Di recente Cass. n.
34132 del 2019, rammentato che l’art. 2 della Convenzione di New York del
2006 considera quale accomodamento ragionevole “le modifiche e gli
adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato
ed eccessivo”, ha cassato la sentenza impugnata onde consentire al giudice
del rinvio “la valutazione della proporzionalità e della non eccessività
delle misure di adattamento … sia rispetto all’organizzazione aziendale sia
con riguardo agli altri lavoratori”.
5. Tanto premesso, il Collegio reputa che il ricorso
per cassazione possa essere disatteso sulla base delle regole che ripartiscono
gli oneri di allegazione e prova gravanti sulle parti nella fattispecie di
impugnativa del licenziamento sottoposta al suo esame, non senza aver preliminarmente
definito i confini dell’obbligo del datore di lavoro.
5.1. Fermo il dato di diritto positivo, stabilito
dal comma 3 bis dell’art. 3 del
dIgs. n. 216 del 2003, secondo cui ogni datore di lavoro, pubblico o
privato, è tenuto “ad adottare accomodamenti ragionevoli”, anche in
caso di licenziamento, per garantire il rispetto del principio di parità di
trattamento delle persone con disabilità, non’ è possibile predeterminare in
astratto l’esatto contenuto dell’obbligo.
Il legislatore, infatti, ha deliberatamente scelto
di trasporre nell’ordinamento interno la formula delle fonti sovranazionali, in
dichiarata attuazione della direttiva n. 78/2000/CE,
affidandosi ad una nozione a contenuto variabile – categoria dogmatica estesa,
nell’ambito della quale possono variamente collocarsi clausole generali, norme
elastiche, concetti giuridici indeterminati, finanche i principi – che ha come
caratteristica strutturale proprio l’indeterminatezza: consapevole
dell’impossibilità di una tipizzazione delle condotte prescrivibili, il
legislatore ha conferito all’interprete il compito di individuare lo specifico
contenuto dell’obbligo, guidato dalle circostanze del caso concreto.
Interprete inteso, prima di tutto, come operatore
che deve conformare la propria condotta al parametro normativo, al fine di
renderla legittima; interprete poi, laddove eventualmente sorga contesa, come
giudice che è chiamato a dirimerla. Per entrambi questa Corte è chiamata a
fornire criteri di giudizio anche nei casi in cui il contenuto indeterminato
della norma è destinato a misurarsi con la variabilità del reale, onde comunque
orientare l’attività degli interpreti.
5.2. L’attività di ascrizione di significato alla
norma non può che muovere dal dato testuale.
Il termine “accomodamento”, che nella
lingua italiana richiama propriamente l’idea dell’accordo ovvero
dell’adeguamento o della regolazione di uno strumento meccanico, è in realtà la
trasposizione lessicale pedissequa dall’inglese “accomodation”,
presente nella Convenzione ONU del 2006, alla quale esplicitamente rinvia il
comma 3 bis dell’art. 3 più volte citato per la definizione del termine, e
presente anche nella versione inglese dell’art. 5 della direttiva
2000/78/CE, sebbene tradotto in quella italiana con “soluzioni
ragionevoli”.
Nell’art. 2 della Convenzione per
“accomodamenti” si intendono “le modifiche e gli adattamenti
necessari ed appropriati” che si debbano adottare “per garantire alle
persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con
altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
Parallelamente l’art. 5 della direttiva dell’Unione
europea in materia, cui occorre fare riferimento in chiave di interpretazione
conforme quale aspetto dell’interpretazione sistematica della disciplina in
esame, parla di “provvedimenti appropriati” del datore di lavoro,
“in funzione delle esigenze delle situazioni concrete”, per
consentire ai disabili di accedere ad un lavoro e di svolgerlo.
Si tratta dunque di adeguamenti, lato sensu,
organizzativi che il datore di lavoro deve porre in essere al fine di
“garantire il principio della parità di trattamento dei disabili” e
che si caratterizzano per la loro “appropriatezza”, ovvero per la
loro idoneità a consentire alla persona
svantaggiata di svolgere l’attività lavorativa.
Vale rimarcare che l’adozione di tali misure
organizzative è prevista in ogni fase
del rapporto di lavoro, da quella genetica sino a quella della sua risoluzione,
non essendo specificamente destinate a prevenire un licenziamento.
A riprova, il considerando 20 della direttiva
elenca, in via esemplificativa e sicuramente non tassativa, quali “misure
efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione
dell’handicap”, la sistemazione dei locali, l’adattare le attrezzature, il
regolare i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti, il fornire mezzi di
formazione o di inquadramento.
La Corte di Giustizia statuisce che il concetto di
“soluzioni ragionevoli” deve essere inteso nel senso che si riferisce
all’eliminazione delle barriere di diversa natura che ostacolano la piena ed
effettiva partecipazione dei disabili alla vita professionale su base di
uguaglianza con gli altri lavoratori (sentenze
dell’11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11, punto 54; del 4 luglio 2013, Commissione/Italia, C-312/11,
punto 59; dell’11 settembre 2019, DW, C-397/18, punto 64) e la prima pronuncia
individua quale possibile adattamento ragionevole la riduzione dell’orario di
lavoro.
5.3. Chiarito con esempi non esaustivi il vasto
raggio degli accomodamenti ipotizzabili, un limite espresso all’adozione di
essi è rinvenibile nella definizione della Convenzione ONU del 2006 – cui
rinvia anche la norma dell’ordinamento interno – laddove si specifica che tale
accomodamento non deve imporre “un onere sproporzionato o eccessivo”.
L’art. 5 della direttiva europea in materia conferma
che il datore di lavoro , è obbligato, salvo che i provvedimenti appropriati
richiedano “un onere finanziario sproporzionato”, specificando poi
che “tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in
modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato
membro a favore dei disabili”.
Il considerando 21 chiarisce che “per
determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari
sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o
di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie
dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi
pubblici o altre sovvenzioni”.
Detto limite economico è stato già sottolineato da
questa Corte (Cass. n. 27243/2018 cit.),
richiamando Cass. SS.UU. n. 7755 del 1998 che
ha legittimato il rifiuto dell’imprenditore all’assegnazione del lavoratore,
divenuto fisicamente inidoneo all’attuale attività, a mansioni diverse, ove
comporti “oneri organizzativi eccessivi”, pronuncia a sua volta
ispirata dalla giurisprudenza costituzionale dell’epoca sulla
“autodeterminazione” della organizzazione interna dell’impresa
“in modo che ne vengano preservati
gli equilibri finanziari” (cfr. Corte Cost. n.
78 del 1958; Corte Cost. n. 316 del 1990;
Corte Cost. n. 356 del 1993).
5.4. Al limite espresso della “sproporzione”
del costo si affianca quello dell’aggettivo che qualifica l’accomodamento come
“ragionevole”.
Limite ulteriore perché dotato di autonoma valenza
letterale, atteso che se l’unica ragione per esonerare il datore di lavoro dal
porre in essere l’adattamento, fosse l’onere “sproporzionato”, allora
non sarebbe stato necessario aggiungere il “ragionevole”.
Infatti, se può sostenersi che ogni costo
sproporzionato, inteso nella sua accezione più ampia di “eccessivo”
rispetto alle dimensioni ed alle risorse finanziarie dell’impresa, renda
l’accomodamento di per sé irragionevole, non è necessariamente vero il
contrario, perché non può escludersi che, anche in presenza di un costo
sostenibile, circostanze di fatto rendano la modifica organizzativa priva di
ragionevolezza, avuto riguardo, ad esempio, all’interesse di altri lavoratori
eventualmente coinvolti.
Il criterio della ragionevolezza, tradizionalmente
utilizzato nei giudizi di legittimità costituzionale come controllo di
razionalità della legge, penetra anche i rapporti contrattuali, quale forma di
osservanza del “canone di correttezza e buona fede che presidia ogni
rapporto obbligatorio contrattuale ai sensi degli artt.
1175 e 1375 c.c. ” (cfr. Cass. SS.UU.
n. 5457 del 2009) e che risulta “immanente all’intero sistema giuridico,
in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost.” (cfr. Cass. SS.UU. n. 15764 del 2011; v. pure Cass. SS.UU. n. 23726 del 2007; cfr. Cass. SS. UU. n. 18128 del 2005), esplicando
“la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto
obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi
dell’altra” (Cass. SS.UU. n. 28056 del 2008).
In particolare, le Sezioni unite civili (sent. n. 4570 del 1996) hanno già da tempo
evidenziato che “la verifica di ragionevolezza … è stata sempre imposta
dalla giurisprudenza di questa Corte in tutti i casi in cui si debba stabilire
una comparazione dei diritti e delle aspettative in materia di lavoro
(concorsi, promozioni, licenziamenti collettivi ecc.)” ed “il tramite
per un controllo di ragionevolezza sugli atti di autonomia individuale è
rappresentato dalle clausole generali di correttezza e buona fede”: Esse
“agiscono all’interno del rapporto e consentono al giudice di accertare
che l’adempimento di un obbligo, contrattualmente assunto o legislativamente
imposto, avvenga avendo come punto di riferimento i valori espressi nel
rapporto medesimo e nella contrattazione collettiva” (successive conf.:
Cass. n. 8296 del 2001; Cass.:n. 7752 del 2003;
Cass. n. 11429 del 2006; Cass. n. 14322 del 2016).
Se può tuttavia dubitarsi, nonostante talune
suggestioni dottrinali, che, sulla base del diritto vivente (v. Cass. SS.UU.
nn. 6030, 6031, 6032, 6033, 6034 del 1993), possa configurarsi nei rapporti di
lavoro un obbligo giuridico a valenza generale ,di “ragionevolezza”
nell’esercizio dell’attività di impresa, tale da consentire un esteso sindacato
giudiziale diretto ed ex post di congruità causale degli atti del datore di
lavoro, non è invece discutibile che, laddove il legislatore esplicitamente
stabilisca, – come nella specie – che la condotta datoriale debba essere
improntata al canone della ragionevolezza, il controllo sia dovuto anche su
questo specifico profilo.
Stante la natura indeterminata della clausola di
“ragionevolezza” non possono essere dettate, in astratto,
prescrizioni cogenti che prescindano dalle circostanze del caso concreto:
l’accomodamento infatti postula una interazione fra una persona individuata, con
le sue limitazioni funzionali, e lo specifico ambiente di lavoro che la
circonda, interazione che, per la sua variabilità, non ammette
generalizzazioni. Non a caso anche l’art. 5 della direttiva 2000/78/CE
individua i provvedimenti appropriati che il datore di lavoro deve prendere
“in funzione delle esigenze delle situazioni concrete”.
Tuttavia dalla connotazione della ragionevolezza
come espressione dei più ampi doveri di buona fede e correttezza nei rapporti
contrattuali si possono trarre indicazioni metodologiche utili per orientare
prima il destinatario della norma ad individuare il comportamento dovuto e poi,
eventualmente, il giudice, al fine di misurare l’esattezza dell’adempimento
dell’obbligo di accomodamento nella concretezza del caso singolo.
Detta collocazione sistematica consente di fare capo
a quella ricca giurisprudenza che identifica la buona fede oggettiva o
correttezza come criterio di determinazione della prestazione contrattuale, costituendo
fonte di integrazione del comportamento dovuto che impone a ciascuna delle
parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere
tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale
del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite
unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, sulla scorta di una
nota dottrina, al compimento di tutti gli atti giuridici e materiali che si
rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella
misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (tra
le tante: Cass. n. 14605 del 2004; Cass. n. 20399 del 2004; Cass. n. 13345 del
2006; Cass. n. 15669 del 2007; Cass. n. 10182 del 2009; Cass. n. 17642 del
2012; da ultimo, con riferimenti, v. Cass. n. 8494 del 2020).
Inoltre la collocazione valorizza il piano esecutivo
dell’adempimento dell’obbligo, in una ipotesi inevitabilmente caratterizzata da
spazi di indeterminatezza e da margini liberi di azione, in cui il criterio di
qualificazione dell’agire ragionevole, quale modello di comportamento a misura
d’uomo, diventa essenziale regola di governo della discrezionalità in
executivis.
Infine perché la funzione diretta alla protezione
della controparte ed il dovere di ciascun contraente di cooperare alla
realizzazione dell’interesse altrui < pongono metodologicamente al centro
dell’operazione interpretativa l’esigenza di una valutazione comparata di tutti
gli interessi in gioco, al fine di un bilanciato contemperamento.
Così pure nel caso degli accomodamenti occorrerà
soppesare gli interessi giuridicamente rilevanti delle parti coinvolte:
l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo
stato fisico e psichico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole
difficoltà; poi l’interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione
lavorativa utile per l’impresa, tenuto conto che l’art.
23 Cost. vieta prestazioni assistenziali, anche a carico del datore di
lavoro, se non previste per legge (Cass. SS.UU. n.
7755/1998 cit.) e che la stessa direttiva
2000/78/CE, al suo considerando 17, “non prescrive … il mantenimento
dell’occupazione … di un individuo non competente, non capace o non
disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione”;
non può, infine, aprioristicamente escludersi che la modifica organizzativa
coinvolga, in maniera diretta o indiretta, altri lavoratori, sicché ,in tal
caso, fermo il limite non valicabile del pregiudizio a situazioni soggettive
che assumano la consistenza di diritti
soggettivi altrui, occorrerà valutare comparativamente anche l’interesse di
costoro. All’esito di questo complessivo apprezzamento, potrà dirsi ragionevole
ogni soluzione organizzativa praticabile che miri a salvaguardare il posto di
lavoro del disabile in un’attività che sia utile per l’azienda e che imponga
all’imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio
che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo
“la comune valutazione sociale” di tale formula v. Cass. SS.UU. n.
5688 del 1979, che, proprio a proposito dell’integrazione del comportamento
dovuto dal datore di lavoro ex art. 1175 c.c.,
ha ritenuto che quest’ultimo deve “ritenersi vincolato non solo a non
frapporre ostacoli alla realizzazione dell’interesse dell’altra parte, ma anche
a fare tutto ed esattamente quanto la comune valutazione sociale consideri
necessario”).
5.5. L’inadempimento dell’obbligo di accomodamento
ragionevole, già inteso da questa Corte – nella giurisprudenza innanzi
richiamata – come condizione di legittimità del licenziamento del lavoratore
disabile, integra certamente il “difetto di giustificazione” del
recesso, cui si riferiscono sia l’art. 18, co. 7, I. n. 300/70
novellato (v. Cass. n. 26675 del 2018), sia l’art. 2 del d. Igs. 23 del 2015,
riconoscendo una tutela reintegratoria, sebbene diversificata, anche a
prescindere dalla riqualificazione dell’atto come “discriminatorio”
che è dibattuta questione la quale, come già precisato in premessa, per ragioni
processuali esorbita dal tema della presente decisione. Illegittimità dell’atto
risolutivo che genera una tutela ripristinatoria, coerentemente con gli
orientamenti di questa Corte che, pur escludendo in generale che la violazione
di obblighi quali la correttezza e la buona fede da parte.del debitore della
prestazione possano determinare l’invalidità dell’atto, giustificando piuttosto
una pretesa risarcitoria, non hanno mai dubitato che il legislatore possa
isolare specifiche fattispecie comportamentali, elevando la relativa
proibizione al rango di norma di validità dell’atto, pur trattandosi di
disposizioni particolari non elevabili a principio generale (cfr. Cass. SS.UU.
n. 26724 del 2007; v., in precedenza, Cass. SS,UU.
n. 9804 del 1993, in tema di conseguenze connesse all’inadempimento delle
regole di correttezza e buona fede nei concorsi privati e nelle promozioni).
Questa Corte ha già riconosciuto come la tutela
ripristinatoria ex art. 18,
comma 4; I. n. 300/1970 novellato, anche nel caso di licenziamento
collettivo in violazione della quota di riserva prescritta dall’art. 3 della I. n. 68 del 1999,
sia opzione interpretativa rispettosa del dettato normativo e conforme alla
finalità della disciplina – anche sovranazionale – posta a speciale protezione
del disabile (v. Cass. n. 26029 del 2019)
5.6. L’obbligo di accomodamento ragionevole concorre
con le discipline specifiche cui si è già fatto cenno.
Così per i soggetti assunti come invalidi ai fini
del collocamento obbligatorio, nel caso di aggravamento delle condizioni di
salute, il rapporto di lavoro può essere risolto solo nel caso in cui,
“anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del
lavoro”, la commissione integrata di cui all’art. 4 della I. n. 104/92
“accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno
dell’azienda” (art. 10, co.
3, I. n. 68 del 1999).
L’art.
4, co. 4, della stessa legge, per i lavoratori che divengono inabili allo
svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia,
stabilisce che tali eventi “non costituiscono giustificato motivo di
licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti
ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori”.
Tale obbligo datoriale di repéchage, anche in
mansioni inferiori, del dipendente inidoneo alla mansione è stato poi
generalizzato dall’art. 42 del d.
Igs. n. 81 del 2008, ma già vigeva nel diritto vivente sulla scorta del
principio stabilito dalla più volte richiamata sentenza
n. 7755 del 1998 delle Sezioni unite di questa Corte.
Evidentemente l’impossibilità di ricollocare il disabile,
adibendolo a diverse mansioni comunque compatibili con il suo stato di salute,
non esaurisce gli obblighi del datore di lavoro che intenda licenziarlo,
perché, laddove ricorrano i presupposti di applicabilità dell’art. 3, co. 3 bis, d. Igs. n. 216 del
2003, dovrà comunque ricercare possibili “accomodamenti
ragionevoli” che consentano il mantenimento del posto di lavoro, in una
ottica di ottimizzazione delle tutele giustificata dall’adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà sociale (art. 2 Cost.),
tanto più pregnanti in caso di sostegno a chi versa in condizioni di
svantaggio.
6. Delineati i confini dell’obbligo di
“accomodamento ragionevole” gravante sul datore di lavoro, possono
essere esaminate le conseguenziali regole che ripartiscono gli oneri di
allegazione e prova in un giudizio avente ad oggetto una fattispecie di
impugnativa del licenziamento quale quella sottoposta all’esame del Collegio.
Come in ogni ipotesi di licenziamento per
giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della I. n. 604 del 1966,
l’onere della prova della sussistenza delle giustificazioni nell’esercizio del
potere di recesso spetta al datore di lavoro a mente dell’art. 5 della stessa
legge.
Nella specie il datore di lavoro deve provare la
sopravvenuta inidoneità fisica o psichica del lavoratore e l’impossibilità di
ricollocare il medesimo in altre posizioni lavorative per l’espletamento di
mansioni, eventualmente anche inferiori, compatibili con il suo stato di
salute.
Si rammenta che, in generale, in ogni ipotesi di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sia le ragioni inerenti
all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare
funzionamento di essa, sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore
rappresentano presupposti di legittimità del recesso (per tutte v. Cass. n. 10435 del 2018).
Secondo la più recente giurisprudenza di questa
Corte, poi, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova
dell’impossibilità di repéchage del dipendente licenziato, senza che sul
lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (Cass. n. 5592 del 2016; Cass. n. 12101 del 2016; Cass. n. 20436 del 2016; Cass. n. 160 del 2017; Cass. n. 9869 del 2017; Cass. n. 24882 del 2017; Cass. n. 27792 del 2017).
Trattandosi di prova negativa, il datore di lavoro
ha sostanzialmente l’onere di fornire la prova di fatti e circostanze esistenti,
di tipo indiziario o presuntivo, idonei a persuadere il giudice della
veridicità di quanto allegato circa l’impossibilità di una collocazione
alternativa del lavoratore nel contesto aziendale (ancora Cass n. 10435/2018 cit.; v. pure sull’utilizzo
del metodo presuntivo in materia Cass. n. 23789
del 2019). Usualmente si prova che nella fase concomitante e successiva al
recesso per un congruo periodo, non sono avvenute nuove assunzioni oppure sono
state effettuate per mansioni richiedenti una professionalità non posseduta dal
prestatore (v., ad ex., Cass. n. 22417 del 2009; ma pure: Cass. n. 9369 del
1996; Cass. n. 13134 del 2000; Cass. n. 3040 del 2010).
A questi oneri che tradizionalmente gravano sul
datore di lavoro, in caso di applicazione dell’art. 3, co. 3 bis, d. Igs. 216 del 2003,
si aggiunge quello distinto relativo all’adempimento dell’obbligo di
accomodamento ragionevole, pure esso inteso come condizione di legittimità del
recesso.
Pertanto, a fronte del lavoratore che deduca e provi
di trovarsi in una condizione di limitazione, risultante da menomazioni
fisiche, mentali o psichiche durature secondo il diritto dell’Unione europea,
quale fonte dell’obbligo datoriale di ricercare soluzioni ragionevoli che
potessero evitare il licenziamento causato dalla disabilità, graverà sul datore
di lavoro l’onere di provare di aver adempiuto all’obbligo di
“accomodamento” ovvero che l’inadempimento sia dovuto a causa non
imputabile.
In tale situazione di riparto non è certo
sufficiente per il datore semplicemente allegare e provare che non fossero
presenti in azienda posti disponibili , in cui ricollocare il lavoratore, come
si trattasse di un ordinario repéchage, così creando una sovrapposizione con la
dimostrazione, comunque richiesta, circa l’impossibilità di adibire il disabile
a mansioni equivalenti o inferiori compatibili con il suo stato di salute.
Né spetta al lavoratore, o tanto meno al giudice,
individuare in giudizio quali potessero essere le possibili modifiche
organizzative appropriate e ragionevoli idonee a salvaguardare il posto di
lavoro, sovvertendo l’onere probatorio e richiedendo una collaborazione nella
individuazione degli accomodamenti possibili non prevista neanche per il
repéchage ordinario in mansioni inferiori, oramai esteso dal recesso per
sopravvenuta inidoneità fisica alle ipotesi di soppressione del posto di lavoro
per riorganizzazione aziendale (ab imo, Cass. n.
21579 del 2008; conf. Cass. n. 23698 del 2015;
Cass. n. 4509 del 2016; Cass. n. 29099 del 2019; Cass. n. 31520 del 2019). Le stesse ragioni che
hanno spinto questa Corte a rimeditare un risalente orientamento che chiedeva
al lavoratore che impugnava il licenziamento l’allegazione dell’esistenza di
altri posti nei quali egli potesse essere utilmente ricollocato, ragioni quali
(cfr. Cass. n. 5592/2016 cit.) l’inappropriata
divaricazione tra oneri di allegazione e prova, l’impossibilità di alterare
surrettiziamente l’onere sancito dall’art. 5 I. n. 604/66, il
principio di riferibilità o vicinanza della prova di fatti attinenti ad una
organizzazione aziendale rispetto alla quale il lavoratore è estraneo, militano
nel senso che, anche nella specie, vadano applicati i principi generali che
regolano il riparto degli oneri di allegazione e prova nell’adempimento delle
obbligazioni così come stabiliti da Cass. SS. UU. n. 13533 del 2001.
Al fine di non sconfinare in forme di responsabilità
oggettiva, per verificare l’adempimento o meno dell’obbligo legislativamente
imposto dall’art. 3, comma 3 bis, d.
Igs. n. 216 del 2003, occorre avere presente il contenuto del comportamento
dovuto, così come definito nel paragrafo precedente, e che esso si caratterizza
non tanto, in negativo, per il divieto di comportamenti che violano la parità
di trattamento, quanto piuttosto per il suo profilo di azione, in positivo,
volta alla ricerca di misure organizzative ragionevoli idonee a consentire lo
svolgimento di un’attività lavorativa, altrimenti preclusa, a persona con
disabilità. In tale prospettiva, l’onere gravante sul datore di lavoro potrà
essere assolto mediante la deduzione del compimento di atti o operazioni
strumentali rispetto all’avveramento dell’accomodamento ragionevole, che
assumano il rango di fatti secondari di tipo indiziario o presuntivo, i quali
possano indurre nel giudicante il convincimento che il datore abbia compiuto
uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa
appropriata che scongiurasse il licenziamento, avuto riguardo a ogni
circostanza rilevante nel caso concreto.
Ovviamente il datore di lavoro potrà anche
dimostrare che eventuali soluzioni alternative, pur possibili, fossero prive di
ragionevolezza, magari perché coinvolgenti altri interessi comparativamente
preminenti, ovvero fossero sproporzionate o eccessive, a causa dei costi
finanziari o di altro tipo ovvero per le dimensioni e le risorse dell’impresa.
Del resto questa Corte ha già avuto occasione di
affermare, peraltro a proposito dell’art. 42, d.lgs. n. 81 del 2008
il quale prevede, come già detto, che il lavoratore divenuto inabile alle
mansioni specifiche possa essere assegnato anche a mansioni equivalenti o
inferiori, che nell’inciso “ove possibile” si contempera “il
conflitto tra diritto alla salute ed al lavoro e quello al libero esercizio
dell’impresa, ponendo a carico del datore di lavoro l’obbligo di ricercare –
anche in osservanza dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione
del rapporto – le soluzioni che, nell’ambito del piano organizzativo prescelto,
risultino le più convenienti ed idonee ad assicurare il rispetto dei diritti
del lavoratore e lo grava, inoltre, dell’onere processuale di dimostrare di
avere fatto tutto il possibile, nelle condizioni date, per l’attuazione dei
detti diritti” (in termini: Cass. n. 13511
del 2016).
7. Alla stregua delle considerazioni che precedono
la sentenza impugnata non merita le censure che le sono mosse, comunque non
tali da determinarne la cassazione.
Infatti, come riportato nello storico della lite,
nella pronuncia è individuabile una ragione fondante la decisione di per sé
sufficiente a sorreggerla, sulla base dei principi innanzi esposti.
Per la Corte territoriale, nel giudizio, il datore
di lavoro “si è limitato ad affermare l’impossibilità del repéchage del
dipendente fisicamente inidoneo secondo gli usuali criteri (statici) vigenti in
tema di giustificato motivo oggettivo per soppressione delle mansioni”; in
particolare la società – secondo la Corte – aveva solo provato che nella
biglietteria l’organigramma non prevedesse ulteriori addetti e analogamente
aveva fatto per il possibile reimpiego del lavoratore nelle mansioni di
lavaggio autobus o in quelle di verificatore in affiancamento ad altro collega;
inoltre nessuna dimostrazione era stata fornita che la destinazione alternativa
del lavoratore portatore di handicap “avrebbe imposto un onere finanziario
sproporzionato o comunque eccessivo anche con riferimento alla formazione
professionale”.
Per quanto detto, ai fini dell’adempimento
dell’obbligo previsto dall’art. 3,
co. 3 bis, d. Igs. n. 216 del 2003, non era sufficiente per la società
allegare e provare che non fossero presenti in azienda posti disponibili in cui
ricollocare il lavoratore,
sovrapponendo la dimostrazione circa l’impossibilità
di adibire il V. a mansioni equivalenti o inferiori compatibili con il suo
stato di salute con il distinto onere di ricercare altre soluzioni ragionevoli,
né tanto meno era sufficiente trincerarsi dietro la mera affermazione che di
accomodamenti praticabili non ve ne fossero, lamentando che il lavoratore non
ne aveva individuati. Ancora con i . motivi di ricorso parte datoriale insiste
che l’azienda era in “condizione di pieno organico” e che “non
vi erano posizioni scoperte in organigramma”, come si discutesse solo di
una ordinaria violazione dell’obbligo di repéchage, mentre non evidenzia alcun
atto o operazione strumentale rispetto all’avveramento dell’accomodamento
ragionevole che potesse indurre nei giudici del merito il convincimento che
fosse stato compiuto quello sforzo diligente ed esigibile per trovare una
soluzione organizzativa che evitasse il recesso; anzi, si critica pure quella
parte della sentenza impugnata in cui la Corte territoriale, del tutto
plausibilmente, ha invece argomentato che la circostanza che l’azienda non si
fosse affatto posta “il problema di trovare ragionevoli situazioni per
ricollocare” il dipendente emergeva con chiarezza dalla deposizione del
medico competente, il quale, come teste, aveva dichiarato di non essere mai
stato richiesto dalla società di esprimere valutazioni in ordine al
ricollocamento del V..
Tanto basta per giustificare il rigetto dell’appello
della società da parte della Corte milanese, anche a prescindere dalla
successiva valutazione operata circa misure ipotizzabili che coinvolgessero
singoli colleghi dell’invalido, e per ogni altro aspetto le censure involgono
apprezzamenti di fatto, peraltro conformemente svolti in entrambi i gradi di
merito, che non possono essere rivisitati in questa sede di legittimità.
8. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto,
con le spese che seguono il regime della soccombenza liquidate come da
dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228
del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1-bis dello stesso art. 13
(cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al
pagamento delle spese liquidate in euro 5.500,00, oltre euro 200,00 per
esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il
ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.